Cuore cavo
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Un cuore continua a battere
“Cuore Cavo” accoglie tra le sue pagine una storia cruda, in cui la morte domina la scena prepotentemente.
Questo romanzo non si può ridurre semplicisticamente ad una storia di suicidio; questo romanzo nasconde altro, vuole trasmettere altro.
Viola Di Grado utilizza la storia della sua Dorotea, per indagare sull'intreccio tra la vita e la morte, per interrogarsi sui volti oscuri della morte e sulle eventuali strade percorribili dopo di essa.
Argomenti complicati e opinabili che si colorano di infinite sfumature a seconda dei punti di vista e dei credo di natura religiosa o personale.
L'autrice ha la capacità di materializzare davanti agli occhi del lettore sia la vita sia la morte.
La vita talmente spinosa, amaro calice, ingiusta, diversamente articolata, vita familiare spezzata, vita sociale inappagante, vita amorosa deludente, piccole gioie, grandi rancori e incomprensioni, continuo rincorrersi di speranze; eppoi la morte, non solo accidentale o naturale, ma anche bramata come soluzione, come via di scampo, come uscita di sicurezza, come occasione per voltare pagina.
Ma la morte cos' è?
Un approdo sicuro verso un'agognata serenità o l'inizio di una nuova esistenza?
La Di Grado affida la sua risposta alla narrazione, improntando il suo racconto sulla duplice faccia della morte.
Da un lato la morte come nemica della fisicità umana, colpevole del disfacimento e della perdita di ogni connotato fisico della persona, dall'altro la morte con la sua capacità di creare un nuovo essere, di cui non può intaccarne la sensibilità e le emozioni, anzi ne esalta il potere di vedere oltre ai limiti posti dal vivere quotidiano.
Insomma l'autrice immagina la nascita di una persona novella, in grado di di comprendere l'essenza ed il significato della vita terrena in maniera limpida e più distaccata dalle costrizioni imposte dalla famiglia e dalla società.
E' un romanzo lacerante e duro, in cui la narrazione in prima persona della protagonista amplifica il suo grido di dolore e la sua estenuante ricerca di una collocazione nel mondo; un lungo monologo per fare il bilancio di una vita, per accendere una luce sul passato, per accettare il presente e immaginare un futuro.
A livello contenutistico è un racconto dal costrutto coraggioso, ma ottimamente articolato ed elaborato; l'asso nella manica di questa giovane autrice è la forza e l'originalità stilistica, doti che le permettono di utilizzare le parole come armi che puntano dritte al cuore di chi legge.
Parole secche, dure, evocatrici di sensazioni immediate, senza filtri per edulcorarne gli effetti.
Viola Di Grado è una giovane penna talentuosa, capace di trasformare inanimate pagine di carta in una fucina di sentimenti e di emozioni.
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Cronaca di una morte avvenuta
Dorotea Giglio sta morendo. Coi suoi venticinque anni e pochi esami alla laurea, una vasca da bagno colma d’acqua ed il rasoio che recide le vene. I lunghi capelli sottili fluttuano mentre l’acqua si tinge, fredda e purpurea, ormai. Dorotea Giglio resta con noi, sebbene la sua vita sia stata stroncata dal suicidio.
Il corpo rigido in balia della terra e delle sue creature, che voraci si cibano delle carni putrescenti. Mosche che depongono uova, larve che scivolano su lembi di pelle, ossa che si sgretolano polvere eravamo e polvere torneremo.
L’anima invece resiste all’infierire della lama, non c’è pace non c’è redenzione, vaga nei luoghi conosciuti e incontra le persone di un tempo, l’incomunicabilità di quando viveva rimane tale. Dorotea che si sentiva invisibile, assetata di attenzioni e affetto diviene oggi emblema di assenza e sofferenza, priva del suo corpo e piu’che mai immateriale, inevitabilmente evanescente ogni suo sforzo di interazione. La sua compagnia trai i vivi sono ora solo i morti, che popolano il Paese rimpiangendo quelle sensazioni ormai inarrivabili, sempre piu’ ammantate di nostalgia.
Forse vorrebbe essere la celebrazione della vita quando ormai l’unico scenario e’ soccombere, oppure è la morte che non riesce a recidere pienamente il cordone che la lega alla vita. Potrebbe essere la rivisitazione del mondo che verrà dopo la dipartita, quando esseri viventi e fantasmi convivono loro malgrado in un’esistenza di dolore e perdita, di rimpianti e attese.
Lettura scorrevole, Di Grado sa scrivere bene ma il soggetto non mi ha colpita e l’arrancare di questa giovane anima tormentata mi ha lasciato in un limbo, il mio malessere inciampava sul fastidio per poi ruzzolare addosso all’indifferenza.
Probabilmente non l’ho capito, senz’altro non mi è piaciuto.
La morte: prima, dopo e durante
Questo è il diario della morte di Dorotea Giglio (1986 – 2011), un grido di aiuto, lei si affida a noi lettori. Un’esistenza zoppicante, incubi, urla silenziose, tragedie mai appartenute sferrano duri attacchi alla quotidianità, mente e corpo seviziati da passati funesti. Una madre depressa, una figlia ereditiera di quel male, una vita innocente segnata all’origine da colpe e assenze altrui, come la zia suicida, accolta a braccia aperte dalle acque del fiume.
Seducente la morte, promette la fine di tutto. Truffaldina la morte, libera solo dal peso corporeo. Fantasmi svolazzanti nella dimensione terrena, perdono gradualmente le capacità sensoriali e cognitive. La giostra continua a girare, posti occupati da entità, il bar è aperto, gli avventori sono trasparenti. Capita che si urtino i vivi e i morti, i primi impazziscono, gli altri si entusiasmano. Sognatori, credenti nell’aldilà, seguaci della reincarnazione si ritrovano protagonisti di una vita non vita, amputata dal vero senso della parola, c’è tolleranza fra di loro, suicidi, morti violente, ammalati, sono tutti sulla stessa barca, nell’attesa del nulla o forse di tutto. Intanto, il sarcofago che li ha sorretti prima del trapasso, si svuota, un horror show, danno e beffa a portata di mano, lo spettacolo è aperto a tutti i residenti del cimitero.
Leggere questo libro è una sofferenza. Voltare le pagine e bere avidamente ogni parola è doveroso e irrinunciabile. La penna poetica e cruda incanta, colpisce con durezza, stupisce e addolora. Viola di Grado è abile a giocare e a lavorare con le parole. La trama è originale, ci sono alcune imprecisioni ma non intaccano la qualità e la riuscita del romanzo, le pagine sono poche e si lasciano divorare.
Concludendo, ne consiglio la lettura, una giovane scrittrice che merita attenzione.
“Ecco la cosa peggiore della morte: il razzismo del linguaggio umano. Mentre i vivi si abbuffano di presente indicativo, a noi spettano solo avanzi ammuffiti di passato remoto. Per ricevere un po’ di verbo presente bisogna necessariamente avere al petto il tesserino osceno di un cuore palpitante.”
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UNA MATRIOSKA DI STANZE VUOTE
Mi è difficile recensire questo libro, non posso snaturare il mio commento da ciò che sono, da ciò che penso, da ciò che credo.
Quello che traspare dalle righe che scrive la Di Grado, è diametralmente opposto da ciò che sono le mie convinzioni e la realtà che vivo.
Cuore cavo affronta un tema veramente tragico, il suicidio. Chiunque di noi è in grado di ipotizzare differenti scenari di vita che possono portare una persona a compiere un atto così definitivo, così irrimediabilmente violento, così doloroso, ed è quello che pone in essere l’autrice stessa.
Abbiamo una giovane donna, Dorotea,cresciuta senza un padre che l’ha abbandonata all’età di tre anni:
“Non volevo crescere. Volevo rimanere bambina, per quando un giorno mio padre sarebbe tornato. Non volevo che quel giorno, aprendo la porta, non mi riconoscesse….. Meglio morire che diventare un’altra.”
Cresce nello squallore, con una madre che l’ha messa al mondo irresponsabilmente, che la reputa causa di tutti i propri “mali”, ed una zia, Clara. che si trasferisce nella loro casa ogni volta la situazione rasenta la tragedia…:
“Crescevo, ma avevo capito il meccanismo segreto del dolore. Avevo capito che il dolore è una matrioska: non finisce, si nasconde solo dentro nuovi dolori e ogni nuovo dolore li contiene tutti.”
Nulla di particolarmente nuovo o diverso dunque , come tipo di vicenda raccontata, anzi, il clichè della povera giovane che cresce con figure di riferimento del tutto assenti o disfunzionali, che porta con sé un epilogo tragico è un tema che viene affrontato in innumerevoli libri.
La cosa che merita attenzione quindi,è lo stile di scrittura, originale, unico nel suo genere, ed è il punto di forza del libro.
Non mi ha entusiasmata particolarmente nemmeno la descrizione minuziosa dei vari stadi di decomposizione che attraversano il corpo.
A dire il vero il messaggio che la Di Grado ha voluto trasmettere, riguarda le considerazioni personali su vita e morte. L’autrice afferma in un’ intervista, di aver voluto abbattere le barriere tra la vita e la morte, considerato un noioso tabù occidentale, e di voler pensare alla morte come un fenomeno geologico universale, il corpo perde i suoi confini e “l’anima” si sparge nella vita.
“Tra poco finirà Dorotea Giglio, ma non cambiate canale, i suoi atomi torneranno presto in circolo in un nuovo essere umano! Non hai idea di quanto è cinico l’universo.”
E ancora:
“ Non sei più di nessuno, pesino il tuo corpo ti ha abbandonato. Bisogna accettare di essere soli e abbandonati a sé stessi. Di non essere più nulla e di non capire un cazzo delle cose perché la vita non ha più bisogno di essere capita da noi.”
Nella frase appena citata è contenuta forse, l’unica esclamazione volgare del libro, questo, a mio avviso, è un segnale di quanto l’argomento vita-morte così come lo intende, stia a cuore all’autrice.
La Dorotea morta vaga nel quotidiano grottescamente, elemosinando ancora l’amore che le è mancato in vita, quindi si chiede il perché la madre non riesca a sentirla e percepirne la presenza, si innamora di Alberto, si insinua nel suo quotidiano, al punto da fare veri e propri “numeri da fantasma”…. Mah!
L’aspetto spirituale se pur così fortemente rifiutato, è presente nel libro, con citazioni bibliche sparse qua e là e frasi che rasentano la blasfemia:
“Le arterie ormai non tengono più il segreto: prendete e bevetene tutti, questa pioggia e questi laghi e questi fiumi sono il mio sangue.” (di Dorotea)
“…a Pasqua facciamo il gioco di inchiodarci mani e piedi al muro, per ridere di quanto non faccia male. Ci raccontiamo i peccati per scoprire quanto inutile sia la colpa, e ancor più il perdono.”
E a questo punto percepisco una caduta di stile dell’autrice, le proprie opinioni non hanno bisogno di calpestare altri credo per essere forti.
La forza del propri pensieri ed idee deriva in ogni caso, dal rispetto di idee e pensieri diversi dai nostri.
Che morale trasmette questo libro? Me lo sono chiesta al termine della lettura e lo chiedo a voi, in quanto a me come storia non ha lasciato nulla.
La Di Grado potrebbe usare il dono che indubbiamente ha della scrittura, per produrre qualcosa di meglio.
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VIOLA FROM SPOON RIVER
Cuore cavo è “una caverna franata del nostro petto,in fondo alla terra e lo si ingoia” per riutilizzzare uno dei tantissimi passaggi lirici che gorgheggiano in queste pagine e di musica in questa pulsante narrazione ce n’è davvero parecchia.
E’ un libro che lascia qualcosa di dolcemente reale,di evanescentemente palpabile forse anche lui stesso diviene,una volta terminato, un fantasma che sfiora le tue ciglia mentre tu non puoi più accarezzare la sua copertina,forse sta ancora bisbigliando e continuerà a farlo e sarà più incisivo di tutto il frastuono.
Dorotea la protagonista e non di questo libro,decide di uscire dalla vita per ritrovarsi a rientrarci a braccetto con la sua negata fisicità post-mortem con tutte le emozioni,pensieri,trepidazioni,congetture e ragguagli meditativi e melanconici che la fascinazione di un argomento che sfida l’uomo dalla sua stessa nascita sulla terra porta con sé
Per questo tema è davvero funanbolico riuscire,per me,in questo momento a scrivere una recensione,perché l’ampiezza é davvero di difficile compressione,come è davvero degno di nota che una scrittrice cosi giovane sia riuscita a dargli lo spessore frastagliato e la sensazione stratificata,fino ad arrivare alla più precisa archeologia necrofiliaca per dare ancora meno e al contempo più importanza al nostro io,alla nostra esistenza e a tutto ciò che la crea e la distrugge.
Il corpo che si sfalda e mentre ne viviamo il completo sfacelo e mentre noi stessi ci sentiamo mangiare dalla morte fisica,percepiamo l’essere cibo per la vita stessa,il dolore ci ha reso carne putrefatta,il piatto succulento di batteri e vermi e famelici di essere,questa voracitàci stringe in un abbraccio cannibale.
Il vuoto di stomaco per l’essenzialità,il valore aggiunto sopra la terra che ci nasconde ai ricordi e diventa l’incognita e la continuità del precipizio su noi stessi.
“Era una liberazione,essere finalmente fuori di me:da viva passavo troppo tempo dentro di me,segregata nel freddo monolocale del mio cervello,con tutte le finestre rotte e le serrature da oleare.Soffocavo nell’aria viziata della mia infanzia,coinquilina di tutte le me del passato senza avere le chiavi di casa.Delle me ancora vive e di quelle decrepite e di quelle già morte,a scambiarmi con loro i vestiti e la pelle ad appendermi ai lobi i loro vermi.
L’introspezione è necrofilia”
Lo stile è persuasivo ma a tratti mi ha dato l’impressione di essere troppo ricercato,come forzato,lasciandomi a volte una pastosità artificiosa e ho sentito la mancanza dell’ironia nera del precedente romanzo a parte qualche breve sprazzo come l’Oroscopo dei morti.
Questo libro è già il nutrimento del suo fantasma guardingo,chissà cosa penserà di se stesso osservando la sua copertina sgualcire a noi non resta che l’illusione di averlo letto a nostro modo.
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Decomposizione di una vita
"Da vive , le persone sono così libere da aver bisogno di un bordo.
Per istinto e per cultura lo identificano con la morte.
E' sempre stato così,è stato così per tutti,e lo è ancora.
Le persone credono che finire di vivere segni un limite...
C'è bisogno di questo muro.
C'è bisogno di sapere che non può essere abbattuto.
Nessuno ha il coraggio di immaginarne l'assenza.
Le letteratura e la religione hanno coperto questo muro di scritte pietose.
La fregatura è quando scopri la verità
Non c'è muro,linea divisoria,bordo,fine."
In questo libro è descritto il suicidio, quello di una giovane donna, studentessa di biologia a pochi esami dalla laurea, Dorotea è il suo nome, almeno questo è il senso che hanno la serie di segni scritti sulla sua lapide nel cimitero di Catania. La ragazza vive,o meglio viveva,( mentre di sotto nel terreno umido gli insetti sarcofagi cominciano a pasteggiare col suo cuore), con la madre di professione fotografa, donna tanto affascinante quanto anaffettiva. Il padre non l'ha mai conosciuto anche se questa figura maschile la fanciulla la cerca,la insegue, disperatamente, lungo tutto l'arco della sua vita di dopo, quella di fantasma. Zia Clara,editore, è la donna più forte di questa inquietante famiglia, dove, in passato si è già consumata una tragedia, il suicidio di zia Lidia ,disgrazia che ha già messo a dura prova i labili equilibri di questa piccola comunità di donne di cui Clara stancamente raccoglie i cocci.Ma intanto loro, dico gli insetti calliforidi, stanno continuando imperterriti a moltiplicarsi nella carne in decomposizione del cadavere di Dorotea. Viola Di Grado fotografa con la penna le mosche "metalliche" che depongono le loro piccole uova bianche negli interstizi della pelle di Dorotea, mentre i bigattini, quei vermi bianchi noti ai pescatori, spazzolano tutto quello che non è osso. Ho trovato molto interessante questo romanzo,scritto benissimo, originale l'avvicendarsi nella narrazione di paragrafi dedicati agli episodi della vita di Dorotea prima e dopo il 23 luglio 2011 , giorno del suicidio, con la descrizione quasi maniacale dei vari stadi di decomposizione del corpo della sfortunata ragazza, sembra un "necroir" un nuovo genere letterario, permettetemi una battuta, la descrizione di un fenomeno necrotico e un noir, si perchè il suicidio, come spiega Emile Durkheim, è un fenomeno sociale non individuale, nel romanzo Dorotea ci descrive tutto il suo mondo, padri assenti, madri nevrotiche ,zie decise, fidanzati egoisti, amici e amiche evanescenti; attraverso la conoscenza di questo universo scopriremo il nome del movente e dell'assassino.
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Cuore cavo
Quando si conclude questo romanzo anche l'ultima speranza, quella della pace dopo la morte viene infranta. La disperazione che invade il depresso non è raccontata è fatta intuire dalla delusione e dall'inutilità che la morte si rivela. Chi ha sentito dentro di sé la fredda morsa dell'angoscia, insopportabile a tal punto da far apparire dolce e rassicurante l'eterno oblio, ma le ha resistito, non può non godere nell'apprendere che la sua titubanza l'ha salvato, almeno per un po', dall'eterno attendere qualcosa che non arriverà, senza però la consolazione della morte.
Attraverso uno stile originale e fresco quello che ci troviamo a leggere è un inno alla vita, raccontato da chi quell'unico bene lo ha reciso con una lametta da barba in una vasca. Un inseguirsi di sentimenti vengono suscitati durante la lettura che trascinano il lettore in un vortice di sensazioni, spesso forzate, ma sempre intense. I pochi personaggi sono caratterizzati molto bene, attraverso dialoghi ed espressioni, nessuno di essi viene descritto in modo fastidioso, ogni volto è appena accennato lasciando libera la fantasia di immaginare. La protagonista è raccontata attraverso la morte, la disgregazione del corpo, creando un rapporto conflittuale con gli organismi che lo stanno putrefacendo. I personaggi secondari sono un po' esagerati per azioni e reazioni, ma verosimili, mai troppo estremi.
Ciò che rende questo libro molto interessante non è il piano narrativo, ma le molte chiavi di lettura a cui si presta; se ci si lascia trasportare dal sapore agrodolce che suscita, si capisce che l'autrice non ha solo raccontato una storia, ma ha trasmesso delle emozioni, proprie, le ha messe su carta e le ha liberate dal suo intimo. Lo stile se pur talentuoso è ancora acerbo, si alternano paragrafi di pura arte ad di alcuni buon artigianato. L'autrice non ha avuto il coraggio di rendere predominante l'intuizione del geniale incipit, imbibire la carta di quell'ironia tagliente che avrebbe reso questo bel romanzo in un' espressione artistica di alto livello.
Un'opera da consigliare e un' autrice da seguire e da amare.