Castelli di rabbia
Letteratura italiana
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Uno stile che non si discute
Faccio sempre un po' fatica a recensire un libro che non mi ha particolarmente convinto soprattutto nelle battute iniziali. Storie che si intrecciano in maniera surreale, onirica forse, ma che mi hanno lasciato un senso di spaesamento. Una chiave di lettura personale è quella delle passioni, idee e percorsi che valgono il senso di una vita, in questo senso riesco a dare un significato a questo romanzo, una storia che oscilla tra il reale e i frammenti di diversi sogni messi insieme.
Baricco non è uno scrittore banale, convenzionale, commerciale, per questo motivo tengo a sottolineare che si tratta di un parere puramente personale, dettato forse più da una mia mancanza che da una lacuna dell’autore.
Tornando alle passioni raccontate: la locomotiva, l’umanofono, la giacca da dover riempire per andare incontro al proprio destino, il palazzo di cristallo posso affermare che sono trovate a cavallo tra reale e immaginario che sicuramente restano in mente e caratterizzano tutti i personaggi di questo ordito letterario.
Lo stile dell’autore non si discute, è sicuramente uno che sa come si scrive, e io non sono nessuno per affermare il contrario. Un po' come un film di Fellini o di Sorrentino composto da scene che ti rimangono dentro, non sai forse neanche tu perché ma è così, può anche non piacere la storia e il modo di raccontarla, ma si fa fatica a non rimanere catturati da tanta stranezza.
Noi che pensiamo la felicità come un'ascesa
Non contiene spoiler.
Letto tutto d'un fiato, castelli di rabbia rappresenta il mio primo libro del celebre scrittore Alessandro Baricco. Ambientato nell'immaginaria città di Quinnipak, il romanzo fa spazio a due storie parallele: quella del signor Rail e quella del Signor Pekisch. Citare unicamente questi due personaggi è assai riduttivo e semplicistico in quanto in questo romanzo ogni singolo personaggio che lo compone ha una storia, una peculiarità, una caratterista che lo rende vivo e pragmatico. Il linguaggio utilizzato è altamente musicale e ritmico. Baricco si comporta da direttore e le parole sono la sua orchestra. Tale similitudine raggiunge il picco nel giorno di San Lorenzo dove due bande partono da punti opposti della strada per poi incontrarsi nell'esatta metà. Ogni capitolo nasconde un segreto, un piccolo colpo di scena che costringe il lettore a rimanere incollato al libro. Questa è la storia del signor Rail e della sua locomotiva Elisabeth, ma anche del signor Pekisch e del suo umanofono, dell'architetto Hector Horeau e del suo Crystal Palace, di Jun e del suo libro, e di molti altri ancora. Pieno di riferimenti a fatti reali, Castelli di rabbia si colloca a metà tra idea e la realtà, tra l'impossibile e il possibile, tra la razionalità e il sentimento.
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EROI DEL SOGNO, VITTIME DEL DESTINO
Il presente saggio analizza, oltre a “Castelli di rabbia”, anche il secondo romanzo di Alessandro Baricco, “Oceano mare”.
Cosa può accomunare due autori così diversi tra loro come Krzysztof Kieslowski e Alessandro Baricco? Questa domanda mi è sorta ragionando se fosse in qualche modo più tragico credere che la vita dell’uomo sia in balia del caso oppure, al contrario, governata rigidamente dal destino. In un’epoca in cui la terza opzione, quella della provvidenza divina, sembra essere caduta in disuso, questa questione non è affatto oziosa, anzi serve a sgombrare il campo da tanti equivoci e luoghi comuni. Il primo è quello che fa sì che caso e destino vengano usati sempre più spesso come termini di comodo, dal momento che dire acriticamente che tutto è dovuto al caso o che così è andata perché era destino sono formule che si equivalgono nella sostanza, e che riflettono tutt’al più la minore o maggiore paura che in fondo a tutto non vi sia un fine alle azioni dell’uomo. Il secondo è quello per cui si pensa che entrambi – caso e destino – azzerino il ruolo dell’uomo nell’autodeterminazione della propria vita.
Persino in un film così fatalista e borgesiano come “Destino cieco”, in cui il regista fa accadere al protagonista Witek un evento fortuito (lo scontro con un ubriaco nella stazione ferroviaria), il quale però segna profondamente la sua esistenza fino a configurarla in maniera diversa, e perfino radicalmente opposta, a seconda dell’impercettibile modularsi dell’evento stesso, persino in un film come questo – dicevo – Kieslowski non è disposto ad accettare queste semplicistiche conclusioni. Anche se tutte e tre le opzioni esistenziali che egli concede al protagonista portano paradossalmente ad un identico esito (egli non riesce in nessun caso a partire per Parigi, anzi, nell’ultimo episodio, quando sembra avercela fatta, l’aereo esplode in aria), Kieslowski sembra suggerire che Witek è vittima della sua incapacità di agire autonomamente e della sua mancanza di consapevolezza politica piuttosto che delle bizzarrie della sorte. Ciò dimostra che il caso fa sì, per citare un famoso aneddoto, che il battito d’ali di una farfalla in Brasile provochi un tornado in Texas, ma poi, accettato questo, esso può essere interpretato a discrezione di ciascuno come negazione totale di ogni aspirazione dell’uomo all’autodeterminazione oppure inteso, come fa Kieslowski, come infinito e inesauribile prodursi di virtualità, in sé né buone né cattive.
Allo stesso modo, il destino può essere visto come agente trascendente che annulla il ruolo dell’individuo come artefice del proprio futuro, ma anche concedere all’uomo – come ha fatto in tempi lontani, per fare un esempio, la tragedia greca – un’aura di eroica dignità, ancorché votata alla sconfitta. Ecco, se devo trovare un minimo comune denominatore tra Kieslowski e Baricco, lo cercherei proprio in questo rifiuto di qualsiasi filosofia del fatalismo, del nichilismo e della rassegnazione, che accomuna entrambi. Perché dietro a personaggi così favolistici e irreali come quelli di “Castelli di rabbia” e di “Oceano mare”, dietro a storie talmente bizzarre e fantastiche da sembrare uscite da altrettanti quadri di Chagall, c’è sempre la sfida dell’uomo al proprio destino. E se anche Kieslowski è un autore unanimemente definito pessimista, è proprio Baricco – per tornare alla questione di partenza – a sembrarmi veramente tragico, a dispetto delle conclusioni alle quali potrebbe condurre una lettura affrettata e semplicistica delle sue opere.
I romanzi di Baricco sono indubbiamente intrisi di un umorismo che a tratti sfiora la pura comicità, eppure i personaggi che li popolano possono essere avvicinati nientemeno che al Sisifo intorno al quale Albert Camus ha costruito una delle più belle metafore sulla condizione dell’uomo moderno. Sisifo che, dopo essere morto, ottenne da Plutone il permesso di tornare sulla terra ma che, visto di nuovo l’aspetto del mondo, non volle più ritornare negli inferi sfidando gli ammonimenti degli dei, è l’eroe tragico per eccellenza. Costretto per l’eternità a pagare il disprezzo per gli dei, l’odio nei confronti della morte e la passione per la vita con un supplizio feroce (far rotolare all’infinito un enorme masso su e giù per una montagna), Sisifo è, secondo Camus, tragico perché è consapevole del proprio destino. Eppure, proprio grazie a questa tragicità, Camus attribuisce al suo eroe una connotazione positiva, in quanto la sua orgogliosa e sprezzante alterità lo fa essere superiore al proprio destino.
Come Sisifo, anche i personaggi di Baricco si portano letteralmente appresso il loro destino: per Pehnt esso si materializza in una giacca da uomo nera, esageratamente grande per un bambino, ma destinata a diventare della misura giusta quando sarà giunto il momento di abbandonare Quinnipak per trasferirsi nella capitale; per Jun è un libro misterioso, che prima o poi la condurrà in America lontano dal suo sposo; per Kuppert è la roncola che si è ritrovato in mano quando in una fiera ha incontrato la donna che lo aveva lasciato (“ora dimmi cosa c’entra il caso… era tutto studiato, a tavolino… io con la roncola in mano e Mary, dopo anni, che mi sbuca lì… magari se c’avevo dei fiori, in mano, per dire, magari si sarebbe tornati insieme quel giorno, io e Mary… ma era una roncola quella… più chiaro di così… rotaie come quelle le vedrebbe anche un cieco… erano le mie rotaie”).
“Il destino – scrive Baricco – dà appuntamenti strani”. E i personaggi di “Castelli di rabbia” e di “Oceano mare” si consegnano ad esso senza dilemmi, con dignità e con la consapevolezza – tragica appunto – che “non si bara con il destino”. E’ proprio questa coscienza a rendere il signor Rail la figura più simile all’eroe di Camus. Egli appartiene a quella schiera di persone che l’autore definisce “in tutto e per tutto assolutamente geniali ma anche, in tutto e per tutto, assolutamente fallimentari”, pronte a mettere in gioco l’intera loro esistenza, fino alle estreme conseguenze, per inseguire i propri desideri, come i bambini corrono dietro ai loro aquiloni nel cielo. “E’ un po’ come fare tante bocce di cristallo… - gli confida, in punto di morte il vecchio Andersson – prima o poi te ne scoppia qualcuna… e a te chissà quante te ne sono già scoppiate, e quante te ne scoppieranno”.
Elisabeth è la folle boccia di cristallo che il signor Rail, contro il ferreo buon senso di coloro che girano con le loro tristi biglie infrangibili in tasca, si sforza testardamente di costruire, senz’altro scopo che quello di poter vedere il mondo correre davanti ai suoi occhi a una velocità mai vista prima d’allora. Guardare il mondo, le cose, la realtà, da una prospettiva diversa da quella degli uomini normali, allontanarsi definitivamente da ogni forma di conformismo e di chiusura al nuovo, non lasciarsi condizionare da schemi mentali precostituiti ed omologanti: è solo per questo che vale la pena di rischiare la propria tranquilla ed agiata esistenza borghese, per conservare e difendere la propria capacità di sognare, a dispetto di tutti gli ingegneri Bonetti di questa terra. Sbagliando a volte, ma sempre vivendo intensamente la vita (“tutte le bocce di cristallo che avrai rotto erano solo vita… non sono quelli gli errori… la vita vera magari è proprio quella che si spacca”), fallendo alla fine, ma senza rimpianti, soltanto con la consapevolezza – questo è importante – della follia di tutto ciò, ma anche della inderogabile necessità di questa follia. Non è per caso che l’alter ego del signor Rail, Hector Horeau, l’architetto del Crystal Palace, pensa che se un giorno dovesse avere un figlio questi nascerebbe sicuramente pazzo.
Quando il signor Rail incontra per la prima volta Jun e decide di portarla con sé a Quinnipak, egli sa che non sarà per sempre, che un giorno lei se ne andrà per portare il suo libro a destinazione. Ma proprio qui risiede la sfida dell’uomo al proprio destino: nel cercare di fermarlo, di fargli trattenere il fiato, di incantarlo, non per sempre – questo è impossibile – ma soltanto per un po’. Il compito dell’uomo – afferma l’incipit di “Oceano mare” – è proprio quello di essere un baluardo, insignificante ma indispensabile, contro il meccanismo inesorabilmente perfetto del mondo. Ed è proprio in quel piccolo spazio vuoto, in quell’esiguo intervallo, in quella dilazione strappata al destino – così come il cavaliere Block nel bergmaniano “Settimo sigillo” riesce a strappare qualche giorno alla Morte – che si realizza la vittoria dell’uomo. Non una vittoria definitiva – certo – ma pur sempre un frammento di vita che permette di poter vivere il proprio sogno. Allora, solo allora, come dice Elisewin, “il destino non è più una catena ma un volo”, e il gesto di consegnarsi al destino “una sensazione meravigliosa… un’emozione”. (“Senza più dilemmi, senza più menzogne. Sapere dove. E raggiungerlo. Qualunque sia, il destino”). Perché, se è vero che alla fine di tutto c’è la sconfitta, quello che conta è il percorso intermedio che si è compiuto, non il punto d’arrivo. Al termine del romanzo, il signor Rail rimane completamente solo ed è costretto a mettere all’asta i propri beni per pagare i creditori, ma intanto ha potuto assaporare qualche attimo di perfezione, come l’amore appassionato di Jun o l’arrivo di Elisabeth a Quinnipak.
La vita per Baricco ha senso proprio in questi interstizi, in questi frammenti di eternità. Come il concerto di San Lorenzo che Pekisch organizza per dare l’addio a Pehnt: “un milione di suoni che scappano impazziti in un’unica musica… non c’è inizio non c’è fine… la commozione dentro il terrore dentro la pace dentro la nostalgia dentro il furore dentro la stanchezza dentro la voglia dentro la fine – aiuto – dov’è finito il tempo? – dov’è sparito il mondo?”. Magari, una volta tornati a casa, i cittadini di Quinnipak non saranno in grado di raccontare ciò a cui hanno assistito, ma in quegli attimi in cui le due bande provenienti dagli estremi opposti del paese si fondono reciprocamente, mescolando la loro strana musica, in quegli attimi si realizza la magia, il miracolo. Il tempo si ferma e l’uomo ha di fronte a sé solo l’infinito: c’è chi gioisce e chi piange, chi perde le sue illusioni e chi addirittura muore. Ma non importa, dal momento che il futuro non esiste, e solo il presente è eterno in quanto destinato a diventare ricordo, memoria, nostalgia anche (come per Pekisch che al senso di irripetibilità dell’evento aggiunge la malinconia del commiato).
L’importante è viverla forte questa vita, ora e per sempre, a costo di bruciarsi con essa. Emblematico è il personaggio di Elisewin, la ragazzina divorata da una terribile malattia, che poi altro non è che una sensibilità d’animo talmente forte da renderla del tutto indifesa e vulnerabile di fronte alla realtà. Ebbene, Elisewin accetta coscientemente il rischio di morire pur di riuscire a guarire e quindi, finalmente, vivere. Davanti al dottor Atterdel la ragazza innalza uno dei più belli inni alla vita che mai ci sia stato dato di ascoltare: “La vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c’è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire, è vivere che voglio”.
Non c’è in “Oceano mare” quell’aura di struggente malinconia presente in “Castelli di rabbia”, forse perché “Oceano mare” è, se così si può dire, un romanzo di formazione, e alla fine della storia ognuno dei sei personaggi riesce a realizzare un processo di apprendimento che lo rende in qualche modo migliore di prima. Eppure la filosofia che lo sottende è la stessa. La notte d’amore tra Elisewin e Adams (“e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore – tristezza, forse – persino tristezza – desiderio”) è infatti anch’essa la realizzazione di un sogno, al tempo stesso immortale e destinato a svanire subito.
Ma, come ho già detto, ciò che veramente ha importanza è rincorrerlo, questo sogno, accarezzarlo per qualche istante d’eternità, affacciarsi con infantile disponibilità al cospetto dell’infinito. E com’è? Il mare, com’è?” – chiede Padre Pluche a Elisewin -. “Bellissimo”. “E poi?”. “A un certo punto finisce”. Analogamente, in un ideale quanto anacronistico rimando, Hector Horeau afferma: “Penso che quando sarà tutto costruito e l’ultimo operaio avrà finito l’ultimo ritocco… lì, quel giorno, io sarò arrivato alla fine del mio cammino. Dopo… tutto quello che accadrà dopo… non conterà più niente. Ecco, in Elisewin, in Horeau, in Pekisch si realizza luminosamente l’unica, grande aspirazione della piccola umanità baricchiana: la perfezione dell’attimo.
Questi miseri Ulissi che cercano di varcare le loro personalissime colonne d’Ercole, questi bizzarri Prometei che si prodigano in sfide troppo più grandi di loro, questi Baroni di Munchausen alfieri di una pseudo-scienza da bric-à-brac, vivono tutti, a modo loro, lucrezianamente, all’insegna del carpe diem. Anche se nel loro mondo (che è poi, superato lo scarto fantastico dovuto all’invenzione letteraria, il nostro mondo) i valori non sono più così definiti e decifrabili. Baricco infatti rovescia l’ordine razionale e scientifico dell’universo: come nel caso del concerto di Pekisch, l’adesso e l’infinito sono fusi indissolubilmente insieme, l’infinitesimale e l’incommensurabile appartengono allo stesso ordine di grandezza. Con una sola, fondamentale, provocatoria differenza: se l’oceano (la natura, l’universo) ad un certo punto finisce, come sembra voler dimostrare Bartleboom con la sua curiosa “Enciclopedia dei limiti”, è nell’uomo, “il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo” del mondo, che si cela il vero infinito. Nell’uomo e nei suoi desideri. “Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente – dice Ann Deverià a Elisewin -: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera”. E i desideri sono infiniti, inesauribili, tanto che “la vita stessa non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio”.
Dice ancora Pekisch a Pehnt: “I desideri sono le cose più importanti che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire pur di star dietro a un proprio desiderio. Si fa la schifezza e poi la si paga. E solo questo è davvero importante: che quando arriva il momento di pagare uno non pensi a scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare”. E i personaggi di Baricco non scappano mai di fronte al destino e dignitosamente, come veri eroi tragici, pagano il loro tributo alla vita: Hector Horeau impazzisce e finisce rinchiuso in un manicomio, Pekisch naufraga nella tempesta di note che scoppia un giorno dentro la sua testa, Elisewin perde per sempre Adams, Adams perde per sempre Elisewin. Alla fine il destino riesce comunque ad avere il sopravvento. Dopo un breve deragliamento, la vita prosegue imperterrita sui suoi binari prestabiliti fin dalla notte dei tempi. Neppure l’amore per la propria donna riesce ad avere la meglio, perché “ognuno ha il suo viaggio, da fare”, e non esiste la salvezza definitiva, anche quando si vorrebbe più di ogni altra cosa al mondo proprio salvarsi.
C’è, a dire il vero, un’altra strada che l’uomo può percorrere: quella di prendere, alla fine di tutto, commiato da sé stessi, consegnare la propria vita al ricordo, ed entrare in un tempo immobile, che non è ancora morte, e al tempo stesso non è più vita. “Quello che sei ti scivola addosso, a poco a poco… Il presente sparisce e tu diventi memoria. Sgusci via da tutto, paure, sentimenti, desideri: li custodisci, come abiti smessi, nell’armadio di una sconosciuta saggezza, e di un’insperata pace… Quel che io sono, è ormai successo: e qui, e ora, vive in me come un passo in un’orma, come un suono in un’eco, e come un enigma nella sua risposta. Non muore, questo no. Scivola dall’altra parte della vita. Con una leggerezza che sembra una danza. E’ un modo di perdere tutto, per tutto trovare”. E’ il destino di Ann Deverià, e della stessa Elisewin, è il rovescio della medaglia dei tanti roghi esistenziali che hanno bruciato i vari Pekisch, Hector Horeau, signor Rail, Adams. E’ il destino, ancora, di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, il quale, di fronte a un mondo troppo bello ma anche troppo grande e smisurato da affrontare per un povero musicista (“Se quella tastiera è infinita, allora / Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio”), decide di scendere, gradino dopo gradino, dalla propria vita, di spogliarsi gradualmente dei propri desideri, incantandoli, immobilizzandoli, per riuscire a disarmare l’infelicità.
La morale, alla fine, è però sempre la stessa: messi di fronte al destino, tutti i personaggi di Baricco si trovano a sperimentare l’infantile capacità di meravigliarsi, come se il loro sguardo, ritornato vergine, si posasse per la prima volta sulle cose. E’ “uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte – sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta – qualcosa come due cose che si toccano – gli occhi e l’immagine – uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire – vedere – sentire – perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo tutto – ricevere – senza domande, perfino senza meraviglia – ricevere – solo – ricevere – negli occhi – il mondo. Così, solamente, sanno vedere gli occhi delle madonne, sotto le arcate delle chiese, l’angelo sceso da cieli d’oro, nell’ora dell’Annunciazione”. Così, alla fine del loro viaggio fluviale, Elisewin e Padre Pluche, guardano l’oceano che si apre davanti ai loro occhi: “Come un incantesimo. Senza neanche un pensiero in testa, un pensiero vero, solo stupore. Meraviglia".
Di questa meraviglia sono depositari i cinque bambini della locanda, provvidenziali genii loci che prendono in custodia le goffe ed incerte vite degli adulti. Essi insegnano loro ad aprire gli occhi sul mondo (Dira che veglia Elisewin nella sua prima notte alla locanda), a guardare là dove sembra non ci sia nulla da guardare (“Cosa ci fai tutto il tempo seduto qua sopra?”. “Guardo”. “Non c’è molto da guardare…”. “Scherzate?”), perfino ad esprimere l’inesprimibile (Plasson che si propone di dipingere il mare). Il campione di questo atteggiamento è Mormy, il ragazzo che ha la rara virtù di riconoscere la vita in quei momenti misconosciuti e trascurati, i quali invece, pur senza darlo a vedere, segnano irrevocabilmente l’animo delle persone, e da questi momenti, in cui la vita “vive più forte del normale”, si fa catturare e ipnotizzare, preda di uno stupore assoluto e senza difese. Proprio a causa di questa meraviglia, in virtù della quale le cose diventano per lui prodigi, incantesimi e visioni, Mormy muore, al contrario di Pehnt che invece le stesse cose impara a catalogare e classificare, rendendole comprensibili e innocue. Pehnt rappresenta la piatta normalità, e difatti Baricco gli assegna una vita tranquilla da assicuratore e buon padre di famiglia, senza tragedie né sorprese di sorta.
Appare evidente che Baricco non nutra per il Pehnt adulto una grande simpatia. Egli sta con coloro che invece hanno scelto di “vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l’impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà”, e che, come Bartleboom, senza comportarsi da eroi, pure “tengono su la baracca”. Ad essi è riservata spesso una fine tristissima: Andersson ed Hector Horeau muoiono tra rantoli ed imprecazioni, Adams finisce impiccato sulla pubblica piazza. Ma Baricco non si commuove mai e narra tutto ciò con una prosa anti-romantica e anti-sentimentale. A lui interessano veramente solo gli attimi di vita che ardono come fiaccole lungo le esistenze dei suoi personaggi. Il resto non conta, perché “dove la vita brucia davvero la morte è un niente”. E come i suonatori della banda sfilano senza fermarsi accanto al cadavere di Ort, così Baricco passa oltre la morte dei suoi eroi, quasi che essa fosse del tutto irrilevante nell’economia del romanzo.
Il fatto è che in Baricco non c’è alcuna idea di trascendenza. Così come il treno per il signor Rail simboleggia il destino (“un proiettile che corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque”), allo stesso modo la zattera dell’episodio “Il ventre del mare”, abbandonata al suo destino dalle lance di salvataggio, rappresenta la migliore metafora di un’umanità orfana di Dio e lasciata in balia di se stessa in un universo (l’oceano) praticamente privo di senso. Il vero Dio dei personaggi, l’unico demiurgo che dall’alto della sua onniscienza, governa consapevolmente la loro sorte, è lo stesso scrittore. E non sembri, questa, un’affermazione lapalissiana (ogni libro ha evidentemente il suo autore), dal momento che nei romanzi di Baricco c’è sempre una finzione – se così si può dire – di secondo grado, e al termine della narrazione viene sempre svelato il trucco, ossia il meccanismo della creazione letteraria.
Così come il giudice del “Film rosso” di Kieslowski (ancora lui!) tira i fili dell’intreccio, muove tutte le azioni e i sentimenti, fa incontrare tra loro Auguste e Valentine, allo stesso modo l’uomo della settima stanza e la donna che attraversa l’oceano alla volta dell’America sono gli dei ex machina, gli artefici di quella che si rivela essere semplicemente una invenzione, una storia di pura fantasia. La locanda Almayer e Quinnipak non esistono, e così i vari Charlus Abegg, Marius Jobbard, Pekisch il maestro di musica, Pehnt l’assicuratore, il vecchio Andersson, i treni che portano fino al mare, il palazzo di vetro che finisce incendiato: tutti pretesti che la prosaica realtà fornisce affinché lo scrittore-illusionista compia il miracolo, reinventandoli grazie alla fantasia. In queste favole si realizza l’autentica funzione della letteratura, che è quella di aiutare a vivere meglio, facendo sognare la gente, smussando le asprezze della vita, addolcendo le bestemmie, romanticizzando gli addii, rendendo nobili gli ideali, eterni gli amori e ineluttabili le morti. E soprattutto creando una vera e propria teodicea del destino cui aggrapparsi per vincere lo schifo e la stanchezza di stare al mondo. In questo senso, lo scrittore è una sorta di messia laico, che di fronte all’inesorabilità di ciò che è innalza a mo’ di baluardo l’infinito repertorio di ciò che potrebbe essere. Ovverossia, la fantasia e i sogni contro la realtà.
“Quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno – un padre, un amore, qualcuno – capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume – immaginarlo, inventarlo – e nella sua corrente posarci… Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male”. Il mare rappresenta evidentemente, per Baricco, la salvezza, il fiume i racconti e le storie. Così come Langlais, che riceve da Elisewin, come un dono, le storie che lei stessa ha assorbito da Adams, parimenti gli uomini hanno un disperato bisogno dell’immaginazione e della fantasia di un narratore per suturare le dolorose ferite dell’esistenza, o semplicemente per prendere un attimo di respiro prima di rituffarsi nel caos del mondo, oppure – perché no? – per sentirsi dire, affettuosamente, che vale la pena vivere, sempre e comunque, magari anche solo per “esserci, quando in quella luce irripetibile che è la luce della sera, inopinatamente, piove. Almeno una volta, esserci”. Perché il miracolo possa compiersi, almeno una volta, anche per noi.
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Ci vediamo a Quinnipak
CONTIENE SPOILER!
"E lui diceva 'Ho fatto un salto a Quinnipak'. E' una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c'è verso di togliertelo. Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi, e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto. E lo schifo a poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto, per un po', l'hai fregato."
Questo è Quinnipak: un bellissimo tableaux vivants. Un quadro ricco e coloratissimo con tanti personaggi e le loro improbabili vite che si intrecciano e scorrono, scorrono, scorrono. Lo si capisce solo alla fine, il colpo di scena che proprio non t'aspetti: Quinnipak è la fantasia che corre, si inventa particolari, emozioni, suoni - soprattutto suoni - e costruisce delle vite impossibili, impreparate alla vita, bellissime e tremendamente tragiche - per estraniarsi da qualcosa di ancora più tragico: la realtà.
Ci sono il signor Rail, la signora Rail - Jun, bellissima, con il destino stretto al petto che trattiene il respiro da anni, ma che prima o poi deve ricominciare a respirare... Ci sono Pehnt che sarà uomo quando la giacca nera che indossa gli andrà perfetta ("Chissà qual è l'attimo in cui una giacca diventa perfetta"), e il buon vecchio Pekisch, caro amico, capace di suonare e sentire tutte le note del mondo, anche quelle invisibili, ma che una nota sua non ce l'ha, e morirà quando la musica gli esplode in testa.
E Mormy, sopraffatto dalla meraviglia, e Horeau e i suoi sogni di vetro, che solo Andersson poteva realizzare. E poi la vedova Abegg, e poi Elizabeth, la locomotiva-relitto in mezzo ai campi.
A legare insieme tutti loro c'è il destino. Il destino come un proiettile - "Il proiettile corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque. Lo vede il destino? Tutto è già scritto eppure niente si può leggere." Il destino come un treno in corsa, perché "ognuno ha davanti le sue rotaie, che le veda o no". "Il destino fa fuoco con la legna che c'è... fa fuoco anche con una pagliuzza, se non c'è altro..."
Sono questi i grandi temi del primo libro di narrativa di Baricco, che poi torneranno anche in tutti i suoi libri seguenti. Il destino, che corre inesorabile, già scritto eppure tutto da scoprire. La vita, che brucia vigliacca ma magnifica. La morte, che arriva per tutti, ma c'è chi la affronta meglio di altri.
Lo stile di Baricco, più che mai in questa sua prima opera, è manieristico, pieno di periodi e sottoperiodi e frasi e altre frasi... fino a riempire intere pagine, senza pause, un discorso unico che scorre come acqua e si ferma solo al punto del capitolo. Forse troppo manieristico, un po' pesante, tanto che a volte copre la trama e diventa puro esercizio di stile. E' una cosa che a mio parere poi nei libri successivi ha imparato a stemperare: esce sempre prepotente l'estro artistico, ma convive meglio con la storia e fa respirare i personaggi. Qua un po' manca quest'aria.
Ma forse è solo una naturale conseguenza di tutta questa ricchezza: di personaggi, di particolari, di sentimenti, di profondità, di fantasia. Soprattutto fantasia.
Baricco si è inventato, ci ha inventato, Quinnipak: rifugio fantastico per i momenti che ti stritolano, per i momenti "quando hai lo schifo addosso". A Quinnipak ci si va per salvarsi, un po', per ora.
Questo libro, benché a primo impatto mi fosse risultato più ostico che altri suoi, alla fine mi ha profondamente commosso e sento che non riuscirò a rendergli la giustizia che merita con questa recensione.
Posso solo dirvi: leggetelo. Affezionatevi ai personaggi, ridete delle loro imprese e piangete delle loro sventure. E poi fatevi commuovere dalla fantasia di una donna che scappa dalla sua vita - dal suo destino? - e si inventa tutto un altro mondo, dove le persone non se la cavano meglio, ma sono persone e sfuggono allo schifo della vita proprio come lei.
Leggetelo, salvatevi.
"Mi guardò e mi disse due cose: Tu sei troppo bella per tutto questo. E poi: Ci vediamo a Quinnipak."
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Lettura insolita
In un paese europeo di fine ottocento Baricco ci introduce nelle case di alcuni dei suoi abitanti. Personaggi eccentrici, inventori, sognatori, uomini e donne alla ricerca della cosa che darà un senso compiuto alla sua vita. Questo l'ho capito ed ho capito anche che probabilmente Baricco coi suoi personaggi/macchietta:ci vuole lanciare un messaggio di importanza vitale. Chi usa tutti i suoi vicini come fossero uno strumento musicale, chi si fa portare una locomotiva sotto casa, chi ha deciso che quando la giacca lasciatagli in eredità dal padre diventerà della giusta misura sarà ora di partire per il mondo. E via di questo passo, passando da un personaggio all'altro, facendo salti di tempo e di spazio degni del migliore degli acrobati circensi.
Per i miei gusti questo tipo di libro è troppo complicato da seguire: troppi i personaggi, troppe le complicazioni che portano con loro e poche le spiegazioni e anche quelle poche piuttosto nebulose. Non posso dire che mi abbia lasciato affamata, perchè in realtà sono arrivata alle ultime pagine non vedendo l'ora che finisse, piuttosto appesantita da tutti questi sapori che spaziano dal piccante, al dolce, al salato all'aspro ma sono tutti tanto forti e persistenti da risultare indigesti.
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E la vita rispose
Si dice che Baricco,il suo stile e l'insieme delle sue opere o si amano o si odiano,non ci sono vie di mezzo. Questo suo primo romanzo invece capovolge leggermente questa valutazione. E' come se i suoi lettori più fedeli e quelli che non lo possono proprio soffrire si trovassero catapultati in questo folle mondo di personaggi. Una volta letto anche solo il primo capitolo,è difficile tornare indietro,è difficile ignorarlo. E' come se insieme dovessero condividere la stranezza della vita di Quinnipak. Quest'ultima è una cittadina tipica del frutto della fantasia di Baricco e accoglie in sé personaggi di tutti i tipi ma tutti con lo stesso obiettivo: affrontare da impreparati la vita. Sono impegnati nel fare ciò ogni giorno del loro lungo o breve cammino . Che lo facciano lavorando con i vetri,viaggiando per tutto il mondo,impazzendo per la sconvolgente potenza della musica o solo aspettando un gioiello da lontano,tutti, immancabilmente devono affrontare l'assurdità della vita. Una vita che li coglie alla sprovvista e improvvisamente li toglie dalla scena come delle marionette. Un Baricco spietato che non salva nessuno. E' importante fare un'osservazione sullo stile di questa narrazione. E' straordinario come questo autore riesca a fondere insieme il massimo della poeticità con il livello più basso del linguaggio colloquiale. E' straordinario come riesce a mettere sullo stesso piano profonde riflessioni filosofiche con pensieri assolutamente banali. Uno stile basato sulla ripetizione,l'anafora e sull'intertestualità. Si autoriprende in continuazione spargendo così indizi per tutto il corso della narrazione e invitando il lettore ad una lettura attenta. Intertestualità e metanarrazione che possiamo cogliere soprattutto alla fine del romanzo stesso. Uno dei protagonisti, Jun Rail custodisce con molta cura un libro “che la sta portando lontano”, sul quale, più avanti l'autore scriverà “E l'ultima parola era: America” . E con grande sorpresa ma poca modestia di Baricco, scopriamo che l'ultima parola del suo stesso romanzo è “America”. E' doveroso allora parlare del tema principale di questo libro: la cultura dello spirito,la letteratura,le arti sono quelle che porteranno l'uomo avanti. Sono e saranno sempre quelle muse che non permetteranno mai che l'uomo diventi una semplice e misera macchina. Arriva la grande novità del secolo,il treno ma ecco che quel gesto così divino come la lettura di un libro rallenterà la velocità da capogiro del treno e della tecnologia. Come egli stesso in modo geniale scrive: “[...] - sui treni,per salvarsi,presero l'abitudine di consegnarsi a un gesto meticoloso, una prassi peraltro consigliata dagli stessi medici e da insigni studiosi, una minuscola strategia di difesa, ovvia ma geniale, un piccolo gesto esatto, e splendido. Sui treni, per salvarsi, leggevano.” Non a caso il romanzo è ambientato nel XIX secolo;secolo delle innovazioni tecnologiche. Si affronta inoltre il tema della velocità del suono e della monumentalità degli edifici. Ma crollerà il palazzo di vetro del personaggio Hector Horeau e il treno Elisabeth porterà solo sventure a Quinnipak. Ma un solo libro porterà lontano la bellissima Jun Rail.
L'intestazione e la suddivisione dei capitoli molto personalizzate, interrotte dalla prima strofa della “Zehnte Elegie” di Rilke riportata in tedesco,tutte fanno parte di ciò che Baricco è e di ciò che egli rappresenta per la letteratura italiana: una voce fuori dal coro.
O si ama,o si odia. Con “Castelli di rabbia” non si può che amare.
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Una continua meraviglia
Per la mia prima recensione in questo sito ho deciso di parlare di uno dei libri che più mi hanno emozionato. Esistono vari tipi di lettura possibili, ogni libro ti chiede un esercizio diverso e sta a te scegliere quale trovare il TUO esercizio. Ci sono libri che vanno bevuti in un sorso, altri vanno scalati, Baricco si degusta: si legge poco al giorno (se ci si riesce) per far durare la magia, ci si sofferma sui suoi svolazzi stilistici e soprattutto si riflette sulle sue frasi, che se lette in fretta possono sembrare vuoti esercizi di stile in fondo sono verità sempre emozionanti.
Castelli di rabbia lo trovo il suo libro migliore, un'eruzione di invenzioni e di personaggi che mai più riuscirà ad eguagliare in un libro solo. Questo libro o si ama o si odia, le pagine bianche puoi trovarle sia una magnifica sorpresa che un vuoto tocco di classe. I personaggi del libro sono tutti deliziosamente surreali, ma in ognuno di loro se guardi bene c'è una piccola parte di te ed è emozionante e talvolta commovente leggere tra le pagine piccole rifrazioni della tua vita.
Il libro l'ho letto ormai molti anni fa, però ogni tanto trovo sempre il tempo per tornare a trovare June e il signor Rail.
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Mormy: figlio del silenzio e della meraviglia
Di Baricco è stato detto già quasi tutto, soprattutto a proposito di questo libro, Castelli di rabbia, la cui lettura non lascia indifferente nessuno, sia che lo si ami sia che lo si odi. Ci si chiede perchè e la risposta è contenuta nella stessa essenza del libro: l'universo rappresentato da Baricco è talmente grande e così variegato che chiunque nel bene o nel male può e deve ritrovare un piccolo pezzo di sè. I personaggi si stagliano prepotenti sulla sfondo di una città immaginaria, lentamente emergono pieni di sè, ognuno dei quali con qualcosa da raccontare che è indimenticabile. Così il Signor Rail, che parte e torna senza mai dire una parola, così la moglie Jun, il cui amore è racchiuso in una serie di interminabili attese che prima o poi finiscono sempre e l'unione coniugale torna a trionfare. Così per la locomotiva Elizabeth, la prima della sua storia, che mostrerà all'umanità come vivere il dentro del mondo e il fuori del mondo, quello che c'è dentro il finestrino e quello che c'è fuori. La gente sui treni leggeva per salvarsi, per annichilire quella smodata voglia di guardare fuori dal finestrino e sentirsi morire. Perchè guardare tutte quelle immagini insieme scorrere veloci mescolando colori, odori e sapori di una vita che c'è fuori mentre attanaglia quella che hai dentro, è un'esperienza che ti fa terribilmente paura. Ma non è solo questo.
Nella storia infinita dei desideri che prendono corpo attraverso i movimenti, le scelte e le voci dei protagonisti di questo libro, c'è un bambino dagli occhi grandi e dalla pelle color sabbia, il cui nome è Mormy.
Una creatura strana che nessuno comprende, che guarda il mondo con gli occhi della meraviglia e che ferma istanti nella propria mente come fossero fotografia, perdendosi così lo scorrere della vita, ma guadagnando la profondità dell'attimo in cui si rivela la vera essenza di un 'immagine, di un essere o di una intera esistenza. Vive la sua vita nel silenzio, parla poco, ma il modo in cui ti fissa non ti lascia scampo. Il suo è uno sguardo figlio del silenzio e dalla meraviglia. Mormy non è un bambino come tutti gli atri, forse è malato, forse ha qualcosa di complicato nella testa, ma nessuno può saperlo. Ha uno strano istinto per cogliere il momento in cui la vita esplode nella sua essenza più profonda. E ne rimane ipnotizzato. Gli basta guardare la partenza di un cavallo in corsa, e i suoi occhi sono rapiti dai movimenti, dal corpo, dai colori, dai suoni, come se fosse tutto a rallentatore. Egli ne coglie la profonda energia e ne rimane estasiato. Per Mormy quello è vivere, lasciarsi catturare dagli istanti che non ti lasciano più andare. Mormy non ha difese per la meraviglia. La vita a tratti s'impossessa di lui e lo lascia senza difese, e le immagini diventano incantesimo e poi visioni.
Vi ho raccontanto di Mormy perchè stranamente nessuno ancora lo aveva fatto e poi perchè è uno di quei personaggi per cui vale la pena leggere un libro in quanto è capace di donargli con la sola sua presenza una tale profondità da fartelo sentire tuo.
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L'intreccio, eterno e sospeso, fra sogno e realtà
- Signor Baricco, perchè ha deciso di scrivere questo libro?;
- Perchè era il libro che volevo leggere e non trovavo da nessuna parte.
Che si ami o che si odi, che si apprezzi o che si snobbi, un aspetto è inconfutabile: la scrittura di Baricco è sempre e comunque due spanne sopra alle consuete frequenze letterarie. E 'Castelli di rabbia' confermava il suo incredibile genio sin dal lontano 1991.
Perchè si tratta di un romanzo la cui cifra tecnica risulta difficile da interpretare;
Una prosa fresca e semplice che, concretamente, non ti porta da nessuna parte, ma che, in realtà, metaforicamente ti permette di viaggiare attraverso infiniti paesaggi poliedrici e multicolore.
Battute spiritose, pezzi di comicità, l'assordante silenzio degli spazi bianchi, voci imperfette, illusioni, disillusioni, ipotesi. Tutto questo miscuglio eterogeneo è stato frullato insieme, senza dimenticare l'ingrediente segreto: il linguaggio onni-rappresentativo, ossia quel 'collante universale' che unifica ed uniforma l'intero ventaglio di registri verbali adottati nel testo.
La genialità di Baricco consiste nell'aver creato una nuova maniera di 'assemblare' i vari componenti del romanzo, rievocando le atmosfere tipiche di un revival ottocentesco. Sicuramente gli sarà stata d'ausilio la sua laurea in Filosofia Estetica, ma sarebbe sbagliato anche solo tentare di minimizzare il suo talento innovativo.
Anche perchè il comico Daniele Luttazzi lo ha preso di mira per il suo modo di scrivere 'troppo lezioso', ma la soggettività di ognuno di noi farebbe risultare inutile qualsiasi discussione in merito a queste affermazioni.
In ogni caso, che sia ritenuto un genio o un 'idiota egocentrico', il suo modo di scrivere ha tracciato un solco indelebile nella letteratura moderna. Un solco che ha inizio proprio con 'Castelli di rabbia'.
E verrà ricordato. Nel bene e nel male, verrà sempre e comunque ricordato. Com'è giusto che sia.
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Tre volte all'alba;
Seta;
Novecento
sembra di essere dentro al libro
questo libro mi ha cambiato la vita. non è possibile spiegare a parole quello che provavo mentre lo leggevo.. al di là dei personaggi singolari e le storie un po' assurde, mi rivedevo in quei personaggi.. soprattutto in Jun e il signor Rail.
in tutti i libri di Baricco mi sento sempre così,ma in questo caso è stato davvero qualcosa che ha lasciato il segno nel mio cuore.
un libro affascinante sia dal punto di vista della trama sia dal punto di vista dello stile,con quei discorsi infiniti che sembrano un ingarbuglio di pensieri e da cui non puoi uscire,sembra che sei proprio te a ragionare in quel modo e pensare quelle cose.
lo consiglio a tutti,come ogni suo libro