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Cercando il mio nome

Letteratura italiana

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Anna e suo padre sono "due pupi mossi dalla stessa coppia di aste di metallo", i fili che li legano sembrano destinati a non spezzarsi mai. Ma non può essere così - non è mai così - e a diciannove anni, dopo una malattia che brucia il tempo, Anna perde il padre. Il rispecchiamento in lui è così forte che Anna, perdendolo, perde sé stessa, si confonde, senza il suo sguardo è come se fosse diventata niente, e avesse bisogno di altri occhi per riconoscersi e conoscersi. L'attraversamento del lutto diventa perciò, necessariamente, ricerca di sé, passando per la scarnificazione del corpo, il suo oltraggio. Trasferitasi da Napoli a Roma, Anna si ritrova a doversi mantenere - la madre non può aiutarla nelle spese né lei vuole gravare -, così si indirizza a un prete grazie al quale la sua coinquilina ha trovato lavoro come ragazza delle pulizie. Il prete però la vede bella e le propone un lavoro meglio pagato, in un night club. Anna è turbata, pensa di rifiutare ma poi accetta, e c'è repulsione e attrazione nel suo sì. Mescolato al racconto delle notti in cui si trasforma in Bube, con i muscoli tesi attorno al palo della lap dance, riemerge il passato, riemergono i vicoli e i bassi di Napoli, l'infanzia delle veglie con la nonna, i pomeriggi a fare i compiti con i gemelli Alfredo e Cristina, e soprattutto il padre, la malattia che scompiglia tutto, la possibilità di esistere nonostante la morte.



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Cercando il mio nome 2021-01-19 14:35:27 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    19 Gennaio, 2021
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Apapà

Protagonista unico di questo romanzo non è tanto un personaggio in sé, quanto un sentimento, il sentimento per eccellenza, inteso nel senso più completo del termine.
Questo sentimento è l’ amore, qui non quello usuale in un rapporto di coppia, bensì un tipo particolare di affetto e attaccamento, talora più intenso e profondo, forse quello più tenero, immediato, spesso difficile e a tratti controverso nell’esistenza di ognuno: il bene che si instaura tra un padre e la propria figlia.
La napoletana Anna, partenopea doc originaria dei Quartieri Spagnoli, un angolo tanto antico quanto caratteristico, un vero pezzo di storia della città, è una ragazza d’oggi molto legata al proprio genitore, tant’è che come d’uso tra la sua gente viene chiamata dal proprio padre con il proprio nome seguito immancabilmente dall’accattivante termine dialettale “apapà”.
Una espressione affettuosa comprensibile solo ai locali, che va ben oltre, è rivestito da più intensa tenerezza del solo significato letterale, cosa questa assai comune nei modi di dire del dialetto napoletano.
Non significa, come si potrebbe pensare di primo acchito: “a papà”, nel senso di “vai dal papà” oppure “appartieni a questo papà, a lui sei figlia”.
“Anna apapà” va inteso invece più estensivamente come Anna figlia di questo papà orgoglioso di cotanta figlia, significa Anna fai qualcosa o prendi qualcosa nel nome dell’amore che ti porta il tuo papà, indica Anna sei la ragione di vita del tuo papà, evidenzia la cosa più bella che mai gli sia riuscita nella vita, notifica all’universo che sei il solo tesoro, tanto più prezioso proprio perché sei l’unico, inestimabile bene del tuo papà.
Un amore così profondo è, in questo caso, parimenti ricambiato, e non è poi una cosa così scontata e naturale, tutt’altro.
Un rapporto affettuoso padre/figlia non è mai un rapporto scontato e prevedibile.
In questo testo, è un rapporto idilliaco, sono "due pupi mossi dalla stessa coppia di aste di metallo", si muovono all’unisono, in sincronia, senza scontri ma inchini a oltranza, nel nome del rispetto e della riverenza reciproca.
Un affetto cementato da innumerevoli ricordi a due, e solo a loro due soltanto, per esempio le lunghe passeggiate serali in spiaggia durante il consueto soggiorno estivo in Procida, luogo elettivo della villeggiatura della famiglia, in cui padre e figlia declamano a vicenda poesie dei classici.
Un rapporto particolare, sentito, esclusivo, quindi, profondo ed intenso, tenero e delicato, nulla di insolito, che lascia ai margini la figura della madre e degli altri familiari, senza nulla togliere a loro, ma riservandosi un’aura di affetto senza uguale.
Si tratta di un vincolo forte, simbiotico, al di là del legame di sangue, fatto di complicità, dialoghi lunghi e omnicomprensivi, confidenze, compartecipazione, quanto di meglio serve e non si potrebbe chiedere di più per la sana e normale crescita e sviluppo emozionale della giovane, giunta così appena oltre la maggiore età.
Per cui, quanto il papà scompare a seguito dell’insorgere fulminante di un brutto male, la giovane si ritrova sola, disperatamente smarrita, persa nel dolore senza la sua guida ed il suo mentore principe, il suo affetto e la sua educazione, si sente magari un po' tradita, acquisisce in fretta che l’espressione “apapà” può anche svelarsi come un etimo privativo a-papà, priva del papà.
Un vero e proprio trauma, non solo, anche un terremoto logistico, a seguito delle rovine economiche in cui precipita l’intera famiglia, in quanto il padre era un professionista unica fonte di reddito, stante per sovraprezzo l’incapacità materna di far fronte sia alla vedovanza che alle successive complicanze economiche.
All’improvviso, la ragazza giovane e inesperta viene un po' troppo bruscamente invitata a sbrogliarsela da sola anche per le comuni quotidiane incombenze di sopravvivenza. Priva del papà, del suo faro guida, del suo mentore e protettore.
Al seguito di un giovane assistente universitario con cui ha una relazione, tra l’altro mai ben accettata dal defunto genitore, dopotutto qualche diversità di vedute deve pur esserci, non fosse altro che un fatto generazionale, Anna si reca a Roma.
Nella capitale vi si reca decisa sia a coltivare i sogni artistici, che condivideva con il papà, di lavorare come attrice, sia per continuare i suoi studi universitari, sia appunto per colmare la sua carenza affettiva accompagnandosi con il partner, disposta a ossequiarlo in ogni modo le venga richiesto.
Da brava figlia obbediente, senza rendersi neppure ben conto che, quantunque sofferente affettivamente, un qualsiasi partner non è esattamente il proprio padre, e non è tenuta perciò a prestazioni non dico paterne, ma nemmeno nella norma in un rapporto di coppia. O forse, Anna ne è conscia ma non riesce a puntellarsi da sola senza una figura pseudopaterna al fianco.
A Roma si ritrova in sintesi davvero sola, per la prima volta nella sua giovane vita, e deve scontrarsi presto con la dura realtà pratica: sia i sogni di recitazione, sia gli studi universitari, anche il soddisfacimento dei bisogni primari di vitto, alloggio, logistica, richiedono un reddito che la giovane non possiede, e nemmeno può riuscire a trovare a breve un lavoro.
Forte della sua fede cattolica, si rivolge fiduciosamente ad un prete locale, che in maniera perfida e ambigua, per niente consona al suo abito talare, la indirizza negli ambienti di dubbia moralità dei locali notturni di strip e lap dance, dove guadagnarsi la vita sfruttando la sua innegabile bellezza, freschezza di modi e ingenuità di intenti.
Anna accetta, per sopravvivere in qualche modo, e in qualche modo prova a tenersi nei margini in un’attività oscena ma vergognosamente proficua, che inevitabilmente mina nel profondo le sue certezze, i suoi capisaldi di etica e morale, la sua autostima.
Ancora una volta la giovane si trova davanti un etimo: da a-papà, priva di papà, passa in una dimensione di a-mors, che non è amore, ma senza morte.
Sarà però proprio il ricordo del defunto genitore e quelli della sua vita permeata dagli eventi e dagli affetti indistruttibili del suo iter familiare a ricostruire il termine in Amore, da senza morto a pieno di vita.
Perché la vita pretende amore, e Anna riscopre l’importanza di tornare ad essere “Anna apapà”, una donna compiuta, viva e solo per questo degna di Amore.
Questo romanzo d’esordio di Carmen Barbieri, che ha un vissuto di attrice, è davvero un bel libro, elaborato per scene e immagini cinematografiche, scritto con prosa chiara, diretta, a tratti rude, un romanzo scorbutico, direi osceno, ma sono le circostanze a richiederlo. È un libro di crescita, di riscoperta, un testo che gioca intorno ad un etimo di duplice significato, oserei dire, giostra con le parole e le espressioni dialettali, è il racconto di un viaggio, infine, la ricerca di un nome.
Un libro di luce e ombre, ma soprattutto di parole che compongono nomi corretti.
Perché sono i nomi che definiscono i concetti, anche Amore ha bisogno di un termine preciso, senza particelle alfa privative, del tutto ingannevoli.
Senza se e senza ma.

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