Fontamara
Letteratura italiana
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LA SEMPLICE COMPLESSITÀ DEI CAFONI
Fontamara di Silone rappresenta, in maniera eccellente, lo spaccato di una realtà che fa male ancora oggi. I cafoni, gente apparentemente semplice, Silone ce le regala in tutte le loro sfaccettature, persone ricche di personalità e considerate “inferiori” esclusivamente per la loro cultura diversa dalla massa, una cultura del lavoro, contadina che non ha nulla a che fare con la società a cui siamo abituati. Una cultura che vuole assecondare il ritmo della natura e non le leggi inutili, spesso violente e ingannevoli del potere.
Leggendo immaginavo la bellezza di quelle terre d’Abruzzo, paesaggi che conosco bene e che adoro, dipinti naturali che un tempo saranno stati sicuramente ancora più belli e suggestivi.
Tra questo scenario da favola si racconta una storia di soprusi e prevaricazioni, di violenze e umiliazioni, un racconto che fa trasparire tutta la crudezza di quel periodo senza utilizzare immagini raccapriccianti o effetti speciali. Si viene colpiti allo stomaco da un pugno e spesso sentiamo l’odore del sangue senza vederne una goccia. Un parallelismo mi viene spontaneo con Hitchcock, tenere alta la tensione, suscitare forti emozioni e grandi riflessioni senza descrivere minuziosamente ogni singola scena, questo credo sia la grandezza di un artista.
Silone usa una penna “leggera”, “semplice” e allo stesso tempo maestosa, sfruttando la voce dei cafoni che si alternano nella narrazione e descrivono un periodo drammatico della nostra storia, un periodo che andrebbe approfondito per capire meglio chi siamo, da dove arriviamo e forse dove andremo in futuro.
Una storia, tante vite, un unico filo conduttore, come un letto d’acqua che è vita per quelle terre, terre che sono la vita di quei cafoni, l’acqua usata dal potere come arma di “distruzione”, per sottomettere o eliminare chi si oppone.
La politica del più forte, del: “o sei con me o contro di me” che si fa largo tra la gente di ogni tipo, dal contadino al professionista e chi è contrario deve essere eliminato, non serve, nella migliore delle ipotesti messo ai margini estremi della società senza diritto di replica.
Fanno molto riflettere queste vicende, fa pensare al dolore che i nostri nonni hanno dovuto subire in uno dei periodi più bui della nostra storia.
Leggere Fontamara è stato un’esperienza forte, uno stimolo a riflettere su quello che è stato, mi ha fatto pensare al nostro presente, ma soprattutto a quello che potrebbe essere il nostro futuro, nella speranza che follie di massa così drammatiche non si verifichino mai più, perché a certe cose spesso, o si soccombe o ci si adegua.
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Che fare?
I "cafoni", scrive Ignazio Silone, sono asini che ragionano. A forza di seguire questa brutta abitudine, hanno capito alcune cose: che c'è sempre da pagare, innanzitutto; che dove non si paga c'è imbroglio; che quando c'è la guerra si paga di più. La cosa più importante che hanno capito è che i padroni cambiano e cambiano i governi, ma il giogo, per loro, per i poveri cafoni, è sempre lo stesso. Le prepotenze dei fascisti avranno un colore diverso da quelle dei piemontesi, che a loro volta hanno un colore diverso da quelle dei Borbone, ma sempre prepotenze rimangono. Tutto cambia, tutto resta uguale in un mondo scandito dalla fatica sempre uguale, dalle stagioni sempre uguali, dai lavori dei campi sempre uguali, dalle giornate sempre uguali tra casa, bestiale fatica, quattro chiacchiere all'osteria per capire qualcosa di cose che resteranno per sempre avvolte nel buio misterioso della legge, della politica, dell'economia e che lasciano i cafoni sempre e comunque poveri, disperati, ingannati, sfruttati. Vittime, prima che dei padroni, di un'ignoranza così profonda da renderli del tutto inconsapevoli dei meccanismi che determinano la loro condizione, e così diventano, per assurdo, quasi complici di coloro che li ingannano e li opprimono. I cafoni sanno bene cosa siano la povertà e lo sfruttamento, la fame è tutto ciò che conoscono e mai conosceranno, ma parole come governo, elezioni, dittatura, democrazia non sono altro che questo, parole. L'unico significato che possono avere è il solo che i poveri cafoni sanno dare alle cose: che per loro la speranza non esiste.
I cafoni sono giunti dalla prospettiva opposta alla stessa conclusione del Tancredi di Tomasi di Lampedusa: se i potenti fanno in modo che le cose cambino nel modo giusto, quando non si può più evitare che cambino, tutto resterà uguale e loro continueranno a imbrogliare, arricchirsi e comandare mentre i cafoni continueranno a piangere sangue nelle loro misere case simili a grotte, nelle strade polverose, nei campi riarsi bruciati dal sole. La prospettiva non è quella di una futura classe dirigente, certo, ma il concetto non cambia, proprio come non cambierà la magra esistenza dei cafoni: da una vita di disperazione non esiste riscatto. E se qualcuno, più coraggioso, più disperato o più pazzo degli altri prova a ribellarsi, a reclamare il diritto al lavoro, alla terra, alla vita, che succede? Le bandiere fasciste, nere e con i teschi, il colore e il simbolo della morte, annunciano la risposta.
Che fare, allora, se sembra che non esista speranza? "Che fare?", come il nome del giornale che i fontamaresi si mettono in testa di stampare (e forse non a caso è anche il titolo di un celebre saggio di Tolstoj proprio sulla povertà e lo sfruttamento delle masse umili), firmando così una condanna a morte, per denunciare i soprusi del governo fascista, una creatura misteriosa che li ha posti davanti a qualcosa di completamente nuovo? Perché anche prima c'erano i ladri, gli assassini e gli stupratori, ma questa volta agiscono nel nome della legge e del governo, che li ha accolti tra le proprie fila. E allora davvero non può più esserci nessuna speranza. Che fare, dunque, quando tutto è inutile? Che fare?
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I cafoni nel resto del mondo.
«Parliamo e non ci capiamo» disse scoraggiato. «Parliamo la stessa lingua, ma non parliamo la stessa lingua»
Piccolo e lontano dalla città, con i suoi ottomila cafoni o poco più, è sito un paesino il cui nome è noto come Fontamara. È un luogo, questo, dove la povertà e l’ignoranza regnano sovrane. I cafoni abitano in casupole rose dal tempo e dall’impossibilità di lavori idonei al ripristino delle buone condizioni e al contempo vivono dell’agricoltura e dei lavori a giornata che riescono a ricavare. Le donne, dal loro canto, sono affaccendate nella cura della casa, la crescita della prole e la dedizione al San Rocco e al buon Dio che da lassù veglia sulle loro povere anime. Presi in giro e burlati dai cittadini, isolati dal resto del mondo e dagli avvenimenti, i fontamaresi, non conoscono del fascismo, non conoscono della tessera, pensano al broglio laddove gli venga chiesto di dover firmare, perché sicuramente c’è l’inganno, c’è da pagare qualcosa. Nei loro volti e nelle loro vite non c’è traccia di speranza, di miglioramento. Il loro unico codice di legge, il loro unico sapere è quello dettato dalle consuetudini che da padre in figlio si sono trasmesse.
Accanto a questa miseria e a questa disperazione silenziosa e inconsapevole, perché i cafoni non sanno che può esserci una possibilità di riscatto, una possibilità di vincere le ingiustizie e cambiare le cose al loro favore (magari con un minimo di istruzione), vi è una realtà fatta di corruzione e inganni. Una realtà, cioè, dove i ricchi proprietari terrieri, i preti conniventi, i rappresentanti della legge, i vecchi e i nuovi rappresentanti politici, i fascisti, regnano quali sovrani indiscussi per la tutela dei propri più intimi e smisurati interessi. Sono uomini, siffatti, che non si fanno scrupoli o remore nell’approfittare dell’ignoranza altrui, dell’ignoranza di chi non ha gli strumenti materiali per rendersi conto dell’inganno e difendersi dal medesimo. Perché dunque abbandonarsi a remore dal sottrarre a codesti cafoni quel poco che ancora è rimasto loro? Perché non privarli del tratturo comunale, dell’acqua della fonte, di qualche lira dal salario a favore dell’Impresario o del nuovo avente diritto di turno?
Questo e molto altro ancora è “Fontamara” di Ignazio Silone, un’opera che oltre che ad essere caratterizzata da una trama forte, ben delineata e ancora tanto, troppo attuale, è altresì caratterizzata da uno stile narrativo ben studiato e arguto. Se decidere di dedicarvi alla lettura, constaterete infatti, che l’autore adotta, almeno in apparenza, una forma linguistica molto semplice e lineare che di fatto cela al suo interno grande ironia e acume. L’effetto di questa impostazione sarà quello di far sì che il conoscitore si immedesimi senza difficoltà nei contadini diffidando, al contempo di coloro che vivono nell’agio e che fanno del benessere la loro costante. I sotterfugi vengono percepiti dall’esterno ed è difficile restare inermi innanzi alla manipolabilità dei soggetti più deboli. Non solo, suddetta penna, riesce a far rivivere lo stato di quegli anni tanto che questo risulta tangibile con mano. Un disincanto, quindi, che dà vita ad una vera e propria fotografia dei meccanismi dell’esistenza con annessi e connessi imbrogli e egoismi umani. Badate bene però, anche quelli degli stessi cafoni sono rappresentati. Silone non si risparmia nemmeno su questi ultimi evidenziando, come, gli stessi non facciano alcunché per migliorare la propria condizione – unica oltretutto e ribadisco conosciuta – e come al contempo, innanzi alla fame, siano i primi a cedere ai biechi interessi individuali e egoistici arrivando a cercare qualcuno di ancora più misero da divorare continuando, però, a farsi sfruttare e calpestare da chi li sta usurpando dei loro diritti e della loro dignità.
Il lettore è posto innanzi ad un problema, è chiamato alla riflessione, è chiamato a interrogarsi su questa ipocrisia delle istituzioni e di un mondo in cui tutto sembra destinato all’immutabilità. E man mano che prosegue nel componimento materialmente desidera poter fare qualcosa per aiutare queste ingenue e sfavorite persone.
Una testimonianza quella contenuta in questo scritto per lo ieri ma anche per l’oggi risultando essere ancora fortemente attuale.
«”Coi padroni non si ragiona, questa è la mia regola. Tutti i guai dei cafoni vengono dai ragionamenti. Il cafone è un asino che ragiona. Perciò la nostra vita è cento volte peggiore di quella degli asini veri che non ragionano (o, almeno, fingono di non ragionare). L’asino irragionevole porta 70, 90, 100 chili di peso; oltre non ne porta. L’asino irragionevole ha bisogno di una certa quantità di paglia. Tu non puoi ottenere da lui quello che ottieni da una vacca, o dalla capra, o dal cavallo. Nessun ragionamento lo convince. Nessun discorso lo muove. Lu non ti capisce (o finge di non capire). Ma il cafone invece, ragiona. Il cafone può essere persuaso. Può essere persuaso a digiunare. Può essere persuaso a dare la vita per il suo padrone. Può essere persuaso ad andare in guerra. Può essere persuaso che nell’altro mondo c’è l’inferno benché lui non l’abbia mai visto. Vedete le conseguenze. Guardatevi intorno e vedete le conseguenze.”
Per noi quello che Berardo diceva, non era una novità. Ma Innocenzo La Legge era atterrito.
“Un essere irragionevole non ammette il digiuno. Dice: se mangio lavoro, se non mangio non lavoro” continuò Berardo. “O meglio, neppure lo dice, perché allora ragionerebbe, ma per naturalezza così agisce. Pensa dunque un po’ se gli ottomila uomini che coltivano il Fucino, invece di essere asini ragionevoli, cioè addomesticabili, cioè convincibili, cioè esposti al timore del carabiniere, del prete, del giudice, fossero invece veri somari, completamente privi di ragione. Il principe potrebbe andare per elemosina. Tu sei venuto qui, o Innocenzo, e tra poco, nella via buia, farai ritorno al capoluogo. Che cosa può impedire a no di accopparti? Rispondi.
Innocenzo avrebbe voluto balbettare qualche cosa, ma non poté; era livido come uno straccio.
“Ce lo può impedire” continuò Berardo “il ragionamento delle possibili conseguenze dell’assassinio. Ma tu, Innocenzo, di tua mano, hai scritto su quel che cartello, che da oggi, per ordine del podestà, sono proibiti i ragionamenti. Tu hai rotto il filo al quale era legata la tua incolumità.»
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“Si può vincere contro il destino?”
C’era una volta nel Fucino, e forse ancora c’è, un piccolo paese contadino, uguale a tanti altri: Fontamara.
Questa però non è una fiaba, in cui la povertà è rappresentata in una fusione di armonia, solidarietà e speranza, sempre premiata da qualche buona fattucchiera. È la realtà, dolorosa e amarissima.
Le abitazioni non sono linde casupole dalle tendine ricamate, ma catapecchie annerite e sgretolate, in cui uomini e bestie respirano la stessa aria di rassegnata e grigia sofferenza. I campi non sono fruttuose terre in cui risuonano i cori dei contadini al lavoro, ma aridi lembi di terra aggrappati alla montagna, da cui strappare con fatica una manciata di grano e legumi. In quegli occhi affamati non c’è traccia di speranza, e nemmeno più di rabbia, perché le generazioni passate hanno insegnato loro che questo è l’unico destino possibile.
Ma i campi non sono tutti sassosi e le pance non sono tutte vuote. Accanto alla verità della miseria ce n’è un’altra, assai più amara e indigesta, fatta di corruzione, di inganni, di soprusi. Ricchi proprietari terrieri, preti conniventi, vecchi rappresentanti politici e nuovi fascisti. Tutti ad approfittare dell’ignoranza di chi non ha gli strumenti per capire e ancor meno per difendersi. Tutti pronti a sottrarre agli inermi cafoni quel poco rimasto loro: il tratturo comunale, l’acqua della fonte, qualche lira di salario.
Fontamara non è semplicemente un’opera convincente e interessante, è un vero e proprio capolavoro, capace di raggiungere una completezza a tuttotondo, contenutistica e stilistica. Silone sceglie di raccontare l’oppressione e lo fa parlando di gente semplice, con voce semplice. Senza allusioni, senza retorica, senza sottintesi, perché è la verità stessa a disvelarsi nella sua chiarezza. Senza calcare sui toni del dolore, perché è grazie ad uno sguardo ironico e disincantato che si possono leggere i meccanismi della realtà, riconoscendo gli imbrogli delle leggi e gli egoismi degli uomini. Anche quelli degli stessi cafoni che, di fronte alla fame, cercano solo qualcuno ancor più misero da divorare, lasciandosi invece calpestare e sfruttare da chi li sta privando dei propri diritti e della propria dignità.
La forza narrativa delle immagini e delle emozioni racchiuse in queste pagine è indiscutibile. Il lettore si ritrova a camminare per le strade di Fontamara in una sorta di comunione con i personaggi. Vorrebbe fare qualcosa per difenderli dalla loro stessa ingenuità, per smascherare l’ipocrisia delle istituzioni e punire gli sfruttatori, invece si ritrova impotente, come loro, imprigionato in un mondo in cui nulla si può fare, nulla si può cambiare. Costretto a domandarsi, oggi come ieri, “che fare?”.
Per questo Fontamara è una testimonianza che merita indubbiamente di essere ricordata e conosciuta da tutti.
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Amaro da digerire
Silone è in Svizzera, esiliato, lontano dal suo paese ma pur sempre attivo. Questo romanzo inizia così:
“Una sera che la nostalgia si era fatta in me pungente, con mia grande sorpresa ho trovato sull’uscio della mia abitazione, seduti contro la porta quasi addormentati, tre cafoni, due uomini e una donna, che senza esitazione ho subito riconosciuti per Fontamaresi…. Quello che han detto, è in questo libro”.
Siamo a Fontamara, un piccolo paesino sperduto in Abruzzo abitato da cafoni, ma chi sono i cafoni?
““E noi?” gli rispondemmo. “Non siamo cristiani anche noi?”
“Voi siete cafone” ci rispose quello. “Carne abituata a soffrire””.
Gente abituata a soffrire ma non solo, anche credulona:
““Ecco, intendiamoci”, riprese Innocenzo “intendiamoci, non si tratta di tasse, vi giuro su tutti i santi che non si tratta di pagare. Se si tratta di tasse, che Dio mi tolga la vista”.
Vi fu una piccola pausa, giusto il tempo di permettere a Dio di esaminare il caso. Innocenzo conservò la vista.
“Continua” gli comandò Berardo”.
Ricapitolando, gente abituata a soffrire, credulona e perennemente “fregata”:
““La legge è fatta dai “cittadini”, è applicata dai giudici, che sono tutti “cittadini”, è interpretata dagli avvocati, che sono tutti “cittadini”. Come può un contadino aver ragione?””
Con questa premessa volevo cercare di chiarire la posizione dei cafoni e soprattutto il periodo storico, quello degli anni ’30, in cui queste vicende si svolgono. Silone in prima persona, grazie ai suoi tre protagonisti, racconta i fatti avvenuti che riguardano la popolazione di Fontamara, ma direi di qualsiasi paesino del tempo. La sua visione è molto ampia perché raccoglie le testimonianze viste dalla parte delle donne, dalla parte degli uomini e anche dalle future generazioni grazie alla parte che viene raccontata dal figlio. In tutto questo narrare spicca la figura di Berardo, ovvero colui che più di altri rappresenta bene quello che l’autore vuol raccontare e far arrivare al lettore.
Con un linguaggio semplice e diretto, come solo quello dei cafoni può essere, Silone racconta un capitolo molto triste della nostra storia dove il bene di pochi prevale su tutto. Parole che lasciano davvero l’amaro in bocca soprattutto per la loro veridicità. L’ironia non manca.
Silone non delude, dopo “La scuola dei dittatori”, che mi aveva piacevolmente colpito, mi ritrovo qui a consigliare anche la lettura di questo romanzo. Un autore ironico, diretto e molto attuale.
Buona lettura!
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Che fare?
Esautorato da ogni possibile attivismo, esule scampato al disordine interno della sua patria, disilluso dalla sua stessa statura morale che non gli permise di gradire la svolta stalinista del suo partito, solo a Davos, in Svizzera, lo scrittore abruzzese ricercò la compagnia della penna , scrivendo questo importante romanzo, e della sua terra, rappresentandola stretta nella morsa della storia fatta dagli usurpatori, di qualunque specie, e di suoi tre compaesani, i quali immagina a loro volta esuli al suo cospetto.
Inizia così il romanzo, con l’intento di raccontare ciò che è stato di Fontamara, piccolo paese della Marsica, inesistente nella carta geografica ma lì, vivo, nel Fucino, come tanti. Il racconto è affidato proprio alle voci narranti dei tre esuli: padre, madre e figlio. La loro vita e le loro peripezie restituiscono il travaglio dell’intera comunità pur focalizzandosi sul destino di alcuni piccoli uomini e di alcune piccole donne.
Il candore della narrazione affidata ai tre compaesani ha la potenza di rappresentare, senza intermediazione alcuna, in un abile stratagemma narrativo, lo stupore e l’ingenuità di una comunità che ha registrato per secoli la realtà su determinati schemi mentali,su logiche assodate, e che ora non ha alcun strumento per dare lettura alla realtà cambiata. Non ha cultura, il cafone, per evitare gli imbrogli, non ha informazioni per capire il segno dei tempi mutati, non conosce problema che non sia direttamente riconducibile alla sua stretta e grama esistenza. Lo sguardo lungo può giungere solo a capire i minimi scarti registrabili in una corta scala sociale: non c’è movimento, ormai, neppure minimo. Ognuno è condannato al suo stato sociale. Berardo, la figura tragica della narrazione, rappresenta questo immobilismo e il misero tentativo di combatterlo. Le oscure figure che dettano le regole attuali, i fascisti, possono essere contrastate se si vuole modificare la propria condizione; si assiste così ad un’ evoluzione politica dello spirito di questo emblematico personaggio che, mosso da un intento di riscatto individuale, si immola ad una causa senza in fondo capire bene la sua scelta depauperata dalla sua carica idealista, venute meno le premesse individuali che lo portarono all’azione.
La narrazione ha il pregio di restituire l’impatto della barbarie fascista sui poverini cafoni , ignoranti, ingenui, inconsapevoli e vittime fin troppo gratuite di un artificio storico. Le pagine si nutrono di una sottile e amara vena ironica che la realtà stessa determina nel tentativo di decodifica di un quid astruso, incomprensibile, sfuggente che è però capace di suscitare almeno una domanda: “Che fare?”
Amaro ma fondamentale.
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Le stranezze, quando cominciano, chi le ferma più?
Un centinaio di case fatiscenti disposte in maniera irregolare, come un gregge di pecore, dominate da una piccola piazza e dal campanile di una chiesa senza prete: questa è Fontamara, misero centro rurale del Fucino interamente abitato da “cafoni”, cioè da contadini poveri e ignoranti. Qui la vita scorre immutabile da secoli, il tempo è segnato dal succedersi delle varie fasi della coltivazione quali la semina, la solfatura, la mietitura e la vendemmia. I soprusi e le iniquità contro questa gente sono ormai all’ordine del giorno, tanto che i fontamaresi le considerano alla stregua della pioggia, della neve, del vento. L’abitudine a subire le più crudeli ingiustizie, la consapevolezza dell’immutabilità della propria condizione, l’amara rassegnazione ad essere considerati più in basso dell’ultimo gradino della scala sociale, l’ignoranza e la paura di compromettersi impediscono ai contadini di ribellarsi, di cercare di farsi rispettare, di far valere i propri diritti. Cambiano i governi, cambiano le leggi, ma per i cafoni non cambia mai niente, se non in peggio. Ora siamo sotto il governo fascista e una serie di fatti anomali caratterizzano l’estate fontamarese, tanto che la povera Matalè sarà costretta ad esclamare sgomenta: “le stranezze, quando cominciano, chi le ferma più?”. Tutto ha inizio una sera di giugno, quando ci si accorge che al paese è stata tolta l’illuminazione elettrica. Nessuno però si scompone, a nessuno viene in mente di protestare. Ma a questa privazione succederanno altri abusi, ancora più gravi, che costringeranno gli abitanti di Fontamara a prendere coscienza di sé e a cercare riscatto da questa condizione di umiliazione e sottomissione. Ma l’impresa non sarà per niente facile e la tragedia è lì che aspetta dietro l’angolo. Una storia cruda che fa indignare e riflettere, suscitando rabbia e commozione ma riuscendo anche a strappare qualche sorriso di simpatia e tenerezza verso questa povera gente. Silone affida la narrazione a tre dei protagonisti, persone che considerano l’italiano una lingua straniera, se non una lingua morta. Il racconto che ne scaturisce è quindi semplice e ricco di folklore contadino, perciò incredibilmente realistico e capace di creare una forte empatia. La denuncia dell’autore è totale. Naturale e lampante quella nei confronti del regime fascista, con i suoi metodi iniqui e violenti, e di chi lo segue ciecamente diventando nemico di gente con la quale ha condiviso fino a ieri la stessa misera sorte. Quella verso gli stessi cafoni, che siano fontamaresi o di qualunque altro posto d’Italia o del mondo, colpevoli di essersi svegliati troppo tardi e di aver subito in silenzio per troppo tempo. Quella, forse più importante e attuale di tutte, nei riguardi di quei governi troppo spesso vicini agli interessi economici di pochi privilegiati a scapito di chi invece vive in situazioni di indigenza, di necessità e di insufficienza sempre più forti, in nome di quella religione spietata e cinica che è il guadagno. “Si, ma con un altro Dio, rispondeva Berardo ridendo. Il vero Dio che ora effettivamente comanda sulla terra, il Denaro. E comanda su tutti, anche sui preti come don Abbacchio, che a parole predicano il dio del cielo. La nostra rovina, aggiungeva Berardo, forse è stata di aver continuato a credere al vecchio dio, mentre sulla terra adesso ne regna uno nuovo”.
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Un'opera sottovalutata da non lasciarsi sfuggire
Come gli altri "colleghi" lettori non posso che non segnalare l'eccezionalità di quest'opera.
Nel nostro gruppo di lettura siamo rimasti esterrefatti, ed abbiamo definito questo romanzo un capolavoro.
E' un romanzo estremamente moderno scritto con un linguaggio attualissimo e gradevole. Abbiamo avuto un iniziale ritrosia nel dover leggere Silone perché ci aspettavamo di dover affrontare il solito romanzo pesante "scolastico" e invece mai più piacevole è stata la sorpresa.
Fontamara è un romanzo che narra le avverse vicende degli abitanti, i cafoni, di uno sperduto paesello tra le montagne abruzzesi ma le narra in maniera viscerale. Le descrizioni delle ambientazioni, dei personaggi, delle varie scene sono quasi tangibili e colpiscono il lettore allo stomaco in maniera empatica. I cafoni sono gli ultimi dopo gli ultimi nella scala sociale e anche se incapaci di "ragionare" hanno una grande umanità e forza che sprizza fuori da ogni riga del romazo.
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Contro la rassegnazione
Il primo scoglio da superare nel leggere questo libro è il titolo: Fontamara. Neutro. Lapidario. Conciso. O almeno così sembra. A torto. Perchè già nel titolo è racchiusa la storia di questo piccolo paese, di tutto il meridione, del mondo di oggi.
La fonte. Acqua. Quell'elemento così indispensabile per i contadini. Per la sopravvivenza. Quella fonte amara, che accoglie nel gioco di parole il destino dei personaggi. Il destino di Fontamara. Perchè se il suo scorrere è sinonimo di vita, la sua privazione è la morte, ma ancora prima la spersonalizzazione. E' un titolo che ha in sè il nome di un paese e il suo futuro. Tragico, già segnato.
E poi c'è quella domanda, "Che fare?", che mi perseguita e mi assilla dalla fine della lettura. Quest'interrogativo a doppia lama. Da una parte il desiderio di regire, un attivismo che è sinonimo di vita. Dello scorrere dell'acqua. Del raccolto. Dall'altra la muta rassegnazione, la scomparsa del dinamismo e l'irrompere drammatico di una stasi oscura, insopportabile. Opprimente. E in tale ottica sembra trasformarsi in "E che cosa possiamo fare, noi cafoni?.
Già, i cafoni ovvero "coloro che sono meno del nulla". Questa massa di lavoratori, non istruita, ridotta a folla insintuale, alla ricerca di una condizione migliore e anestetizzata nel mutismo. O nell' ingenuità. O nella rassegnazione che è diverso da accettazione passiva. Perchè per accettare occore ragionare, riflettere su sè; per rassegnarsi basta il solo stato di inferiorità. La rassegnazione è la rovina di Fontamara.
Perchè assieme all'ignoranza rende malleabili, volubili.
Manipolati da un potere politico che subordina lo stato sociale, la popolazione di cafoni agli interessi. Al Dio Denaro. Al potere.
Manipolati dalla tragica mistificazione della parola, che forte di una cultura d'elite infida, si trasforma in strumento d'oppressione. Secondo le circostanze.
Don Circostanza, l'Amico del popolo, quest'avvocato che ha nel suo nome il riflesso della sua ottica utilitaristica, dettata dagli eventi e non da sentimenti autentici. E' nella macanza di questo tramite, tra popolo e potere politico, e dalla corruzione del Clero, che i cafoni ppiomabano in uno stato di perpetuo abbandono, cullati nel liquido amniotico della loro ristretta realtà contadina, rassegnati e inermi di fronte ai sopprusi, agli intrighi. Immobili in una mentalità che approva ciò che è gratis, che si affida a sogni e messe per scongiurare il pericolo, che vede nel pezzo di terra l'onorabilità.
E quando l'acqua che irriga i campi verrà tolta, i cafoni tentano la violenza, la vendetta, un nuovo soppruso, trasformandosi in una massa delirante che vuole distruggere, cieca di fronte alla reltà e immobile nelle ore senza tempo della sottomissione. Tra questo magma di sconforto, mutismo, instintualità, delirio e rassegnazione, si erge la figura di un uomo, che spinto dall'amore si ribella a questa condizione, infrange i cristalli della rigida gerarchia, anela alla condizione di cittdino e osa. Osa per la libertà. L'onore e il rispetto. A costo della sua stessa vita. In nome di un sacrificio per tutti. Un uomo che decide di crearsi il proprio destino, un futuro che trascenda l'egoismo e che sia il primo passo verso un cambiamento. Un cambiamento di morte, ma un messaggio forte e pungente. Un messaggio di vita, di speranza, capace di affermare se stesso nonostante la repressione fascista, la limitazione della libertà, il disprezzo. Un messaggio d'attivismo che smuove dalla stasi.
Silone ci offre un grande testo, l'affresco della società contadina italiana, il confronto tra interesse sociale e politico. Pagine che tentano di smuovere le coscienze, di apirare ad un dinamismo partecipativo nella realtà. Parole che si scontrano con la rassegnazione, che infondono speranza anche nella morte. Frasi che al di là dello stile, composito, paratattico e non sempre eccellente, feriscono e scuotono. E torna sempre quella domanda ridondante: Che fare?
Già, che fare? Che fare nella società moderna, come affrontare crisi e problemi? Fontamara cerca di rispondere, con le sue pagine, con la sua storia: un inno al dinamismo, alla partecipazione, all'abbatimento del sistema classista. Un monito ad eliminare i pregiudizi, i preconcetti, nel rispetto di tutti gli altri; il monito a non affidarsi (Ahimè) al qualunquismo (come sempre più spesso accade). L'invito accorato a non arrendersi, a non rassegnarsi, a far valere i propri diritti. E non crogiolarsi nelle misere dinamiche quotidiane, nel proprio interesse. Fontamara è il grido che cerca di infrangere il muro dell'egoismo, uno splendido inno alla libertà
E interessa poco dello stile. Qui conta il contenuto.
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Che fare?
“In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo.
Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si può dire ch'è finito.”
Scritto nel 1930 durante l’esilio, Fontamara è probabilmente il più famoso romanzo di Ignazio Silone.
E’ indubbio che per il tema trattato e per il suo svolgimento possa costituire un testo indispensabile per l’effettiva conoscenza del nostro meridione, e in ciò costituisce un preciso atto d’accusa a un sistema che tende a cristallizzare i ceti sociali, impedendo di fatto una positiva evoluzione verso un miglioramento materiale e l’acquisizione di una coscienza nazionale forte ed egualitaria.
Fontamara, che già nel nome porta in sé un destino ingrato, fatto di miseria e sofferenza, è un paesino della Marsica, il più povero fra tutti, isolato, una semplice espressione geografica, parte di uno stato che non se ne cura, che preferisce lasciare le cose come stanno, perché questo torna utile a interessi di pochi e mai soddisfatti poteri ben delineati, quali la Chiesa, il Governo (nel caso specifico quello fascista), l’imprenditoria d’arrembaggio, il cui fine non è solo il profitto, ma anche il piacere perverso di imporsi sugli altri.
In questo contesto si sviluppa una storia di soprusi, di inganni, di raggiri, tutti a danno di questi miseri contadini, i cafoni tanto per intenderci.
A loro è lecito chiedere tutto, a loro è negata ogni possibilità di elevarsi su un mondo talmente statico in cui l’esistenza non ha mai sussulti, né gioie, ma solo dolori.
Giorni e giorni sono trascinati senza speranza in un buio anonimo in cui i sentimenti si smorzano e subentra un’eterna e atavica rassegnazione, che si estrinseca in una domanda senza risposte: Che fare?
Uno di loro cercherà la soluzione, immolandosi per il bene di tutti, per unire quello che l’egoismo della miseria divide, e se il suo sacrificio sembra sortire l’effetto sperato, ben presto ci si accorgerà che nulla è cambiato e che l’alzar la testa per protestare, in ciò stimolati da un giovante antifascista, il Solito Sconosciuto, avrà come conseguenza solo una feroce repressione di cui tanti resteranno vittime.
In tutta la vicenda c’è un’amara constatazione: sfruttati da sempre e da tutti, i cafoni sono stati sfruttati anche da chi ha loro prospettato la possibilità di un riscatto, magari in buona fede, se pur in una visione più generale di carattere politico, che particolare di carattere sociale.
Questa è gente che nulla sa, che vive senza luce elettrica perché non ha soldi per pagarla, che quando scoppia una guerra ne viene a conoscenza solo tramite la coscrizione obbligatoria, che vede nei “cittadini” degli esseri lontani mille anni, solo degli alieni che popolano un mondo che non è il loro.
A Fontamara il tempo è immobile ed è fortunato solo chi se ne va, magari oltre l’oceano, a cercare fortuna, ma spesso solo altra miseria, aggravata dalla nostalgia per il proprio paese, che non è l’Italia, bensì quelle quattro povere case dove si nasce, si vive e si muore, senza che qualcosa cambi.
In questa emarginazione è naturale e spontanea la sfiducia nei confronti dello stato, un’istituzione vista come un lontano potere che tutto toglie senza dare.
La visione di Silone è indubbiamente pessimista, scaturisce anche da un profondo sentimento di riscatto non solo dei contadini della Marsica, ma anche dei diseredati di tutto il mondo, un atto di denuncia più civile che politico e proprio per questo, libero da orpelli e da retorica, giunge più direttamente al cuore del lettore, in una nuda sincerità che si limita solo a raccontare, magari sostenuta da una sottile ironia che sembra stemperare il dramma anche con episodi picareschi, ma che alla fine si rivela per un pugno ben assestato allo stomaco, una sconvolgente rivelazione che accompagna anche a libro ultimato e che scuote la nostra colpevole indifferenza.
Fontamara non è solo un romanzo molto bello, è un autentico capolavoro.