Fame d'aria
Letteratura italiana
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Umanità
«Che se a ogni uomo e donna di questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. Basta un niente, una proteina non assimilata, un enzima che non fa il suo lavoro. La normalità è come un biglietto della lotteria. Invece tutti pensano che sia naturale il contrario. Che un figlio è come un elettrodomestico, costruito per funzionare alla perfezione. Soltanto chi ci passa sa quante competenze ci vogliono per attraversare una strada, per prendere una penna in mano.»
È una scelta coraggiosa quella di Daniele Mencarelli con “Fame d’aria”. Una scelta coraggiosa perché l’autore vede la storia e decide di trattarla, vede la sceneggiatura teatrale e decide di metterla in scena anche se questo significa addentrarsi nei meandri dello spettro autistico. Ed è proprio questo il tema che regge e conduce per quella che è la sua ultima fatica. Pietro Borzacchi e il figlio Jacopo sono in viaggio. Il loro obiettivo è la Puglia, luogo dove si rincontreranno con Bianca, attualmente nel milanese, la madre del ragazzo, per celebrare una data importante che segna “il dove tutto ha avuto inizio”. Tuttavia qualcosa va storto, la frizione della vecchia golf di Pietro non regge, è venerdì pomeriggio, loro devono essere a destinazione entro lunedì e sono spersi nel nulla tra paesini arroccati e luoghi incantevoli. Il paese più vicino dove vengono a ritrovarsi in attesa che Oliviero, il meccanico, sistemi il guasto è S. Anna del Sannio, un paesello di poche anime che non attende visitatori. Si trovano così ad alloggiare in un bar che un tempo era anche pensione di proprietà di Agata e qui conoscono anche Gaia, giovane e bella che va oltre la facciata. Perché Pietro e Jacopo non sono un padre e un figlio che vivono in quella che siamo abituati a considerare normalità. Jacopo è affetto da una forma di autismo a basso funzionamento che lo porta a vivere in un perenne stato neonatale. Sa pronunciare solo un “mhmm” che cambia di intensità a seconda delle richieste e nonostante i suoi diciotto anni deve essere cambiato, accudito, gestito. La cosa forse più semplice è farlo mangiare perché è un po’ come un orologio; si carica e parte in automatico. Pietro non sa più cosa sia essere. Vive in perenne accudimento del figlio, lo odia. Odia la situazione che stanno vivendo, odia dover fare, è pieno di rabbia ma nulla fa mancare a Jacopo. Vive una totale e completa forma di abnegazione ma comunque resta vigile e attento ai bisogni di quel figlio che è la sua condanna e che è così lontano dalle aspettative. Gaia, in questo senso, riuscirà a riportare alla luce il Pietro non PietroJacopo, il Pietro che vive, che sogna, che ha desideri come tutti. Si creeranno anche degli equivoci ma pian piano le crepe diventeranno crateri e ogni verità verrà alla luce.
«Non ricorda, Pietro, quando è stata l’ultima volta che ha parlato con un altro essere umano di sé stesso e non del figlio. Proprio di lui.»
Perché per Pietro la vita ha preso una piega inaspettata. La moglie laureata in scienze politiche ha dovuto lasciare il lavoro per prendersi cura del figlio, su Pietro gravano le responsabilità e rappresenta al contempo l’unica fonte di entrata economica. Ma può bastare un solo stipendio a sopperire alle cure necessarie? Cosa succede quando la tua vita non è più tua e inizi a far debiti perché in qualche modo quelle cure proprio non puoi fargliele mancare ma non hai aiuti da nessuno, ancor meno dallo Stato, perché hai un contratto a tempo indeterminato con uno stipendio fisso, fidi su fidi e a differenza di altri figura che hai qualcosa mentre altri che lavorano in nero hanno aiuti su aiuti perché i soldi in casa li fanno entrare dalla porta sul retro? Come difendersi da un mondo che sembra chiuderti la porta in faccia? Come sopravvivere, come ricordarsi che esisti anche quando tu per primo non lo ricordi più?
«Dopo aver oltrepassato il boschetto, una radura affacciata sui monti.
Pietro, violentato dal destino, regredito a una vita senza bellezza, si porta una mano sulla bocca.
«Dio mio che meraviglia.»
Oltre al panorama, è l’aria, l’aria gonfia di tramonto, a rendere la visione un dono per gli occhi.
Un cielo azzurro che diventa arancio, sino al rosso infuocato del sole che cala.
Sembra di vivere un sogno.
Quelli dove Pietro si rifugia.
Ma questo non è un sogno.
E Gaia è fatta di carne, ed è qui accanto a lui.
«Grazie.»
Solo questo riesce a dirle.»
Daniele Mencarelli riesce in quello che spesso si vuole negare per comodità. È più facile immaginarsi questi genitori eroi in quel che è una non fortuna ma questi genitori, sono davvero eroi? Egli mostra il volto oscuro, un’altra faccia della medaglia, una medaglia in cui non si è altro che soli a convivere e combattere con un mostro più grande che non perdona e non cambia. Mencarelli ci solletica con una storia d’amore anche se in parvenza trasuda l’odio ma ci ricorda anche che non siamo che semplici esseri umani chiamati a convivere con una battaglia che non sempre più essere vinta. Vi riesce con un lungo racconto dai toni scanzonati, meno poetici ma ben cadenzati e studiati e dove nulla è lasciato al caso. Né come personaggi, né come parole. Parole che hanno tutte e indistintamente un peso, parole che ci fanno riflettere e ci fanno entrare per una porta sul retro che spesso resta chiusa. Anche la scelta di narrare la vicenda dal punto di vista del padre e non della madre non è causale. Non c’è vittimismo tra queste pagine, non c’è autocommiserazione, c’è emozione e sentimento, c’è una realtà che tocca e coinvolge.
Non è lo stesso Mencarelli del passato. L’autore conosce di questi luoghi e dello spettro autistico per contatti occorsi con la sua famiglia e i suoi figli, riesce a essere lo stesso, a firmare un’opera che lo rende riconoscibile ma dimostra anche una crescita e tanto coraggio. Per tema trattato ma anche per essere riuscito a staccarsi da una ideale trilogia (La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare) che ne ha consacrato il nome ma che stava iniziando a perdere della sua unicità. Una maturazione necessaria.
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non è il "vecchio" Mencarelli
Se cercate il Mencarelli de "la casa degli sguardi" o di "tutto chiede salvezza", allora meglio lasciar perdere. Io ho acquistato questo libro convinta di potermi tuffare nuovamente nello splendore e nell'intensità di quegli scritti autobiografici.
Ho invece trovato una prosa piuttosto banale, a raccontare una storiella sempliciotta, protagonisti un padre cinquantenne in fuga con appresso il giovane figlio gravemente disabile.
Al di là della trama che trovate ovunque, lascio questi miei due appunti:
- riconosco all'Autore il CORAGGIO per aver messo per iscritto, forse a sensibilizzare sul tema, che un genitore, seppur tale, può arrivare a provare rabbia e furia cieca non solo verso il "destino" che gli affibbiato un figlio "rotto", ma anche risentimento e odio verso il figlio stesso; il tema dei sentimenti non sempre amorevoli verso i figli è ancora un tabù, in questo senso quindi bene questo libro che tratta l'argomento;
- mi sono chiesta perché l'Autore abbia scelto proprio la figura paterna...forse per appartenenza di genere? Avesse tratteggiato la madre, in fuga disperata accanto a quel figlio malato, avrebbe forse favorito delle riflessioni riguardo allo stereotipo che vede nella madre colei che deve immolarsi sempre e comunque per i figli generati, costretta - in quanto madre - al sacrificio e alla negazione di sé, a cui sono culturalmente vietate debolezze e fragilità, men che mai nei confronti di un figlio con handicap.
Nel complesso...ad maiora!
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Quale amore?
…..”Dalla terra, una alla volta, le braccia di Bianca si alzano. Vanno a stringere Pietro. Due corpi piegati sull’ asfalto. Così stretti da sembrarne uno. Dritta, accanto a loro, una sentinella a vegliare sull’ altrove. Jacopo. Restano così. La pioggia li lava”…
Un lungo viaggio, Pietro e Jacopo, padre e figlio, sprazzi di ricordi di una giovinezza perduta in occhi innamorati, ora …” un cinquantenne dalla barba ingrigita, smunto, con la fronte alta, i capelli più radi”…, accanto all’ uomo un ragazzo …” un corpo vuoto, alto, slanciato, bello, con un leggero dondolamento mentre cammina, l’andatura da sonnambulo”….
Un viaggio da condividere in attesa di Bianca ( la madre ), interrotto da un guasto meccanico, una sosta obbligata per qualche giorno a S.Anna del Sannio, …”uno dei tanti paesi di pietra bianca strappata a blocchi dalla terra, una manciata di abitazioni perlopiu’ chiuse, un residuato destinato a sparire per sempre”…, ospiti improvvisati nel bar pensione di Agata, …” i cui occhi sono una specie di lente d’ ingrandimento”…, e dell’ aiutante Gaia, …”un bellissimo sorriso che rivela denti bianchissimi”….
È qui che, spogliato di tutto se non della propria memoria, in un presente che ha bisogno di tempo, circondato da sguardi posati su Jacopo e …. “ la sua presenza vuota”…, Pietro vorrebbe restare in silenzio, rifiutare il dialogo, volgere lo sguardo altrove, inseguito dal proprio dolore, svanita la speranza in un miracolo che non c’è mai stato, annientato dalla rabbia, dai debiti, da una povertà sempre più vera, dall’ assenza di tempo, da anni inserito in una routine che prevede i soliti gesti, i soliti mugugni ( di Jacopo ), una presenza vuota da accudire.
Jacopo è un diciottenne affetto da autismo a basso funzionamento, è afasico e perlopiù dondolante, completamente dipendente, …” è un angelo caduto, non è niente, è come un sasso o un orsacchiotto a grandezza umana, asseconda tutto, capisce niente, vive tutto, ogni volta, come fosse la prima volta”….
Jacopo è un figlio da accudire come un infante, ma come farlo se si considera la propria vita come un film dell’ orrore, visto e rivisto, se non si prova più nulla, odio e rabbia hanno soppiantato dolore e repulsione, una rabbia pronta ad esplodere, se ci si sente vittima di una maledizione, violentati dal destino, regrediti a una vita senza bellezza, giorni e gesti sempre uguale a se’ stessi.
Pietro non sogna più, vorrebbe piangere, sparire, imbrattato di una povertà che gli è implosa dentro, attorcigliato al proprio dolore, …” un bambino invecchiato precocemente”… e a volte…’ il figlio sembra il padre e il padre il figlio”….
Le ore segnano un immobilismo rivolto al passato, scalfiti da attenzioni dimenticate, da un senso di vicinanza, da una sofferenza condivisa, da desideri rinati, da una quotidianità che genera sprazzi di attesa, il presente incollato addosso, quell’ imprevedibile prevedibilità, Jacopo ha bisogno di vicinanza, di attenzioni, di cure, di stabilità, di conservare la propria routine.
Quale versione di Pietro, un uomo precocemente invecchiato e stanco, un padre attento e amorevole custode della fragilità del figlio, un individuo irascibile e rabbioso che ha oltrepassato la soglia, il fantasma di se’ alimentato dalla propria solitudine, una persona fragile e depressa che lancia un grido disperato e rigetta ogni aiuto?
Di tutto un po’, una scelta già definita, la vicinanza di Agata e di Gaia a insinuare dubbi, scalfire certezze, restituire un briciolo di umanità perduta, anche se non pare abbastanza…
Il romanzo di Daniele Mencarelli percuote l’ abisso di un uomo solo ingabbiato in una vita non vita che non ha scelto, se non nel proprio desiderio di paternità, ogni goccia di quotidianità assorbita dalla presenza-assenza di Jacopo.
Un giudizio sommario ci restituisce una scrittura diretta, essenziale, cruda, dialoghi intensi, tratti descrittivi ben delineati, personaggi piuttosto credibili, ma il romanzo rincorre le difficoltà e la rabbia inevasa di un padre solo ad affrontare l’ autismo del figlio.
Una convivenza trasformata nella ferocia di un uomo che si sente abbandonato, dalla famiglia e dalle istituzioni, sopraffatto da se’, da …” una povertà che ti rimane attaccata addosso, che ti perseguita e non se ne va”… , immerso in un incubo, quella che definisce la cosiddetta “ malattia “ del figlio.
Perché è di questo che Pietro ci parla …” sembra un malato, come il figlio ”…, …” la madre ha saputo ricostruire il suo amore attorno alla malattia del figlio, il padre no”… ….“ altre malattie sono battaglie, questa è una specie di maledizione”… …. “ chiedergli quale è la spiegazione della malattia di mio figlio”… ….” prima della malattia, quando la vita era ancora vita”…. e l’ autismo, ahimè, è più volte così definito. Forse si sarebbe potuta restituire maggiore centralità e soggettività alla figura di Jacopo, al suo essere autistico, a una umanità e sofferenza per lo più oggettivate e sottratte, mostrando un’ assenza-presenza e non viceversa, interpretando silenzi, mugugni, sguardi, sussulti, fobie, debolezze, paura, ansia, invece di ribadire continuamente abisso, vuoto, maledizione, assenza, niente, ma sarebbe stata un’ altra storia.
Fermo restando l’ inesauribile carico di responsabilità e l’ impegno, fisico, emozionale, affettivo, economico che assorbe la parte genitoriale oltre a un senso di solitudine, sfinitezza, abbandono, sconforto pienamente condivisibili, di certo tutte queste componenti si defilano al cospetto dell’ inesauribile dono ( parole di Gaia ) e bisogno di amore di un figlio in difficoltà.
Indicazioni utili
- sì
- no