Diceria dell'untore
Letteratura italiana
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Eros e Thanatos
Romanzo sontuoso e impervio questo di Bufalino, come una grande sonata che non manca di ricordare in ogni movimento la sua prosopopea barocca e la sua esigente pesantezza. Tre anime almeno mettono mano al pentagramma narrativo del testo: il gusto acribico, filologico, per la parola desueta, inusitata, arcana, che l’autore sceglie prima ancora per il suono che per il contenuto; il tono elegiaco e malinconico che si insinua prepotente in ogni immagine e poro della trama per vagare lungo le piane di una vita alla deriva; e infine la voce dissacrante, satirica che già dal titolo, tronfio e altisonante, prova a calibrare un testo tanto impegnativo quanto difficile da gestire. L’atmosfera di sogno, quasi onirica, la sospensione della realtà in una parentesi inespansa è già tutta nell’incipit, che si apre con “O”, come a continuare un altro discoro, un’altra storia, un’altra vita. E in effetti in uno spazio sospeso vivono i personaggi, rinchiusi in un sanatorio palermitano per guarire o morire di tubercolosi: mai come qui lo spazio geografico si fa riflesso di una condizione spirituale, quella dell’uomo che, condannato a morte, si ritrova in biblico tra essere e non essere, vissuto da una febbre di libertà che continuamente nega se stessa. E nella morte, l’amore, perché il bacio tra Eros e Thanatos è un fiore che sboccia e l’unica pietà che pare possibile.
"Diceria dell’untore" è un libro meraviglioso nella sua complessità stilistica, nel suo prosare ostico e, per altro, sfrondata di un ricco paratesto di poesie ed epigrammi, indici tematici e altro, che l’autore o l’editore saggiamente hanno deciso di spostare in appendice. Bufalino scrive un libro di maturità senile, decantato e distillato, curato in ogni singola frase alla ricerca di una perfezione formale tanto levigata da risultare quasi fastidiosa. Molto avrebbe da insegnare sull’uso delle parole, su accostamenti e immagini particolarmente efficaci e insoliti che costellano la narrazione e che proprio in questa unione di altissimo e bassissimo, sacro e profano, trovano la loro forza esplosiva.
Certo il libro soffre, per sua stessa natura, di una gravosità a tratti opaca, di un certo compiacimento che a volte precipita in una verbosità esasperata quando invece dovrebbe lasciare spazio al silenzio e alla parola muta. Un rischio che, come detto all’inizio, Bufalino tenta di stemperare con l’ironia, ma anche qua non sempre è sufficiente. Quello che ne risulta è un romanzo che a volte rischia di collassare per forza di gravità, ma che certamente merita lettura, col giusto stato mentale, se non altro per le bellissime pagine disseminate qua e là, pure vibrazioni di materia. Come quando, riflettendo sulla luce, il personaggio principale immagina che da qualche parte dell’universo, ad anni luce di distanza, un osservatore vedrà ancora il tempo passato e che anche noi, in un certo qual modo, in un punto via via più lontano dell’universo, siamo eterni.
p.s. Mi ha un po' disturbato, ma per una mio personale concetto del rapporto autore-lettore, l'indice dei temi in appendice, o anche le note esplicative che Bufalino ha sentito la necessità di apporre. L'interpretazione del lettore è tutto, bisogna resistere alla tentazione (che ben capisco) di indicargli la strada.
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Una piccola gemma italiana
"Diceria dell'untore" è uno di quei libri che lasciano la traccia, perché hanno qualcosa da dire, qualcosa di importante. Questo libro è la testimonianza di un sopravvissuto, un io Narrante, a due grandi disgrazie: la seconda guerra mondiale ("La guerra era dietro di noi, ma sulla giacca era rimasto il segno della bandoliera, e l'agro della polvere nelle narici e nelle mani. Mani che avevano sparato, forse ucciso.") e la tubercolosi ("Grande un cinquecentesimo di millimetro, ma boffice e vitale come quando lo respirai la prima volta. Chissà come giunse da me, con quale sputo da vecchio o bacio di puttana o spora di vento, vallo a sapere.").
L'atmosfera descritta è cupa, come si può dedurre già dall'incipit, con il sogno rincorrente della morte (che "è un paravento di fumo fra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall'altra parte e trovare solidali dita di chi ci ama."), che viene tenuta per mano durante tutto il romanzo. Siamo nel 1946, in un sanatorio che accoglie le persone malate di tubercolosi senza più speranza di guarigione, persone che rimpiangono il vigore della gioventù passata e cercano di guardare con rassegnazione la condizione attuale e pian piano imparano dagli altri a morire. L'unico svago e fuga alla vita normale sono le uscite in città, la domenica, e qualche incontro triste, clandestino e insoddisfacente con una donna ("Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e di sangue, in mezzo a sani della strada, atletici, puliti, immortali...").
E' un libro che da anche una speranza, il Narratore, dopo una degenza di qualche mese, riesce a guarire completamente e a tornare nel mondo dei vivi. Ma dopo aver imparato a vivere sotto l'ala della morte, ad attenderla e a desiderarla come si fa ad imparare nuovamente a vivere?...("Dove ritrovare il me stesso ragazzo, come sanarlo di quell'infezione: l'ingresso dell'idea di morte nell'intimità di un cuore innocente?")...Infatti, dopo aver sofferto e dopo aver affrontato la morte dei suoi amici nel sanatorio e infine della sua amata, contagiata dallo stesso male, dopo aver lottato contro la propria morte uscendone vincitore, tornare alla normalità è molto difficile ed i sogni del sanatorio, il controllo quotidiano della saliva, il ricordo di Marta, la sua amata, continuerà per anni e anni a venire. Generalmente la guarigione e il ritorno alla vita rappresenta una benedizione, una rinascita, qui invece, dal punto di vista psicologico, non è altro che un'ulteriore condanna ad una vita di sofferenze, ricordi, paure e inadeguatezze ("I giorni più infelici della mia vita sono stati i più felici").
Questo libro nasce dall'esperienza diretta dell'autore presso il sanatorio Rocca, descritto nel suo libro e spesso mi ha ricordato la Montagna incantata di Mann. Anche se libri diversi per nozioni ideologiche (Mann tratta un'ampia vastità di idee invece Bufalino la morte, la malattia e un reintegro nella normalità), l'ambientazione nel sanatorio, la cura del riposo sulla sedia a sdraio sulla veranda, il succedersi dei nuovi malati arrivati a quelli da poco deceduti, la radiografia di Marta che il narratore ruba dalla Sala Raggi per accarezzarla nella sua stanza e confrontarla con la propria, la condizione "romantica" del malato, il medico che vive in mezzo ai malati come un loro punto di riferimento.....tutte queste cose mi hanno riportato in mente Mann.
Concludo con questo ultimo frammento di incredibile verità e sublime poesia:
"Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numero il gioc'a tombola della nostra vita. Non si conosce mai chi si vuole, ma chi si deve o chi capita, secondo che una mano sleale ci rimescoli, accozzi e sparigli, disponendo o cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovacci dei suoi millenni."
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Un romanzo tra sogno e realtà,
Ho scoperto solo in tarda età questo capolavoro della letteratura italiana, un classico che Bompiani ha pubblicato nella collana dei classici contemporanei qualche anno fa (2016). Il romanzo, che ha meritato il Premio Campiello, è stato dato alle stampe dall’Autore nel 1981 dopo una lunghissima e tormentata gestazione: iniziato nel 1950, scritto e riscritto più volte, ripreso dopo una lunga pausa nel 1971, ha visto finalmente la luce nel 1981, dopo un lungo periodo di limature, aggiunte, aggiustamenti minuziosi, ripensamenti, ed è diventato immediatamente un caso letterario. Come è noto, narra le vicende dell’alter ego dell’Autore, malato di tisi, ricoverato con altri militari, dopo un soggiorno a Sondalo ed a Scandiano, nel sanatorio della Rocca a Palermo dal quale uscirà nel 1946 ufficialmente guarito (forse l’unico), poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il giovane (l’Autore è nato a Comiso nel 1920) ha 25 anni, e racconta le sue esperienze nel nosocomio palermitano, con accenti ironici e disperati, convinto che la vita abbia molti punti oscuri e rari bagliori di speranza, e che la rassegnazione consapevole sia l’unica via d’uscita. E’ oltremodo arduo esprimere un giudizio su un capolavoro siffatto: non sai se parlare dei variopinti e singolari personaggi che popolano la storia, dal Grande Magro, il direttore medico, bizzarro e originale che morirà alla fine stroncato dalla cirrosi al cappellano del sanatorio, padre Vittorio dalla fede tormentata e vacillante, dal piccolo Adelmo messaggero di missive d’amore, ai compagni di sventura tutti segnati dal morbo, oppure del tipo di scrittura, unica e preziosa, che l’Autore definirà “archeologica, defunta, obbediente a un disegno di restaurazione signorile”. Ed è proprio la scrittura che incanta, riletta oggi, in un panorama letterario di banalità e di cosiddetti capolavori ripetitivi ed annoianti. Una scrittura non usuale per i lettori d’oggi, come sospesa tra sogno e realtà, a volte straziante a volta ironica, caratterizzata da parole classicheggianti, anche desuete, metafore, iperboli, riferimenti letterari antichi e moderni: ci si perde come in un magico e attraente labirinto, ove perdersi è incanto ed esperienza gratificante. Ed è con questa scrittura che si dipana la storia d’amore tra l’io narrante protagonista e Marta Levi, l’uno reduce di guerra in via di guarigione, alla ricerca disperata di sé stesso e di affetti dimenticati, l’altra con un tormentato passato di collaborazionista, tesa a giocarsi in un angoscioso susseguirsi di scontri/incontri l’ultima possibilità di una vita segnata ormai da un imminente esito fatale. Incombe la morte, palese o sottintesa, tema dominante tra malati inguaribili, rassegnazione e speranza di redenzione.
Il romanzo, in 17 capitoli, era corredato nelle primitive stesure da componimenti poetici (uno per capitolo), éditi poi in una successiva opera. Bompiani, al termine del romanzo, raccoglie in un’appendice queste poesie, assieme ad altre aggiunte dell’Autore: dediche riportate sulle lapidi dei personaggi, alla maniera dell’Antologia di Spoon River, delucidazioni a mò di “istruzioni per l’uso per chi ha le orecchie più semplici” sui riferimenti inseriti nel romanzo ( letterari, musicali), infine una guida sui temi trattati (morte, malattia, guarigione, olocausto …).
Un romanzo complesso da centellinare parola per parola, un grande autore classico (deceduto nel 1996) da inserire tra i maestri della letteratura contemporanea.
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Miele amaro
Quasi una poesia in prosa, a tratti oscura e per lettori “forti”, carica com'è di metafore, riferimenti dotti e termini ricercati su cui persino lo Zingarelli a volte tace.
Respingente anche l'odore di morte che arriva da ogni pagina mentre scorre sotto gli occhi del lettore una galleria di spettri, morti che parlano e camminano.
E' una sorta di viaggio nell'anticamera dell'Ade, con l'io narrante che si affaccia sull'orlo del precipizio estremo traendone prima l'orgoglio disperato del condannato, poi l'esultanza mista a rimorso del graziato.
Crogiolarsi nell'idea della prossima fine ha il vantaggio di farlo sentire sublime protagonista dei pochi giorni che all'inizio crede gli restino da vivere, ruolo più comodo di quello di semplice comparsa con cui dovrà invece fare i conti ritrovandosi in mano, inaspettatamente, un numero presumibilmente cospicuo di anni.
La Rocca, sanatorio di Palermo popolato in gran parte da reduci di guerra, diventa per lui fonte di “miele amaro”, fetido e soave, luogo battuto da un sole impietoso nel corso della sua malattia e da una pioggia purificatrice al momento della guarigione, quando gli elementi della natura tornano ad essere forieri di vita:
“... e fu odore di piccola pioggia sull'erba, odore di nebbia, fioca aria di temporale lontano”.
L'amore, se così vogliamo definirlo, è una sorta di farmaco che agisce su sentimenti e sensi e aiuta ad aggrapparsi alla vita, con un'immagine femminile che in questo contesto mortifero non può che essere rappresentata da Marta, donna dal torbido passato e senza futuro:
“... trucioli erano, i suoi discorsi, trucioli d'oro finto... sotto il quale si intravedeva – male ma s'intravedeva – l'implacabile osso della morte”.
Pietà per i vinti, certo, ma anche dubbio se sia stato dopotutto premio o pena continuare a vivere
lasciandosi alle spalle una “giovinezza cariata”:
“Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita”.
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Uno scoglio di Mala Speranza
La malattia, l'eterna lotta tra la vita e la morte, l'inevitabile resa, la voglia di amare e di amarsi nonostante tutto sono gli argomenti principali di questa bella opera di Bufalino. L'incedere lento della tubercolosi detta i ritmi del romanzo, la prosa barocca crea un'atmosfera cupa ma al contempo poetica, la bellezza degli assolati paesaggi siciliani ravviva l'aura di decadenza in cui sono invischiati i personaggi. Una sottile ironia pervade l’intero racconto, un sarcasmo dissacrante che sembra prendersi gioco delle velleità e delle speranze di noi poveri comuni mortali. La guerra è appena finita, ma ognuno, chi in un modo, chi nell'altro, ne porta addosso i segni. Siamo in un sanatorio nel palermitano, più precisamente nella bellissima Conca d'oro, nei mesi che seguono la fine del secondo conflitto mondiale. A capo della struttura sanitaria troviamo il Gran Magro, primario sui generis troppo dedito all’alcool e alla blasfemia per curare la propria cirrosi. Tra le mura della rocca si respira aria malsana, la malattia opprime il fisico e condiziona la mente, la falce del Tristo Mietitore è sempre in agguato. In mezzo allo stuolo di disperati in bilico tra la vita e la morte troviamo l’io narrante, un giovane reduce cui il freddo e gli stenti patiti al fronte hanno dilaniato i polmoni. In attesa che la tisi decida cosa farne di lui, il nostro protagonista si trascina stanco e sfiduciato di giorno in giorno, coltivando una singolare amicizia con il Dottore fatta di brindisi a base di Porto, partite a scacchi e bizzarre dissertazioni filosofiche e teologiche. L’entrata in scena della bella ed esangue Marta, ricoverata nel reparto femminile, scombinerà tutte le carte inserendo un nuovo fattore nella delicata partita tra la vita e la morte: l’amore. Ma come può un così dolce e nobile sentimento non trovarsi in totale contrapposizione con il senso di disfacimento e distruzione che pervade quella sorta di prigione che è il sanatorio? Come può la vita continuare a reclamare spazio in un corpo ormai martoriato da un “innominabile minotauro”? Cosa può sentire di essere un uomo davanti al disegno di un creatore “gaffeur”, “cavadenti”, “schiappa”, “garzone di mago” se non “un guardiano di faro scordato dagli uomini sopra uno scoglio di Mala Speranza”? “Fossi stato sicuro di non lasciarmi dietro a ogni passo le mie lumacature e polluzioni d’untore, non sarei rimasto a covare nel pagliericcio la febbre come una cimice, ma sarei sceso a consumarmi fra la gente, in fretta, ero troppo vigliacco per morire a rate. Questo nei primi mesi, poi alla esistenza smozzicata degli altri finii con l’assuefarmi, e dal loro consorzio non volli più disertare.”
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Il diavolo, l'amore, la morte e l'inverso
Storia ambientata in un sanatorio, prevalentemente. Incuriosisce subito la coincidenza e tematica e cronologica con altre due opere, la prima- che coinvolge anche l’altro rimando- ci riporta a “La montagna incantata”, la seconda a “La veranda” di Satta. In questo caso la coincidenza cronologica ha la sua ammaliante fascinazione: Gesualdo Bufalino , già sessantenne è convinto alla sua prima pubblicazione e questa riscuote subito immediato consenso, siglato anche dal Premio Super Campiello (1981), mentre in Sardegna fra le carte di un noto giurista morto di recente si scopre, confuso e celato, un manoscritto, prima opera rifiutata all’esordio come proposta per concorrere al Premio Viareggio. L’ambientazione è la stessa, la tematica giocoforza coincidente.
All’inizio del Novecento la tisi popolò dunque anche nei romanzi e i luoghi destinati alla cura elioterapica entrarono di prepotenza nelle pagine più belle della letteratura, possiamo essere nel sanatorio di Berghof nelle Alpi svizzere di Davos con Thomas Mann, oppure nella nostra Merano con Satta o ancora sulle alture di Palermo con Bufalino. Nei tre scritti il luogo è emblematico anche se solo con Mann viene amplificato allo scenario naturale circostante in modo più suggestivo.
Il tratto distintivo del romanzo in questione è altro, è evidente e va ricercato già nel titolo e nell’amplificazione semantica contenuta nel lemma “diceria” il quale può essere inteso come “discorso per lo più breve detto di viva voce, poi anche scritto e stampato...Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte...il troppo discorrere intorno a persona o cosa...”(TOMMASEO- BELLINI).
A quale rivolo interpretativo concedersi è già la prima sfida, sì perché leggere questo scritto è una sfida bella e buona, soprattutto quando si impatta per la prima volta la scrittura del siciliano permeata di un tono alto, lirico, studiato, complesso e perverso. È noto il lavoro di lima condotto incessantemente dall’autore ( l’edizione Bompiani da me letta offre in appendice epigrafi, versi, epitaffi, chiose integrative ad uso del lettore espunte tutte dal testo ultimo) e il carattere ermetico di un linguaggio che nutrendosi di un vasto corredo poetico, invita ad una lettura amplificata nel senso, da sciogliere come i termini di paragone dentro una metafora. L’impatto iniziale è ammantante, il lessico si amplifica verso lemmi mai uditi ( il vocabolario è d’obbligo a più riprese), il cervello sussulta, la trama abilmente si apre.
Di che parla dunque questo libro? Chiediamolo all’untore, a colui che giovane fatta esperienza di guerra e di successivo internamento in sanatorio, si ritrova a essere depauperato di parte della vita quella coincidente con i più begli anni, quella parallela al fiorire degli istinti e delle bramosie e al maturare di sentimenti profondi.
Il consorzio umano si riversa in un luogo finito contrapposto all’infinito del mondo fuori e le relazioni di base a tre figure : un antagonista in amore ( il mefistofelico dottore, “Il magro”) , una donna da amare ( Marta), un prete (Padre Vittorio). Tra i due giovani si intreccia una relazione amorosa corrosa e ammorbata in cui amore e morte si intrecciano nel mirabolante gioco dell’omissione, paradigmatico di temi quali l’olocausto, inteso come sacrificio, la malattia con il suo compagno di sorte che è lo stigma, la libertà e la privazione della stessa, il sogno. Ho enumerato solo quelli che mi hanno maggiormente colpita, in ogni caso l’opera offre anche la guida-indice dei temi e sono molto più interessanti proprio quelli che ho omesso.
La vicenda vive infine di un bellissimo finale che scioglie le relazioni umane e che riporta mestamente l’individuo alla sua individualità.
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Satta
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La malattia della morte
« O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. »
Mi è sembrato doveroso scrivere questa recensione partendo dall'incipit di questo romanzo, pervaso da un'atmosfera onirica e surreale. Un'atmosfera che trova la sua spiegazione già nel titolo: il termine "diceria" viene spiegato dallo stesso autore come un "racconto, dettato, monologo con in più un’insinuazione di scarsa credibilità, come di uno sproloquio mormorato all’orecchio". E cos'è il sogno, il magico, il mitologico, se non un'insinuazione di scarsa credibilità? Perché questo è il mondo della fantasia: un mondo dove le leggi e le convinzioni del reale cessano di esistere. Perché questo è il mondo della letteratura.
Il riferimento all'untore, infine, non può non farci ritornare in mente il mondo degli appestati, degli infetti e dei sanatori di manzoniana memoria. Ed è proprio in un sanatorio dove si svolge la trama del libro.
Siamo nel 1946 e un reduce delle seconda guerra mondiale si ritrova ricoverato in un sanatorio della Conca d'Oro, vicino Palermo. Il sanatorio è popolato da donne, bambini, reduci di guerra e malati cronici. Tutti accomunati da un identico destino: l'attesa della morte. E' la morte, infatti, la tematica dominante di questo romanzo. La paura (o forse la speranza?) di morire viene esorcizzata da questi curiosi personaggi che si intrattengono a vicenda con discorsi, monologhi interminabili e dispute filosofiche. Si tratta di dicerie, appunto. Si stringono amicizie, ci si innamora, si tentano delle fughe. Tutta l'atmosfera del romanzo è onirica e fittizia. Anche il sanatorio sembra un luogo surreale, che non esiste nella realtà, dove lo spazio ed il tempo sembrano essere stravolti. Un luogo che sembra più che altro un palcoscenico dove i malati e i medici sono attori e i loro dialoghi, le loro dicerie, sono parti di un copione già scritto.
Il linguaggio dell'autore è colto, ricercato, con l'utilizzo di termini desueti e raffinati. I periodi sono cesellati con estrema cura dall'autore, quasi alla ricerca di una perfezione letteraria, che si sposa con l'uso di citazioni estremamente fini.
Non si tratta di un romanzo facile da leggere. E' un libro che richiede uno sforzo di concentrazione e un impegno da parte del lettore non indifferente. Io stesso, ingannato dalla brevità del romanzo, ero convinto che l'avrei letto in pochissimo tempo. Così non è stato, ovviamente. Questo perché è un romanzo che richiede una lettura ragionata, né superficiale né tantomeno distratta.
Ma nonostante queste difficoltà, io mi sento di consigliarne la lettura.
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Il tradimento
"E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d’aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita."
Ci sono romanzi che iniziano in sordina, quasi che l’autore sia timoroso di offendere il lettore travolgendolo da subito, ma che poi pagina dopo pagina, riga dopo riga si intrufolano, ma sempre in punta di piedi, nell’animo di chi dapprima scettico sente crescere in sé un entusiasmo che non lo lascerà fino alla fine.
C’è una narrativa che, pur non cercando di indulgere alla commozione, poco a poco insinua nel cuore una vena di malinconia, mettendo a nudo e alla prova la capacità di sentire e di umanamente comprendere.
C’era un vecchio insegnante che ha voluto parlare della vita di uomini vicini alla morte e in tal modo è riuscito a far comprendere quanto, in quell’attesa, si possa ancora essere uomini.
Ecco, Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino è tutto questo.
Pubblicato per la prima volta nel 1981 ottenne subito un grande successo di critica e di pubblico, vincendo il Campiello lo stesso anno.
E’ stato, quindi, un debutto clamoroso, sia per la qualità dell’opera che per l’età dell’autore, che all’epoca aveva sessant’anni.
Bufalino racconta l’esperienza autobiografica della degenza nel sanatorio della “Rocca” di Palermo, un percorso della memoria che dapprima lo portò ad abbozzare il testo verso il 1950, scrivendolo poi nel 1971 e dedicando i successivi dieci anni a continue revisioni.
La trama in sé, che potremmo definire “una tresca d’amore e di morte”, si può ben riassumere, senza per questo togliere il piacere della lettura, in quel che al riguardo dice Bufalino:
“Si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in un sanatorio della Conca d’Oro, nel ’46. Fra il protagonista e una paziente dai trascorsi ambigui (Marta) nasce un amore, puerile e condannato in partenza, più di parole che d’atti, il cui sbocco è una fuga a due senza senso, e, subito dopo, la morte di lei in un alberghetto sul mare. Egli, invece, guarisce, inaspettatamente, e rientrando nella vita di tutti, vi porta un’educazione alla catastrofe di cui probabilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre.”
E’ una interpretazione dell’eterno connubio di eros e thanatos, in cui nulla è lasciato al caso, tanto che Marta, amante dell’io narrante, ha le stesse consonanti della morte.
Fra l’altro, in questo romanzo stupiscono lo stile e l’abbondanza del linguaggio, che a tratti presenta caratteristiche baroccheggianti, soprattutto prima di introdurre profonde riflessioni, quasi che il ricorso a parole inconsuete, anche se nel passato utilizzate da letterati, servisse a procedere con maggior lentezza, predisponendosi così a una pausa meditativa.
Resta il fatto che sovente ci si trova di fronte a ampi laghi di parole, messe in bocca anche a personaggi che per le loro caratteristiche dovrebbero avere invece un lessico più modesto, il che dapprima mi ha indotto a pensare che in tal modo Bufalino volesse dare dimostrazione della sua erudizione, ma poi riflettendo, accostando le parti dell’opera fra di loro, credo d’aver capito i motivi e cioè evidenziare la forza dirompente del verbo in un ambiente immobile quale quello di individui che si trascinano alla fine, dove i suoni normalmente dovrebbero essere solo i frequenti colpi di tosse, e che invece danno un senso di intensa vitalità - potremmo quasi pensare agli ultimi fuochi – in chi è solo in attesa.
I personaggi, che potremmo chiamare i morituri, non sono mai semplici comparse, perché ognuno ha la sua storia nella storia comune dell’imminente fine, un residuo di vita che ogni giorno si spegne e che è retta da un patto tacito di non sopravvivere gli uni agli altri.
Compagni di sventura, emblemi di un’umanità che è parte del ciclo generale della vita, un cerchio infinito di nascite e morti che Bufalino ben tratteggia nel corso della fuga dei due protagonisti principali con l’immagine dell’agave, a cui occorrono dieci anni per fiorire, ma che, subito dopo, muore, una metafora per dire che la vita necessariamente salda con la morte il debito contratto per esistere.
Del resto, nell’opera sono contenuti diversi messaggi, anche se elementi salienti sono certamente il sentimento della morte, il sanatorio visto come luogo di sicurezza, più dalla vita che dalla morte, e addirittura quasi incantato, nonché l’imprevista guarigione considerata come un tradimento nei confronti dei compagni di sventura, quasi una diserzione da un destino che si è comunemente accettato.
Diceria dell’untore è sicuramente un romanzo stupendo.