Ciò che inferno non è
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
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“Riparare è molto più eroico di costruire”
Il romanzo si apre su una descrizione della città di Palermo vista dall’alto, all’alba, quando la luce ancora incerta ne altera i colori, ma la rende ancora più seducente e smagliante. Di fronte allo spettacolo in chiaroscuro dei tetti e del riflesso di luce che giunge dal mare, Federico, il giovane protagonista del romanzo, pensa all’arte del Caravaggio. E sarà proprio il chiaroscuro l’elemento dominante nel racconto, l’alternarsi di spazi di speranza a spazi di disperazione nella vita dei personaggi.
Qui , in questa città ricca di arte, custode di tradizioni e culture antiche, si sono radicati abuso e sopraffazione, sfruttamento e violenza. L’opera coraggiosa di 3P, come veniva affettuosamente chiamato Padre Pino Puglisi, è volta al recupero dei giovani più diseredati, di bambini abbandonati e adolescenti dediti al furto e alla prostituzione. In lui è una volontà, un desiderio e l’ambiziosa aspirazione a spegnere il fuoco dell’inferno che circonda i suoi ragazzi. L’inferno esiste ed è sulla terra e Federico lo imparerà a sue spese nel momento in cui coraggiosamente deciderà di aiutare Don Pino. L’amore per Lucia lo sosterrà nell’impegno.
Ciò che convince in questo romanzo è la capacità dell’autore di non abbandonarsi più del necessario a riflessioni religiose. Certo il personaggio di Don Puglisi non può prescindere dalla sua professione di fede, ma visto attraverso gli occhi dell’adolescente laico Federico, risulta più convincente e più coinvolgente il suo impegno ad aiutare i più deboli. È quasi un ritorno a un Cristianesimo delle origini che si libera della retorica ecclesiastica e agisce con dedizione e generosità. Ed è questo che convince, io credo, anche il lettore più laico. Perché in fondo Padre Pino intendeva solo restituire all’uomo quella dignità di cui era stato privato, e alla morte la tragicità di cui era stata spogliata. Come sacerdote non eccede in superflue prediche ma rende i sacramenti aderenti alla realtà. Con questo spirito raccoglie la confessione di Francesco, che diventa vera catarsi, cancellazione del suo inferno interiore.
“Riparare è molto più eroico di costruire” – queste le parole di Don Pino a Serena, volte a persuaderla a non arrendersi. E in fondo questa era sempre stata la sua missione, portata avanti con tenacia e perseveranza, quella tenacia che sua madre riconosceva con ammirazione come un aspetto del suo carattere, quando diceva: “Disse la goccia alla roccia, dammi tempo che ti percio”.
Dal punto di vista stilistico, la prosa è piuttosto ridondante, per l’uso frequente di figure retoriche, ma ciò che altrove può senz’altro essere considerato un difetto, qui diventa quasi naturale, visto l’argomento, affrontato e portato avanti con passione. D’altronde laddove si è accennato al chiaroscuro per descrivere i colori della città al primo risveglio, non appare fuori luogo un uso frequente dell’ossimoro, proprio per sottolineare i contrasti che esistono nei luoghi e nelle persone che li abitano.
Non a caso proprio Federico, che aspira a diventare poeta, dice del suo stile e della sua tendenza all’esagerazione barocca : “Del barocco amo l’arguzia, la metafora che sloga la realtà e il grande gioco delle parole con cui sfidarla d’azzardo”
Un romanzo coraggioso con il quale Alessandro D’Avenia intende celebrare la figura di Don Puglisi e ricordare il suo amore per quel quartiere degradato, Brancaccio, e il suo impegno per sottrarre quella parte di umanità diseredata e dimenticata all’inferno dell’abuso e della violenza del passato e del presente per traghettarla verso un futuro di dignità e di rispetto che inferno non è.
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NIENTE E' SEMPLICE
Questo libro tocca il cuore, ed è il complimento più bello che si possa fare a un romanzo. La storia di Don Pino Puglisi è dura, crudele e toccante, ma viene raccontata con momenti di pura poesia che entrano veramente nell'anima del lettore, portando una commozione nostalgica senza fine. Federico, il ragazzino diciassettenne che vuole aiutarlo nel suo lavoro, si ritrova trasportato in una realtà a lui sconosciuta, poichè a volte, come si sottolinea più volte nel libro, bastano una manciata di chilometri a segnare due mondi completamente differenti. E il suo quartiere signorile non ha nulla a che vedere col Brancaccio, in cui si vive diversamente, si cresce diversamente... e si agisce e reagisce diversamente. Federico lo imparerà sulla sua pelle, e con lui noi lettori, che lo seguiamo in quei vicoli, in quelle case, nell'oratorio in cui Don Pino cerca di dare un po' di vita normale ai piccoli del luogo, un posto sicuro in cui stare al riparo dalle brutture che li circondano. Mi ha commosso l'episodio in cui il parroco chiede ai piccoli cosa è per loro l'amore, e i bimbi rispondono nella loro semplicità. "Per me è dividere con gli altri", "per me è quando papà mi porta al mare e mi insegna a nuotare"...... e poi gli chiedono cosa sia per lui e lui risponde "Siete voi". E Federico lo ammira e ammira la forza di alcune famiglie che lui aiuta, e che non vogliono piegarsi al ricatto della malavita. Proprio in una di queste famiglie conoscerà la dolce Lucia, e anche da questo incontro si dipanerà una storia emozionante e toccante, dura e dolce come solo le esperienze che segnano veramente sanno essere. Esperienze che, poi, obbligano a fare una scelta. Quasi non si riesce a smettere di leggere fino all'ultimo capitolo, tanto è avvincente e crudele la storia. E sapere che quella di Don Pino è una storia vera porta ancor più rabbia e dolore. Poi però vai a leggere il finale, quello che è successo dopo, e capisci che non tutto è andato perduto. Che la sua vita ha fatti tanto bene a tanti, e ancora ne farà. Si, sarebbe da leggere nelle scuole e da far conoscere a tanti che magari non lo hanno mai conosciuto.
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Poco oltre. A volte non di più.
Intelligente ma a suo dire anche imbranato, sognatore, amante della poesia e di Petrarca, Federico, il giovane diciassettenne protagonista del romanzo (alter ego dello scrittore), si interroga: "Cosa è tutta questa vita scomposta dentro di me a cui non riesco a dare un nome?" perché "Ci sono giorni in cui il vuoto morde il petto e il nulla logora le viscere, so che dovrei darmi una mossa ma tutto quel vuoto e quel nulla mi paralizzano".
E nel mentre va cercando le risposte, continua la sua vita di ragazzo della 'Palermo bene' e si prepara a partire, ora che la scuola è finita, per una vacanza studio vicino a Oxford proprio come ha fatto tempo prima suo fratello Manfredi, più grande di lui: i genitori infatti sono fissati con l'inglese e poi se Manfredi è d'accordo vuol dire che è la cosa giusta da fare.
Le domande di Federico trovano pian piano risposta. Poco oltre. Perché a volte non serve di più.
3P, Padre Pino Puglisi, il professore di religione, lo invita a dargli una mano, prima di partire, a Brancaccio, periferia di Palermo, dove lui cammina, instancabile, a testa alta tra le strade del quartiere, a stretto contatto con i bisogni di una realtà dove tutto "È troppo pericoloso" perché "Quella è gente che è meglio starci lontano" e cerca di offrire un modello alternativo alla mafia soprattutto ai bambini, che sono i più fragili, i primi a subire il fascino degli uomini di rispetto: "bisogna cominciare dai bambini, bisogna prenderli prima che la strada se li mangi, prima che gli si formi la crosta intorno al cuore".
Federico accetta.
E poi...
Un pugno in faccia, una bici rubata e l'inferno "attaccato addosso", "portato dentro casa come un virus sconosciuto".
E poi...
E poi lì, a Brancaccio, c'è Lucia che frequenta le magistrali perché vuole diventare maestra, ama il teatro e, tenace e con la sua "scanzonata fierezza", non vuole andarsene dal suo quartiere; e c'è Francesco, sei anni, che scoppia a piangere perché lui "vuole aggiustare le cose, non romperle"; e ancora Totò il cui "padre è un operaio e la mamma una parrucchiera... una di quelle famiglie che lavora in silenzio e cerca di educare i figli come può... Lo sfottono perché da grande vuole fare il direttore d'orchestra". E poi ancora Dario, Riccardo, Serena...
Intrecciando finzione narrativa e realtà, con questo romanzo di formazione in cui a crescere e ad affrontare le proprie incertezze e fragilità non è solo il suo protagonista principale, D'Avenia ha condiviso con i suoi lettori il ricordo di Padre Pino Puglisi, da lui conosciuto durante gli anni del liceo, il parroco dal sorriso sempre disponibile, sorriso mantenuto fino all'ultimo, quando è stato ucciso dalla mafia a Brancaccio, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, perché 'reo' di essere stato un parroco tra la gente, per la gente.
Poco oltre, non di più: è questa una delle sensazioni che rimane dopo la lettura del romanzo. Perché poco oltre i confini che (de)limitano la nostra realtà, la nostra quotidianità, ve n'è sempre un'altra di cui si sa poco o nulla ma che vive parimenti di sogni e desideri, frammisti a sacrifici e incertezze finanche a indifferenza e violenza.
E trovare il bello e il buono che anch'essa nasconde è possibile solo smettendo gli occhi del pregiudizio e del giudizio, che inizialmente animano Federico e il fratello.
Perché dopotutto "L'elemosina non basta, ci vuole l'amore... Non ci vuole la forza, ci vogliono la testa e il cuore. E le braccia".
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Da leggere a scuola
Brancaccio 1993. D'Avenia racconta la vita di Padre Pino Puglisi, un sacerdote che cerca di strappare alla strada , di dare una speranza ai ragazzi di questo quartiere. Non è una biografia diretta, in realtà la voce narrante è quella di Federico, un ragazzo che a Brancaccio nemmeno ci abita, ma viene coinvolto nella vita di Brancaccio dall'amore per una coetanea, Lucia , e dal suo senso di giustizia, dal suo altruismo.
Per Federico sarebbe quindi possibile sganciarsi da questa realtà difficile, dove i ragazzi già molto giovani hanno dei compiti precisi, dei doveri, delle regole non scritte su pagine ma con il sangue, ma sceglie di correre il rischio perchè cancellare Lucia vorrebbe dire prima di tutto cancellare se stessi. La Mafia comanda, assegna ruoli, pesa i comportamenti e agisce di conseguenza, elevando miserabili a persone di potere e comprandoli col denaro e quando non riesce a corrompe qualcuno col denaro allora ci pensa la violenza che, a seconda dei casi, è rapida e definitiva o un crescendo a partire da semplici "avvisi".
E' quello che accade a Don Pino che giorno per giorno deve lottare contro una burocrazia asservita alla corruzione e nessun alleato, solo i suoi ragazzi , solo la gente per bene che però non può esporsi troppo
pena la morte. Ma è quanto accade a chiunque cerchi di far sentire la propria voce di dissenso , a Federico che frequenta Don Pino e lo aiuta a gestire delle attività per coinvolgere i ragazzi in qualcosa che non sia violenza e delinquenza. D'Avenia non tende a beatificare Don Puglisi (a questo ci penserà la Storia) , lo racconta con i suoi limiti , le sue paure di uomo, il suo senso del dovere per la propria Missione e l'amore per i suoi ragazzi e la sua terra e lo fa con una penna che scrive pagine crude e difficili di coltelli e pistole con la grazia di una piuma e parole che sfiorano la poesia.
Ma soprattutto racconta i ragazzi di Brancaccio e la loro lotta , spesso solitaria, per diventare uomini e non miserabili.
Uno di quei libri che dovrebbero diventare lettura obbligatoria a scuola.
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Insipido
Ho visto un frammento di Sicilia da nientemeno che un drone. Esordisco in questo modo, perché a parer mio storia e ambientazione in un romanzo devono avere un forte legame, devono andare di pari passo, contrastarsi o trovare complicità, ma in ogni caso, intrecciarsi. "Ciò che inferno non è" mi ha permesso di vedere un frammento di Sicilia, ossia Brancaccio, dall'alto, dandomi l'idea di non essere immersa nella scia degli eventi che accomunano i personaggi, ma piuttosto di esserne fuori in modo irrimediabile, come se fossero tutti quanti chiusi dentro una teca, ed io lettrice fuori a battere sul vetro. Questa visuale che faticava a scendere nel dettaglio dell'ambientazione ha cozzato in malo modo con il punto di vista dei personaggi che si concentravano su pensieri articolati. Insomma la dissonanza tra ambientazione descritta non nel migliore dei modi e viaggi di pensieri fin troppo esasperati, non mi ha reso semplice credere in ciò che leggevo, nonostante la trama e l'idea di fondo promettessero bene.
La figura di Don Pino è troppo studiata, preparata, di un'antipatica perfezione che non può essere umana. L'unico segno dal quale si evince il suo lato umano (in questo caso parlo della manifestazione di una qualsiasi debolezza, che in un contesto del genere è del tutto normale) è verso la fine: la sua paura di morire. L'unico sentimento che mi è parso reale, credibile di questo personaggio si è racchiuso in qualche riga giunta ormai al termine del libro... Troppo tardi. Ahimè, solo per questo barlume non riesco a salvare l'intero testo, perché anche dal punto di vista delle parti dialogate, il prete parlava a volte come un anziano, altre volte come Gesù, altre volte ancora come un bambino. E nessuna di queste manifestazioni di sè mi ha convinto.
Il protagonista non è stato partorito bene dalla penna di D'Avenia, il che può essere sconcertante, visto che l'autore confessa che Federico è il suo alter ego. Con "il ragazzo" è questione di dettagli. Nel suo caso non sono stati i dialoghi, ma le piccole cose a deludermi.
Ad esempio, ricordo un passaggio in cui Federico parla di quando aveva fumato la sua primissima sigaretta, e dice di non aver più fumato da quel giorno, perché dopo una sola sigaretta una tosse cronica, asfissiante, è stata la compagna che per due giorni non l'ha lasciato respirare.
Adesso. Diciassette anni. La prima sigaretta. Non ti posso credere, se mi dici che hai tossito per due giorni, nemmeno se mi impegno. Una sigaretta ti fa tossire per mezz'ora al massimo.
Certamente si può considerare, questa qui sopra, una puntualizzazione da poco, che alla luce di quanto narrato non dovrebbe contare niente, eppure per me resta una questione di cura venuta a mancare, ed è un peccato. Senza contare il fatto che di queste quisquilie è pieno il romanzo.
La caratterizzazione di tutti gli altri personaggi (Manfredi, Lucia, Nuccio, Il Cacciatore...) è stata piuttosto superficiale e si è eclissata in flussi di coscienza brevi e piuttosto scontati.
Mal riuscita è stata l'idea di narrare in prima persona, poi in terza, poi tornare alla prima... Non ha aiutato a delineare i contorni per realizzare un quadro della situazione.
Questa volta D'Avenia ha calcato un po' troppo la mano sulla carta, lo stile di scrittura in questo modo si è notevolmente appiattito dai tempi di "Bianca come il latte" e si è manifestato in questo suo ultimo romanzo sotto forma pallidi, sporadici guizzi di originalità.
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"Metti l’amore e avrai ciò che inferno non è”
Quest’avvincente storia s’intesse tutta intorno ad un incontro tra un adolescente, Federico, liceale pieno di sogni e di ideali, che però non sa come dare loro forma, e il parroco di Brancaccio don Pino Puglisi, che per vie misteriose lo inizia alla realtà autentica della vita. Sullo sfondo vi è Palermo (“Tutto porto per chi arriva. Tutto spasimo per chi resta. Città costruita sul paradosso, città in cui si è sempre in arrivo e in attesa”), col suo fascino malioso che, secondo il “motto terribile” che compare come iscrizione nelle antiche rappresentazioni del Genio palermitano, “conca d’oro, divora i suoi e nutre gli stranieri”, circondata dal mare, nella sua ambivalenza di vita e morte, così abbagliante di bellezza da non saper allontanare il pericolo di essere sfregiata. Poi gravitano attorno tanti personaggi, volti diversi e contrastanti della città; da un lato vi sono i predatori del branco feroce della mafia: il Cacciatore, u’ Turco, Madre Natura, Nuccio, i quali si aggirano come lupi affamati di violenza, sangue e dominio del territorio. Dall’altra parte ci sono le vittime, la gente semplice che deve lottare per sopravvivere, costretta a subire le angherie di Cosa Nostra, a pagare il pizzo, a prostituirsi, come Maria, ragazza madre di Francesco, a subire violenza, come Serena, ragazza punita con lo stupro perché suo padre non ha potuto pagare il suo estorsore, di cui rimane infelicemente incinta. Vi è poi il popolo fragile e innocente dei bambini, di cui P. Pino si prende amorevolmente cura come dei figli, donando la sua vita per loro: la bambina che vaga sempre sola con la sua bambola, a cui è stato ammazzato il padre dai mafiosi; Dario, che nella notte vende il suo corpo e che per riavere le sue ali, dopo la morte del sacerdote si getterà da un palazzo; Totò, che ha l’aspirazione di diventare musicista e questo lo salva dalla deriva; Giuseppe che finisce in carcere perché obbligato dai genitori a rubare; Riccardo che, per la sua avidità di denaro, senza rendersene conto si fa strumentalizzare come spia, complice degli assassini. Su tutta questa carne dolente si china la tenerezza paterna di tale prete di strada; e in tutte queste vite getta un seme di bene che poi, chissà come e chi, vedrà fiorire: “Togli l’amore e avrai l’inferno, mi dicevi, don Pino. Metti l’amore e avrai ciò che inferno non è. L’amore è difendere la vita dalla morte. Ogni tipo di morte.” Lo stesso protagonista, Federico, proprio dal crudo impatto con la strada tramite la collaborazione con don Pino, imprime una svolta alla sua esistenza, in una direzione che non aveva mai immaginato. Egli, infatti, sarebbe dovuto andare a studiare al college ad Oxford, e invece vi rinuncia perché ha compreso che la vita vera è a pochi chilometri del suo quartiere signorile, intrisa di miseria, ma anche di tanto coraggio e dignità, quali vede splendere in Lucia, di cui s’innamora, dalla numerosa famiglia ben affiatata che affianca l’infaticabile parroco nella sua opera di rieducazione dei ragazzi, (perché “riparare è più eroico di costruire”), attraverso la creatività e la positiva energia dell’esperienza teatrale. Il giovane pagherà caro questo suo impegno a fianco di Puglisi: ne uscirà con il labbro spaccato da un ragazzino dopo aver fatto da arbitro in una partita di calcio, gli verrà rubata la bicicletta; eppure, nonostante anche le rimostranze dei genitori, non si arrende, perché ha preso atto di quanto questa missione affidatagli sia preziosa. Anche l’amore per Lucia gli costerà l’affronto del branco che per intimidirlo e allontanarlo dal suo territorio lo picchia brutalmente e lo minaccia di morte. Pur con le necessarie e dovute misure di prudenza, il sentimento così tenero e delicato dei due aprirà le vele, così come le loro vite, alla dura scuola del sacrificio e del vero amore, dietro il soffio di Dio.
E tutto questo bene così sparso a larghe mani non si disperderà, andrà ad alimentare come una faglia sotterranea le esistenze infrante di questi piccoli, anche dopo l’uccisione di don Pino ad opera della mafia: “se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore, porta molto frutto.” (Gv 12,24). La figura di questo umile sacerdote si staglia con la statura di un eroe del quotidiano, che consuma le strade con le sue suole rappezzate, da bravo figlio di un calzolaio, che condivide sudori e lacrime della povera gente, per la quale si è speso fino alla fine: l’ultimo suo pensiero poco prima di essere assassinato è stato per Maria, la mamma di Francesco, cui telefona per persuaderla a cambiare vita e a cui avrebbe destinato una buona somma di denaro elargitagli da Federico stesso. “Ha cercato di far nascere l’acqua nelle vie dell’arsura, l’albero nel cemento della città, il cielo nella strada, il paradiso nell’inferno.”
Alessandro D’Avenia con notevole talento narrativo e acutezza intellettuale, cattura l’interesse del lettore e lo conduce per mano alla mèta, che è la consegna di un messaggio prezioso, come la scoperta di un tesoro. Così, infatti, a conclusione, auspica nella postilla, in questa sorta di apostrofe: “Spero che le ore che hai dedicato a questa storia siano state riempite da quel che ho ricevuto io nello scriverla: un coraggio più grande verso la vita, anche quando pare ci ferisca a morte. E magari un posto dove scappare dentro, quando si spengono fuoco e parole. Per scoprire che erano intatti, covavano come brace sotto la cenere, insieme ai nostri desideri più grandi.”
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Un libro che lascia il segno
Questo libro mi era stato consigliato qualche mese fa da mia sorella, ma come sapete io e il tempo non andiamo propriamente d'accordo..
Un giorno, entrando in biblioteca per accompagnare una mia amica ho visto questo libro e un altro e non ho resistito a prenderli, nutrendo alte aspettative per entrambi.
Ma ora parliamo solo di questo.
E' stato.. perfetto.
Ma andiamo con ordine.
All'inizio mi sembrava leggermente lento nelle vicende, situazione che mi capita di incontrare anche in altri casi, e in altri libri.
Nonostante ciò si può notare dall'inizio la bellezza della scrittura dell'autore. Bellezza perchè di questo si tratta, è proprio uno stile che ho apprezzato fino all'ultima parola.
E ricco, ma al contempo non è aulico, è un linguaggio che tutti possono comprendere senza però essere ''banale'' o comune, di tutti i giorni.
Grazie a questo è stato quasi automatico immedesimarsi nei personaggi, quasi impossibile non capire come andassero i loro pensieri.
Di sicuro il linguaggio non è stato aiutato da una storia facile, anzi. La storia trattata, come potete notare dalla trama, fa parte di quella sfera chiamata 'tematiche delicate'. E' una denuncia esplicita contro la mafia, contro tutto ciò che questa distrugge e contamina. Come un parassita che, pianta dopo pianta, uccide tutto il giardino. La storia di un prete che ha dato amore dove non c'era neanche uno spiraglio di luce.
Padre Pino Puglisi (o anche conosciuto come Don Pino Puglisi) è una figura importante per quanto riguarda la storia dell' 'antimafia' italiana, se così si può definire. Ha dedicato il suo operato sacerdotale a tutti i residenti del quartiere Brancaccio a Palermo, e solo per questo bisognerebbe ricordarlo sempre. Non è da tutti combattere a testa altra contro la malavita, anzi. Bisognerebbe ringraziare ogni singola persona che, anche con qualche piccola azione, riesce a contrastare ciò che la mafia fa.
Don Pino Puglisi, infatti, è riuscito a donare quanto più amore potesse, e questo lo si può leggere dal libro.
Onestamente mi dispiace non aver saputo di questo libro prima, riesce a trasmettere una voglia di cambiamento, di aiutare che dovrebbe essere innata. Desiderio che, se fosse esaudito da ognuno di noi, darebbe vita ad un mondo totalmente nuovo.
E' un libro che apre gli occhi, e il cuore. Un libro che riesce a cambiare il lettore.
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Educazione palermitana
“Se nasci all'inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esiste altro.”
Palermo, estate 1993. Quartiere Brancaccio. L'inferno è la mafia. Il suo contrario sono i ragazzini non assuefatti ad essa. Non ancora.
In un diverso quartiere della città – di quelli che con Brancaccio non confinano nemmeno per errore – il diciassettenne Federico è pronto per la sua vacanza programmata da mesi: andrà in Inghilterra, dove qualche lavoretto gli consentirà di mantenersi per il tempo necessario ad imparare la lingua.
Ma c'è ancora qualche giorno alla partenza.
L'insegnante di liceo e parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi, invita Federico a venire nel quartiere per dargli una mano...
Il ragazzo non immagina di essere di fronte ad uno snodo della sua vita; e non sa ciò che lo aspetta: conoscere sulla sua pelle il confine tra l'inferno e ciò che, in ogni senso, inferno non è.
Due cose sono raccontate in modo ammirevole in questo romanzo: Palermo e i bambini.
“Panormus” (“Tuttoporto”) viene narrata nel suo pulsare fatto di sudore e acqua marina, di voglia e paure, di singole esistenze e di vita collettiva. La bellezza della descrizione è data dalla sua parzialità: il libro non racconta la città ma alcuni suoi angoli; persino i riferimenti storici sono preziosi perché restano squarci (non intendendo l'autore riprodurre la storia con la S maiuscola). Solo un palermitano – Alessandro D'Avenia lo è – poteva proporre una Palermo così... vicina.
Quanto ai bambini, l'idea dell'innocenza da preservare è fin troppo sfruttata in letteratura e cinematografia. Ma il romanzo riesce a proporne una appassionata variante: il ritratto della giovinezza difficile a Brancaccio, della maturazione su una linea di confine, tra educazione all'omertà e alle piccole violenze e una speranza che prova ad affiorare da dentro (ma da dove?, si domanda la maggior parte di quei ragazzi, disorientati).
Va invece evitato un approccio al romanzo come racconto della storia di don Puglisi.
Lo stile di D'Avenia è carico, ridondante, talmente votato alla smania poetica da diventare a tratti iperbolico. Al contrario del prete di Brancaccio, che può essere definito da una sola parola: semplicità. E' stata il suo marchio, grandezza ed arma. Considerare “Ciò che inferno non è” una biografia, o qualcosa di simile, non gli renderebbe giustizia.
L'assassinio di un prete è cosa più unica che rara nella storia della mafia (oltre padre Puglisi viene in mente don Peppe Diana, ucciso per ragioni analoghe nel casertano), e le vicende, se si vuole rendere tutta l'importanza di queste figure, andrebbero narrate e assimilate in modo più diretto. “Alla luce del sole”, il film di Roberto Faenza in cui don Puglisi è interpretato da Luca Zingaretti, è preferibile al libro in discorso se si vuole capire la figura di un prete “scomodo”.
Per il resto, “Ciò che inferno non è” resta una valida prova di un giovane autore.
“Vorrei la libertà che dà il sapere di fare la cosa giusta anche se si è soli a farla.”
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Miii, se è bello!!!
E’ un libro di riflessioni, principalmente quelle di un diciassettenne che ha un amore smisurato per le parole. Ed è una polifonia di volti e di sorrisi, un libro armonioso, scritto in un modo che sembra una poesia, perché lo stile di questo autore è davvero incantevole. Si apre e ti apre il cuore per come è scritto, per le immagini che offre, per le emozioni che ti fa vibrare dentro. Quando leggi non devi cercare la storia, la trama, ti devi lasciare trasportare, devi conoscere, devi ascoltare. Devi ascoltare cosa è inferno e cosa non lo è e riflettere sulla tua vita. Perché se è vero che si deve diventare come scogli per sopportare le onde della vita, l’inferno è l’anestesia di non sentire più vivere ciò che è vivo. L’inferno è pura sottrazione, è togliere tutta la vita e tutto l’amore da dentro le cose. L’inferno è perdere la libertà di amare. Ma all’inferno o in paradiso non ci si va, nel senso che ci si è, sono dentro di noi, dipende dallo spazio che lasciamo all’uno o all’altro.
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Donpino
Questo romanzo non sarà un capolavoro, non sarà perfetto ma di certo è un romanzo di quelli indispensabili. La figura di Don Pino è fatta conoscere alla perfezione e entra nel cuore così come la mentalità mafiosa e i dialoghi tra mafiosi diventano comprensibili a chi non vive a Palermo. Io avrei fatto a meno di alcune pagine in cui il protagonista parla di se stesso del suo amore per Petrarca e di alcune sdolcinature ma trovo che il libro arrivi al cuore, riporti in vita don Pino facendolo uscire fuori da Palermo. Ci sono libri solo belli ma questo libro è anche buono e fa bene leggere di qualcuno che vive con un ideale davanti. Un libro commovente. Belli i bambini, come sono descritti e i dialoghi.
"Se nasci all'inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esista altro. Per questo bisogna cominciare dai bambini, bisogna prenderli prima che la strada se li mangi, prima che gli si formi la crosta intorno al cuore. Ecco perchè sono necessari un asilo e una scuola media. Non ci vuole la forza, ci vogliono la testa e il cuore. E le braccia. Non hai idea di cosa si possa fare con queste tre cose."
"Don Pino sa che l'inferno opera più efficacemente sulla carne tenera: i bambini. Bisogna difendere la loro anima prima che qualcuno gliela sfratti. Custodire ciò che hanno di più sacro."
"La mafia è potente ma Dio è onnipotente."
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Vivere a Brancaccio
Fino ad ora ho letto tutti i libri di questo autore e ne sono sempre rimasta entusiasta perché questo scrittore con le sue parole poetiche riesce a raccontare tutto in maniera diversa.
In questo testo possiamo trovare come negli altri l’amore in tutte le sue forme.
La storia è ambientata in Sicilia più precisamente a Palermo in un quartiere, il Brancaccio.
Qui la legge viene dettata da Cosa Nostra e proprio in questo luogo Don Pino con tutte le sue forze vuole cambiare la vita della gente che vi abita.
In suo aiuto arriverà un suo alunno Federico, un bravo ragazzo di diciassette anni con un cuore grande e pieno di domande.
Federico prima di aiutare Don Pino non aveva mai messo piede a Brancaccio, ma dopo la prima volta anche se gli era costata un pugno e la perdita della bici, ha capito che doveva restare per aiutare.
Federico capisce che in quel luogo non c’è solo cattiveria e molte volte anche ciò che sembra cattivo in realtà non lo è.
Federico in questo luogo conoscerà Lucia una ragazza piena di sogni e che anche il suo cuore ha iniziato a battere in quel quartiere non rinuncia nel sperare in un futuro migliore.
Lucia farà scoprire a Federico tramite i suoi occhi un mondo diverso che si divide dal resto della città solamente da un passaggio a livello.
Lo scrittore ha ambientato tutto il suo libro in un’estate lunga e calda che solo la Sicilia può offrire.
Un’estate di: mare, amici, amore, lotte, perdite, fichi d’India e sabbia.
Un’estate da ricordare, piena di eventi sia tristi che spensierati.
L’estate vissuta al Brancaccio dove i ragazzini imparano la vita in strada, dove spesso le madri sono sole e si ritrovano a prostituirsi per dare da mangiare ai propri figli, dove si paga il pizzo per continuare a vivere e dove i sogni fanno fatica a diventare realtà.
Il libro è diviso in capitoli più o meno brevi, la scrittura è come sempre unica e speciale.
Quando si termina il libro si prova un senso di pace e di dispiacere perché D’Avenia riesce sempre a stupire ed a farci innamorare dei suoi protagonisti.
Un testo dolceamaro bellissimo da leggere e gustare con calma.
Un libro che sicuramente vi farà riflettere e commuovere.
Ve lo consiglio e vi auguro buona lettura!
“In una giornata piovosa la gente è malinconica, e invece un innamorato che va a trovare la fidanzata canta. Sembra impazzito, in realtà è l’unico normale.”