Comallamore
Letteratura italiana
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Le ali per volare
Siamo lontani dalla bellezza de “Il dolore perfetto”, tuttavia la storia raccontata da Riccarelli in “Comallamore”, è un piccolo spaccato di Italia.
Riccarelli ama il passato, la vita, i costumi, le singole storie che assurgono a volto della Storia del nostro paese.
Come la storia immortalata tra queste pagine: la storia di una famiglia, di un figlio, di una generazione, di buoni e cattivi, di sani e malati, in un'Italia piagata dalla guerra.
I personaggi dell'autore camminano sempre sul leggerissimo filo che divide realtà e fantasia; sono esseri che soffrono, sono dei vinti che cercano e trovano uno stelo d'erba verde in mezzo alla desolazione del deserto. Sono corpi e sono anime, disegnati in un dualismo che si scinde e si fonde.
Lo stile narrativo di Ugo Riccarelli è un “marchio di fabbrica” originale, dove la scrittura suggestiva ed evocativa è utilizzata per colorare i volti dei personaggi, donando loro le ali per evadere dalla costrizione del mondo reale, del quotidiano.
I protagonisti sognano e sperano fino in fondo in un mondo nuovo in cui potersi realizzare e abbattere le barriere del destino avverso.
Il romanzo è breve, l'intreccio narrativo è semplice, a tratti l'intensità è sfumata, tuttavia i volti tratteggiati piangono e sorridono con genuinità di sentimenti ed emozioni.
Un romanzo apparentemente leggero, ma il segreto dell'autore è quello celare temi forti sotto vesti delicate.
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Solo buone intenzioni
Comallamore è un romanzo colmo di buone intenzioni, rimaste però per lo più tali. Certo, parlare della pazzia, dei matti, avvicinarli, cercare di entrare nella loro mente è un compito arduo, di notevole difficoltà anche per un esperto psichiatra e Riccarelli non lo era; però, molto opportunamente ha preferito accostarsi a questo argomento non scientificamente, perché gli sarebbe stato impossibile, ma con la forza dell’amore, che sicuramente non gli mancava e con la sua sublimazione, con quella pietà merce tanto rara ai giorni nostri.
La trama è una di quelle che ben si presta a costituire un romanzo avvincente, perché un uomo anziano, a una giornalista che gli chiede dei matti del Pianoro e del partigiano Collamore, racconta in pratica la sua storia, la sua vita di povero sciancato per un incidente giovanile di gioco, la sua impossibilità a proseguire gli studi di laurea in medicina per l’improvvisa morte del padre, il suo conseguente e necessario avviamento al lavoro, trovando un’occupazione presso il manicomio che confina con la sua casa, da cui osservava questi poveri pazzi trascinare stancamente e stranamente le loro esistenze. Beniamino, questo è il nome dell’uomo, diventerà medico sul campo, senza dover ricorrere a conoscenze specifiche, ma amando questi matti, cercando di comprenderli e di alleviare la loro sofferenza come bene gli aveva insegnato il dottor Rattazzi, contrario a una certa medicina ufficiale e in particolare alla pratica dell’elettrochoc.
Siamo negli anni del fascismo che precedono la seconda guerra mondiale, che poi arriverà sconvolgendo quel piccolo mondo e contrapponendo la pazzia dei pazienti con la follia di un conflitto.
Quindi c’erano tutti gli ingredienti per poter scrivere un grande romanzo, ma purtroppo le intenzioni, pur buone, sono rimaste tali, senza i necessari approfondimenti, se non una serie di abbozzi di problematiche. Per esempio, secondo me Riccarelli avrebbe dovuto andare più a fondo sulla pazzia della guerra, e non limitarsi alla ferocia di un ufficiale tedesco, perché qualsiasi conflitto rivela il peggio di ogni essere umano e questo non è necessariamente il fanatico nazista della seconda guerra mondiale. L’antitesi della malattia mentale e di quella bestialità che emerge con la guerra sono argomenti troppo importanti per essere appena accennati. Inoltre, senz’altro influenzato dalle sue condizioni di salute, Riccarelli inonda di tristezza il suo scritto, con una evidente inclinazione a cercare di portare alla commozione, alle lacrime.
Ciò che balza però subito agli occhi è la narrazione, prolissa, tanto da diventare monotona, con ben pochi dialoghi, una narrazione che a volte sembra tipica di un esordiente, con svolazzi poetici e digressioni che spezzano il ritmo pur lento della prosa, finendo con l’affaticare inutilmente il lettore, che, più che restare avvinto, viene frastornato da sentimenti spiegati e rispiegati, non di certo con poche misurate parole.
Posso comprendere che non pochi siano influenzati dalle dolorose vicende dei protagonisti, ma un romanzo, per essere veramente valido, non deve cercare di fare facile presa calcando la mano sui sentimenti, che pure è giusto che ci siano, purché vengano trattati con moderazione.
Insomma, l’impressione che ho ricavato é che Riccarelli, di fronte a una tematica così interessante, abbia impostato non bene la struttura dell’opera, che di certo non posso definire una delle sue più riuscite. In particolare si è molto lontani dall’equilibrio di Un uomo che forse si chiamava Schulz, o di Il dolore perfetto.
Leggere si può leggere e forse qualcuno non avrà da fare le mie osservazioni; comunque resta il fatto che Riccarelli ha perso un’occasione per scrivere qualche cosa di unico e irripetibile.
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Il valzer delle occasioni sprecate
Questo libro è un chiaro e lampante esempio di occasione sprecata: la storia era interessante, prometteva bene, i personaggi potevano essere intriganti, l'ambientazione anche.
Ma invece no.
Riccarelli è un bravo scrittore, non posso affermare il contrario, mi piace soprattutto il suo modo di disegnare gli stati d'animo, di dipingerli come fossero quadri.
Però, alla fine, non basta.
la storia deve lasciarti dentro qualcosa, non può essere sono un vacuo esercizio di stile.