Narrativa italiana Romanzi Ferito a morte
 

Ferito a morte Ferito a morte

Ferito a morte

Letteratura italiana

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La vicenda narrata in "Ferito a morte" si svolge nell'arco di circa undici anni, dall'estate del 1943, quando, durante un bombardamento, il protagonista Massimo De Luca incontra Carla Boursier, fino al giorno della sua partenza per Roma, all'inizio dell'estate del 1954. Tra questi due momenti il racconto procede per frammenti e flash, ognuno presente e ricordato, ognuno riferito a un anno diverso, anche se tutti sembrano racchiusi, come per incanto, nello spazio di un solo mattino: la pesca subacquea, la noia al Circolo Nautico, il pranzo a casa De Luca… Negli ultimi tre capitoli vi è poi come una sintesi di tutti i successivi viaggi di Massimo a Napoli, disincantati ritorni nella città che «ti ferisce a morte o t'addormenta, o tutt'e due le cose insieme»; nella città che si identifica con l'irraggiungibile Carla, con il mare, con i miti della giovinezza. Se, come ha scritto E.M. Forster, «il banco finale di prova di un romanzo sarà l'affetto che per esso provano i lettori», quella prova "Ferito a morte" l'ha brillantemente superata: libro definito dal suo stesso autore «non facile», cult per molti critici e scrittori, è stato ed è anche un libro popolare, amato e letto, con grande adesione sentimentale, da lettori che poco sapevano di questioni letterarie, ma vi ritrovavano la loro stessa nostalgia per un paradiso perduto e per una «giornata perfetta». Un libro, insomma, di iniziazione, di rivelazione e di scoperta dal valore universale.



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Ferito a morte 2022-11-22 16:39:54 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    22 Novembre, 2022
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CHI RESTA SARA' SOPRAFFATTO

“Viviamo in una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme.”

“Ferito a morte” è a mio parere il romanzo definitivo di Napoli, capace com’è di restituire un ritratto spietatamente fedele della città negli anni del secondo dopoguerra (quelli del “laurismo”, tanto per intenderci), senza mai ricorrere agli stereotipi del folclore (tipo “pasta, pizza e mandolino”) e neppure sfruttare, al contrario delle commedie di Eduardo, dei racconti di Giuseppe Marotta o de “La pelle” di Curzio Malaparte, il suo côté più genuinamente popolare. In maniera piuttosto sorprendente, i personaggi dell’opera di La Capria appartengono invece tutti alla borghesia del dopoguerra, a quella classe un po’ decaduta di giovani ed ex giovani che ancora vive (o si illude di farlo) di antichi privilegi, e che passa oziosamente le sue giornate sul lungomare di Mergellina e di Posillipo, al Circolo Nautico o al bar Middleton, a prendere il sole, a millantare prodezze sessuali e conoscenze altolocate o a parlare di soldi, donne e feste mondane, in una vita superficiale, indolente, snobistica e annoiata che “diventa una parodia dell’adolescenza”, quella classe che pochi anni prima Federico Fellini aveva dipinto così bene nel film “I vitelloni”. A questa umanità, che sotto l’esibizione di una ricchezza spesso solo simulata nasconde, come un viso maldestramente truccato, una sostanziale cafonaggine, fanno da sfondo un’estate che sembra non avere mai fine e una natura esuberante e meravigliosa. Ma questa estate e questa natura nascondono, sotto la loro olimpica indifferenza, un effetto nefasto su cose e persone: come l’azzurro mare del golfo corrode col costante e invisibile lavorio delle sue onde le fondamenta degli antichi palazzi che vi si affacciano, così il sole, anziché scaldare, brucia, ottunde le coscienze e smorza ogni slancio vitale. La coscienza critica del romanzo è sicuramente Gaetano, l’intellettuale marxista andato a lavorare in un giornale di Milano, il quale incita Massimo, che nel libro è l’evidente alter ego dell’autore, a fare altrettanto, consapevole che l’unico modo per salvarsi è quello di lasciare definitivamente Napoli. E’ lui a coniare la felice definizione di Foresta Vergine: come la giungla tropicale invade e soffoca ogni cosa che trova sulla sua strada, l’ambiente napoletano domina, corrompe e sopraffà le persone che vi vivono, già per se stesse inadatte, a causa della loro innata tendenza a crogiolarsi nell’indulgenza e ad autoassolversi da ogni peccato in virtù della semplice appartenenza a una città leggendaria, inadatte – dicevo – a forgiare autonomamente carattere e indipendenza. Solo allontanandosi da Napoli, troncando il cordone ombelicale con quell’illusorio, ancorché allettante paradiso di confortevole vacuità, di paralizzante apatia, è possibile sfuggire a questa tara atavica, a questa indolenza, a questo immobilismo, e riappropriarsi della propria vita. Il romanzo è incentrato proprio sulle ore della vigilia della partenza di Massimo per Roma. A differenza di Gaetano, personaggio intransigente, privo di dubbi e di ripensamenti di sorta, Massimo è un uomo tragicamente lacerato, scisso, diviso com’è tra ripudio e attaccamento, tra disprezzo e nostalgia. Egli sa di non poter sprecare la propria vita tra ozi, goliardate e vaniloqui, ma è fatalmente legato, come un pesce alla lenza, ai ricordi della giovanile, platonica, storia d’amore con Carla, e la speranza di recuperare quel tempo perduto, di “ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era”, lo fa vacillare e tergiversare. Quando la decisione della partenza è finalmente presa, i pensieri di Massimo hanno la segreta commozione dell’”Addio ai monti” di manzoniana memoria: “E addio allora, dal momento che sai, addio al bell’oggi di prima che t’avvolgeva come l’acqua il pesce che nuota, le cose mute per te, mutate per sempre da quel momento, per sempre, e inutile è ostinarsi, mai piú, mai piú uno di quei giorni di prima, uno solo, ritroverai per caso una mattina.”
“Ferito a morte” è diviso in due parti nettamente distinte. Similmente a “Gita al faro”, il capolavoro di Virginia Woolf, a due terzi del libro c’è infatti una brusca frattura. Dopo sei anni, Massimo ritorna a Napoli, ormai definitivamente scettico e disilluso: “Sovversivo, dolcemente avverso all’azzurro che avvolge tenero le case, cammino disincantato per le strade della città materna, come vipera nel seno che l’accolse, invelenito da freddo amore, riscaldandomi al suo tepore.” Davanti ai suoi occhi scorrono gli incontri con i vecchi amici di gioventù, chi sposato con figli, chi diventato architetto, chi tornato senza più illusioni e speranze dall’America, tutti in qualche modo segnati dal tempo trascorso. E’ soprattutto Sasà a condensare, a riassumere la delusione provata da Massimo, la tristezza nello scoprire come gli anni abbiano irreparabilmente deturpato quella che sembrava essere un’età della vita destinata a durare per sempre. Sasà, che era un ragazzo eccezionale e carismatico, uno che “finisce dove gli altri cominciano”, ora è inopinatamente ridotto al ruolo di viveur appassito (“Aveva una faccia floscia e segnata, […] e gli venivano fuori quei tratti di giovane vecchio, di bel ragazzo che non è mai passato per i gradi degli anni, ma un giorno è saltato all’improvviso, senza nemmeno rendersene conto, dall’adolescenza all’età matura”), costretto a vivere di espedienti e cercando disperatamente di sfruttare gli ultimi rimasugli di un fascino ormai declinante, spodestato da altri Sasà più giovani e spregiudicati, come il fratello di Massimo, Ninì, destinato pure lui a rappresentare “per pochi anni un miraggio di felicità”. Negli ultimi tre capitoli riecheggia lo stesso tono elegiaco de “La luna e i falò”, ma qui non c’è nessun Nuto ad accogliere Massimo, costretto invece a rimanere solo con i suoi fantasmi, dentro a un’estate che ormai “è una noia, una festa in cui si ha la nostalgia di una vera festa.”
Dal punto di vista strutturale, la prima cosa che di “Ferito a morte” salta agli occhi è – come si è già accennato – la dimensione temporale. Oltre allo iato, alla cesura che separa i primi sette capitoli dagli ultimi tre, va sottolineato il fatto che la prima parte si svolge nell’arco di una sola giornata, ma grazie al meccanismo della memoria inconscia si allarga fino a comprendere episodi degli anni precedenti (ad esempio, la notte di Capodanno del ’49 a Positano con Carla o la gita in barca con Glauco e Ninì), e questa confusione di piani temporali, sebbene renda il romanzo (soprattutto nelle prime pagine) un po’ complicato da leggere e decifrare, conferisce al testo un ritmo sinuoso e avvolgente, davvero singolare. Ancora più particolare e caratteristica è la polifonia dell’opera. Diegesi e mimesi (ovverossia, semplificando, la narrazione da una parte e i pensieri e i dialoghi dall’altra) sono così fittamente intrecciate che si confonde facilmente quando la voce è quella di un personaggio e quando invece è l’autore a parlare. La terza persona del narratore si alterna infatti, in virtù dello stream of consciousness, alla prima persona di Massimo, il vero protagonista e – come già detto – alter ego di La Capria (un po’ come Moraldo lo era di Fellini ne “I vitelloni”) Si prenda come esempio la seguente frase, estrapolata tra le tante disponibili: “ E recita tutta la storia, ma deformata, modificata, accesa nei particolari, mentre nell’occhio dell’altro sale la considerazione, come mercurio in un termometro. – Recito davanti alla platea, nel nero, là, della sua pupilla… Io stesso occhio nel sogno.” A sua volta la prima persona di Massimo viene spesso sostituita, senza alcun ausilio della punteggiatura, con la prima persona di altri personaggi, di modo che il lettore deve districarsi nel non immediato tentativo di capire a chi quell’io si riferisca. E’ un procedimento molto utilizzato nelle opere di Mario Vargas Llosa, ad esempio “Conversazione nella Catedral”, e se si pensa che “Ferito a morte” precede cronologicamente i grandi capolavori dello scrittore peruviano, si può capire come La Capria possa essere considerato un artista all’avanguardia, in netto anticipo sui tempi. Capace di riflettere su temi profondi come il rapporto tra natura e storia, geniale nella descrizione, soprattutto attraverso dialoghi strepitosi, di un’umanità di “morti ambulanti”, che solo il dolore fisico (come il timpano rotto di Massimo) di quando in quando fa sentire vivi, “Ferito a morte” ha esercitato e continua ad esercitare una notevole influenza nel panorama della cultura italiana (è di queste settimane una versione teatrale portata in scena da Roberto Andò con la collaborazione di Emanuele Trevi), al punto che credo di poter affermare che senza il romanzo di La Capria probabilmente non ci sarebbe mai stata “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, debitore dello scrittore napoletano di quella inconfondibile atmosfera sospesa tra satira grottesca e amara malinconia.

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Ferito a morte 2021-03-23 09:38:38 Visitatore
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Visitatore Opinione inserita da    23 Marzo, 2021
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il giardino dei ciliegi di La Capria

INTRODUZIONE. Il romanzo di Raffaele La Capria FERITO A MORTE (Premio Strega 1961) consta di dieci capitoli, di cui i primi sei - praticamente due terzi dell’opera - richiedono un grosso sforzo di comprensione da parte del lettore perché sono una sorta di copione teatrale fatto di sole battute e monologhi (interiori ovviamente), privo di indicazioni sceniche e temporali, in cui - soprattutto - il nome del personaggio che parla o pensa è stato soppresso, e i fogli scompigliati in modo da sovrapporre i vari livelli temporali dell’azione, ammesso che di azione si possa parlare. In particolare, i primi sei capitoli, tranne i pochi passaggi in cui è un “narratore esterno” a raccontare, consistono essenzialmente in una fittissima serie di scampoli di conversazioni che hanno luogo in epoche diverse fra vari personaggi, nella quale si inseriscono senza soluzione di continuità i pensieri di alcuni di loro (soprattutto Massimo, il personaggio principale, e in misura minore Gaetano). Per lo più il lettore può capire chi parla a chi, cosa dice esattamente e a cosa si riferiscono i pensieri riportati, cercando indizi nella pagina o in altre pagine, e a dire il vero ammetto di non avere capito compiutamente persino un punto su cui La Capria torna ripetutamente. Gli ultimi quattro capitoli, invece, sono strutturati in modo chiaro (è chiaro chi dice cosa) e il lettore è almeno un po’ ripagato degli sforzi fatti per capire quanto precede. Insomma, lettura faticosa, benchè LA LINGUA sia elegante, tranne - ovviamente :)) - laddove La Capria riporta il discorso orale dei suoi personaggi.

IL TEMA del romanzo è IL DECLINO, MORALE E FISICO, DI UNA CERTA NAPOLI E LA SCOMPARSA DI UN’EPOCA A SUO MODO GLORIOSA DELLA VITA DI QUESTA CITTÀ, tra gli anni in cui il jet set internazionale frequentava Capri e Ischia e gli anni del boom economico, essendo comunque la città rappresentata attraverso UN SOLO AMBIENTE, che dirò più sotto, che non è affatto quello popolare come per esempio ne “La pelle” di C. Malaparte. Declinato, questo tema del declino, in modo piuttosto intimistico nei primi sei capitoli e piuttosto socio-politico negli ultimi quattro, i quali costituiscono un amaro pamphlet contro l’affarismo che ha dato il colpo di grazia finale ad una città illustre benchè in sfacelo e ad un mare che prima - “jadis”, scriveva François Villon nella ballata “des dames du temps jadis” - traboccava di vita e di bellezza. E a proposito di mare, quello di La Capria ne è un omaggio da innamorato.

LA TRAMA, SE COSÌ SI PUÒ DEFINIRE. Nei primi sei capitoli La Capria illustra, nei modi che ho detto nell’introduzione, il modo di vita dei frequentatori del “Circolo”, in cui i rampolli (le rampolle no: le donne sono preda, il segno del successo) di famiglie ormai decadute dall’originario rango socio-economico o anche nobiliare benchè ancora abitino antichi famosi palazzi, nonchè coloro che ruotano intorno a loro, ammazzano il tempo chiacchierando, guardando i motoscafi che sfrecciano sullo specchio di mare antistante, registrando le presenze femminili a bordo, un pochino giocando a tennis e soprattutto giocandosi al poker gli ultimi soldi propri o i soldi del socio o dell’amico ricco o addirittura della vecchia domestica che “li ha visti nascere”. Tutti rivaleggiano contendendosi il favore dei pochi veramente ricchi (da sfruttare) e il favore dell’uomo più ammirato del momento, quello capace di rendere indimenticabile una serata con la sua spavalderia ed è percio ricercato dai ricchi e dalle belle, le quali belle però, molto più concrete dei maschi, sposano il partito più danaroso ... Tra tutti questi uomini ce n’è uno, Massimo (La Capria giovane?), che ha uno sguardo critico sugli altri pur passando le sue giornate con loro, sempre sognando di “partire” e sempre rinviando la partenza. Colto e incline all’introversione, dapprima egli condivide la repulsione per quel modo di vivere col giovane comunista Gaetano, salvo infine prendere le distanze da lui perché in realtà troppo intimamente legato a quel tempo della giovinezza, il tempo della sensibilità esacerbata e delle giornate trascorse immergendosi nell’incanto di un mare pieno di pesci su cui si affacciano ville patrizie e palazzi barocchi che via via si sfanno. Negli ultimi capitoli apprendiamo che Massimo è riuscito dopo tanta esitazione a strapparsi da Napoli, non però per trasferirsi a Milano, luogo della razionalità opposto a Napoli-Foresta Vergine dove si è trasferito Gaetano, bensì a Roma, la capitale della politica e dell’affarismo dove chissà ... Tornato occasionalmente a Napoli, nell’accogliente alveo familiare, attraverso i suoi ricordi e le conversazioni con gli amici di un tempo (è la materia degli ultimi quattro capitoli) scopriamo cosa ne è stato dei tanti protagonisti della sua vita di ieri, quando i sogni - e tra tutti il sogno di un amore romantico- e l’ingenuità erano possibili. Persino Sasà, idolo di uomini e donne di allora, si è ridotto a ridicolo vieux beau, mentre l’antico Palazzo Medina si trasforma in residence di lusso per ricchi parvenus. LA GIOVINEZZA È SVANITA, E NEANCHE I SOGNI SONO PIÙ QUELLI DI UN TEMPO.

Il TITOLO “Ferito a morte” mi sembra francamente attagliarsi poco ad un uomo che, come avviene a tutti o quasi, vede svanire i sogni della giovinezza ma resta in vita e conduce una vita tutto sommato “normale”.

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Consigliato a chi ha letto...
piuttosto a chi ha visto il film "Leoni al mare" di Vittorio Caprioli del 1961, alla cui sceneggiatura ha partecipato lo stesso La Capria.
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