Caro Michele
Letteratura italiana
Editore
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Madre e figlio
Caro Michele, pubblicato nel 1973, a dieci anni dal famoso “ Lessico famigliare “, è un romanzo prevalentemente epistolare, privo di una struttura narrativa definita, un ‘ alternanza di voci singole, spezzoni di vite frantumate e in qualche modo connesse, esito di una disgregazione famigliare ignara delle cause ma chiara negli esiti, e il tema di fondo, l’ incomprensione madre-figlio, si apre e si chiude in un duplice disfacimento.
I temi trattati affrontano gli esiti di una disgregazione borghese e famigliare, l’ inconcludenza e l’ inaffidabilità di certa gioventù, il trionfo dell’ io, il tema del divorzio, l’ ansiogena ricerca di un proprio angolo di mondo, una certa nostalgia del passato, il rimpianto per ciò che non si è fatto e non si è detto, una rassegnata e ineluttabile percorrenza.
La scrittura è semplice, asciutta, diretta, le voci rimandano a uno stato confusionale individuale ignaro del senso di comunanza insito nella generazione dei Levi di “ Lessico famigliare “, qui spicca l’eco individuale, la frammentarietà, un’ aria di smobilitazione, di lontananza, di vuoto, di non ritorno.
Una madre e un figlio che non si vedono da anni, non si fidano l’ uno dell’ altra, indirizzati altrove, costretti a relazionarsi negli inciampi del presente, con un quesito ricorrente …” Michele cosa farà e dove andrà “…., l’ impossibilità di decidere per lui, l’ ignoranza per ciò che vorrà fare della propria vita. Un’ infanzia segnata dal disfacimento matrimoniale, dall’ affidamento di Michele alle cure paterne, dalla scarsa educazione impartitagli, dall’ accusa di balordaggine.
La colpa è anche degli altri ma soprattutto propria, una madre non simpatica a se’ stessa, sfiduciata nel portare avanti un qualsiasi modello educativo.
Il tempo, gli acciacchi, la malattia, restituiranno un intento rassegnato indirizzato a un senso di pace, riflessioni a posteriori su quella felicità introvabile nel presente.
Oggi l’ amara constatazione che madre e figlio avrebbero potuto sedersi a parlare di cose essenziali, ricordando quei giorni non come felici ma veritieri ed essenziali, destinati ad illuminare se stessa e l’ altro, che invece si sono scambiati sempre …”parole di natura deteriore, non necessarie, ma grigie, bonarie, fluttuanti, inutili”….
Le voci e le porzioni di storie dei protagonisti, un turbinio intrecciato e sconnesso, richiamano una neo dimensione di interiorità, la constatazione di quanto ciascuno sia …” sbandato e balordo in una zona di se’, qualche volta fortemente attratto dal vagabondare e dal respirare nient’ altro che la propria solitudine”… e allora …” in questa zona ognuno di noi può trasferirsi per capirti”…
È inappellabile il fatto che …” ci si abitua a tutto, ci si abitua a tutto quando non rimane più niente”….
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Michele, caro Michele
«Ne ho rimorso. Ma è vero che a un certo punto della nostra vita i rimorsi li inzuppiamo nel caffè la mattina come biscotti.»
Corre l’anno 1973 quando Natalia Ginzburg osserva, ripete, riporta. Dolori, anime, pensieri. Un grigio realismo con cui viene trattenuto e dipinto il vivere di una realtà borghese fatta di anime e pensieri stratificati tra loro. Ecco allora che il realismo prende forza e campo, che i personaggi di questo titolo non vanno “né avanti, né indietro” che l’umanità si cristallizza in piccole azioni del quotidiano in un ricostruirsi di schegge e frammenti, in un puzzle che prende forma sino al dramma finale.
E cos’è, se non la solitudine, ciò che respira ogni singola voce tra queste pagine? In un silenzio che lascia grida inutili di impotente desolazione.
Ed è a Michele che avviene la confessione. Una confessione fatta di una esistenza appassita ed orfana, una confessione che vede un figlio sbandato e balordo che fugge per motivi politici essendo un po’ compromesso in moti di estrema sinistra in questi anni agitati ma di fatto senza veramente sapere un perché. Adriana sa di non essergli stata davvero madre. Se lo ripete e glielo confida, fa proprio quel moto malinconico, quella solitudine di una separazione con il marito e con un senso di non appartenenza che nel ripetere a lui, ricorda a se stessa. Sta a Londra adesso Michele. Ed è qui che sono destinate le lettere dall’Italia. Lettere ad alcune delle quali risponde e che delineano un quadro complesso sia dal punto di vista psicologico che umano.
Michele altro non è che il canale che ricostruisce la narrazione, che riporta a galla una rete, che è destinatario di flussi di vita che nemmeno sempre lo riguardano. Tanto che potrebbe dirsi non essere nemmeno il vero protagonista dell’opera, Michele. A queste voci si sommano anche le sorelle di Michele quali Angelica, che gli vuol bene seppur le sue complicazioni affettive, c’è Mara, donna semplice e c’è Osvaldo, amico si vecchia data, o forse qualcosa di più, c’è Ada, l’efficiente ma pratica moglie separata.
Il racconto si apre nel dicembre del 1970 e si chiude nel 1971, accompagna i lettori tra caldo e freddo, a far da teatro e scenario è solo la memoria. Ancora una volta a essere narrato non è il presente quanto un passato che non lo è mai davvero. Ed è l’anno 1973 quando questo romanzo in forma epistolare “misto”, misto essendo le missive alternate da un narrare e narrato in terza persona, che fonde il raccordo dell’avvenire con la gergalità della missiva, prende forma e riconferma le grandi capacità della romanziera. Una lettura che lascia il segno.
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Romanzo "Michelecentrico"
“Non esisteva ancora il libro dello sbandamento e delle ansie giovanili, della crisi della famiglia…...Non esisteva il libro della ribellione dei ragazzi borghesi” (P. Bianucci, Gazzetta del Popolo, 1973).
In queste riflessioni si concentra l’essenza di “Caro Michele”, che prima ancora di essere il titolo del libro rappresenta l’incipit di quasi tutte le lettere spedite al suddetto Michele dalla madre, dalle sorelle, dagli amici. Lettere che come tessere di un puzzle compongono questo romanzo epistolare e che sono qua e là intervallate dalla narrazione in terza persona, come a fungere da trait d’union tra le varie missive.
Questa storia appare come l’antitesi al più celebre libro della Ginzburg, quel “Lessico famigliare” che riusciva a ricostruire l’identità e l’unità della famiglia Levi (dell’autrice) facendo perno, appunto, su quella terminologia cara e unica che solo i membri del nucleo potevano riconoscere(“non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!). Qui invece la famiglia appare disgregata, dispersa, la solitudine imperversa, soprattutto nelle parole della madre di Michele isolata in una casa di campagna con un matrimonio fallito alle spalle (“Sono contenta di questa casa, ma certo trovo scomodo essere così lontana da tutti”). Madre che non esita a rivolgere il suo risentimento nei confronti di un figlio lontano, mai presente (“Sei venuto su molto balordo, ma non sono sicura che saresti stato meno balordo se avessi ricevuto da noi un’educazione”).
La Ginzburg definisce l’impianto della storia secondo uno schema “Michelecentrico” in cui Michele è il destinatario delle comunicazioni di molte persone. Risulta quindi molto nominato ma poco presente, sfuggente, inquieto, in fuga dalla famiglia (e dall’Italia) per questioni politiche probabilmente. Michele diventa quindi emblema di una gioventù borghese ribelle che sembra abitare un mondo “che ora è pieno di questi ragazzi, che girano senza scopo da un posto all’altro. Non si riesce a capire come invecchieranno”, e che sembra ricordare un po’ quella gioventù dei figli di papà raccontata da Pasolini.
Ma la realtà sociale che popola il romanzo è pregna di personaggi problematici, in cui è evidente innanzitutto una carenza affettiva imputabile a relazioni in crisi o compromesse (la madre, una sorella, Osvaldo amico intimo di Michele) o ancora di più l’assenza di punti fermi nella propria vita come è possibile vedere in Mara, ragazza madre senza casa e soldi, viziata e capricciosa perennemente alla ricerca di un alloggio offertogli da amici, conoscenti, amanti, con un figlio a carico il cui padre potrebbe essere proprio lo stesso Michele.
Sopra a tutto aleggia una sensazione di infelicità corale, una disillusione che tenta di trovare refrigerio nell’illusione e nella speranza che in realtà “la felicità esista, cosa che forse non è del tutto da escludere, anche se raramente ne vediamo traccia nel mondo che ci è stato offerto”.
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Gradevole guazzabuglio epistolare
Una vita lontana dalla famiglia, amicizie ambigue, uno scantinato che funge da abitazione e da laboratorio di pittura, velleità d'artista frustrate dalla mancanza di talento, un'attività politica sovversiva legata ad ambienti di estrema sinistra: questo è il quadro che viene fuori della figura di Michele Vivanti, giovane rappresentante della borghesia romana all'alba di quel periodo tristemente passato alla storia con il nome di "anni di piombo". Un ritratto che viene fuori da una serie di lettere, scritte nell'arco temporale tra il dicembre del '70 e il settembre del '71, in cui la madre, la sorella, l'amico fidato e altri personaggi che gravitano intorno al ragazzo e all'ambiente familiare, chiedono, danno, si scambiano informazioni sul protagonista ma anche su loro stessi, contribuendo non solo alla rappresentazione del personaggio principale, ma anche a dare un'idea delle proprie persone e delle proprie vite che, unite, creano il quadro di una società complessa in un periodo storico a dir poco complicato. Lettere scritte in maniera informale, quindi con un linguaggio semplice, casalingo, mutevole a seconda del mittente, ma accomunate da un senso di distacco, di apatia, quasi di inaffettività, usate come fossero ormai l'unico mezzo di comunicazione tra persone che hanno sempre meno da spartire e trascinano i loro rapporti quasi per dovere, a volte per interesse, altre per noia. Ne nasce un'immagine decadente dell'istituzione della famiglia, del novero dei rapporti sociali, dell'atavica incomunicabilità tra vecchie e nuove generazioni. Tra una missiva e l'altra, Natalia Ginzburg inserisce parti di narrazione in terza persona, dove il livello letterario sale qualche gradino elevandosi dal gergo quotidiano, come se una voce fuori campo si prendesse la briga di unire i pezzi di un mosaico, di dare un senso ad ogni tessera, di fare da collante a questo gradevole guazzabuglio epistolare. "Ma purtroppo è raro riconoscere i momenti felici mentre li stiamo vivendo. Noi li riconosciamo, di solito, solo a distanza di tempo. La felicità era per me protestare e per te frugare nei miei armadi. Ma devo anche dire che abbiamo perduto quel giorno un tempo prezioso. Avremmo potuto metterci seduti e interrogarci vicendevolmente su cose essenziali. Saremmo stati probabilmente meno felici, anzi saremmo stati forse infelicissimi. Però io adesso mi ricorderei quel giorno non come un vago giorno felice ma come un giorno veritiero e essenziale per me e per te, destinato a illuminare la tua e la mia persona, che sempre si sono scambiate parole di natura deteriore, non mai parole chiare e necessarie ma invece parole grigie, bonarie, fluttuanti e inutili. Ti abbraccio. Tua madre." In tutto ciò Michele interagisce pochissimo, restando evanescente, inafferrabile, misterioso, lasciando gli altri a preoccuparsi, a sbattersi di qua e di là, indifferente ai lutti, alle esigenze altrui, alle richieste di aiuto, perfino ad un'eventuale paternità, alla continua ricerca di qualcosa di indefinito, perennemente dietro a progetti volubili ed imprecisati, impersonificando i sogni, le aspettative, le paure, le incertezze di un'intera generazione e finendo per diventare vittima delle sue inquietudini personali e dei trepidanti fermenti di un mondo in costante tensione.
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Mara il pellicano e altra gente strana
“Ti auguro ogni bene possibile, e spero che tu sia felice, ammesso che la felicità esista. Io non credo che esista, ma gli altri lo credono, e non è detto che non abbiano ragione gli altri.”
Il pellicano
Caro Michele è un romanzo in prevalenza epistolare, fatto di lettere a Michele, di Michele e anche a/di parenti e amici di Michele. La cosa più bella è il tono delle lettere, la freschezza, il candore, l’intelligenza e la profondità che però sa di immediatezza e non di ragionamento. Alcuni personaggi come il Pellicano, cioè l’editore del bruttissimo romanzo Polenta e Veleno che diventa Polenta e vino e Polenta e castagne in alcune pagine sono fantastici. Bella la figura di Mara, ragazza disinibita e onesta, profittatrice e di cuore. Bella la figura della madre ingenua e intelligente e l’amicizia-forse amore tra Michele e Osvaldo che dà un tocco di malinconia alle pagine.
“Io lo credo (Osvaldo) molto intelligente, ma sembra che la sua intelligenza la tenga custodita nel suo torace, nel suo pullover e nel suo sorriso, trattenendosi dall’usarla per motivi che restano nascosti. Nonostante il suo sorriso, lo trovo un uomo tristissimo.”
I rapporti umani sembrano più veri di quelli veri, sembra che siano più indelebili in qualche modo pur nella loro provvisorietà perché i personaggi della Ginzburg sono tutti buoni.
“Tu dici che non vuoi sulla tua persona, in questo momento, gli occhi delle persone che ti amano. E’ infatti difficile sopportarli, gli occhi delle persone che ci amano in un momento difficile, ma è una difficoltà che si supera rapidamente. Gli occhi delle persone che ci amano possono essere nel giudicarci estremamente limpidi, misericordiosi e severi, e può essere duro ma in definitiva salutare e benefico per noi affrontare la chiarezza, la severità e la misericordia. “
“La felicità era per me protestare e per te frugare nei miei armadi. Ma devo dire che abbiamo perduto quel giorno un tempo prezioso. Avremmo potuto metterci seduti e interrogarci vicendevolmente su cose essenziali. Saremmo stati probabilmente meno felici, anzi saremmo stati infelicissimi. Però io adesso mi ricorderei quel giorno non come un vago giorno felice ma come un giorno veritiero e essenziale per me e per te, destinato a illuminare la tua e la mia persona, che sempre si sono scambiate parole di natura deteriore, non mai parole chiare e necessarie ma invece parole grigie, bonarie, fluttuanti e inutili.”
Entrando nei suoi romanzi sembra di essere in un paradiso terrestre.
“Così penso che cercheremo di mandarti ogni tanto dei soldi. Non è che i soldi ti risolvano niente essendo tu sola, sbandata, vagabonda e balorda. Ma ognuno di noi è sbandato e balordo in una zona di sé e qualche volta fortemente attratto dal vagabondare e dal respirare niente altro che la propria solitudine, e allora in questa zona ognuno di noi può trasferirsi per capirti.”
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Afasie generazionali
Pianticelle nate moralmente appassite (i giovani) messe a confronto con le memorie assopite nel bosco desertico di padri assenti. Un abile intreccio di passi sbagliati -ma inevitabili- tra la nostalgia del passato e la repulsione di un presente afasico.
Vorrei spendere le mie parole più belle per parlare di Natalia Ginzburg (nata Levi nel 1916), parole anche di invidia per colei che a ventuno anni di età -e per prima in Italia- tradusse il volume primo della Recherche di Proust.
L'apologia degli scrittori -lo riconosco- è cosa assai triste (al pari della speranza) ma spero che alla Ginzburg vengano riconosciuti i meriti intellettuali -e concessa la fama letteraria- che le spettano, di diritto, oggi.
La sua opera più nota (Lessico Famigliare) edita nel '63, la fece conoscere al grande pubblico d'allora (ma in fondo gli Strega vanno e sono sempre andati di moda) e le consentì di ottenere metà di quel primato italiano riservato agli “scrittori donna” (l'altra metà fu della Morante). Ma al di là dei meriti narrativi la Ginzburg è stata un'abile saggista: “Le piccole virtù” credo sia un piccolo capolavoro e una piccola virtù della saggistica italiana (“Ritratto di un amico” è poi senz'altro lo scritto su Pavese più bello di cui la critica letteraria disponga); ed è stata un'instancabile donna “impegnata”: all'Einaudi prima, in politica poi.
Caro Michele (1973) è un “romanzo ellittico”: la Ginzburg ha infatti costruito un'immensa ellissi omettendo dalla narrazione proprio il personaggio attorno al quale la storia si snoda: Michele.
Il “tema della mancanza” (o meglio “delle mancanze”) viene filtrato attraverso l'artificio della lettera. Molti hanno scritto di Caro Michele come di un romanzo epistolare, e se lo è, di certo lo è in un modo atipico: diversi sono infatti i passi narrativi che si alternano alle missive dei personaggi.
Lo scopo principale -e geniale- delle epistole è comunque quello di trasformare l'ordine regolare degli avvenimenti mantenendone però l'aspetto cronologico. Le lettere fungono da filtro per accogliere la storia da una “prospettiva laterale”, prospettiva che alimenta parallelamente le descrizioni altrui, la propria fantasia e la realtà. Ciò che il lettore si trova davanti è una rete di lettere che i molti personaggi del romanzo si scambiano, lettere che appaiono come l'ultimo debole appiglio che mittenti e destinatari possiedono per restare uniti. Cosa vi sia a separarli? è semplice intuirlo: una profonda crisi generazionale e culturale (siamo all'indomani del 12 dicembre 1969, siamo all'inizio degli “anni di piombo”). La politica entra in questo romanzo, ma di sfuggita, si riesce solo a scorgerla, a intuirla con tutti i suoi risvolti drammatici.
Il vero nucleo del romanzo è la distanza tra le nuove generazioni (nomadi senza scopo né destino che non potranno invecchiare in quanto non sono mai stati giovani) e le vecchie generazioni (deboli conservatori di memorie). Tali distanze riguardano e permeano però tutte le generazioni ad ogni livello: nessuno riesce a comunicare in modo autentico e costruttivo con nessuno.
A fare da sfondo a queste distanze vi è poi una borghesia di facciata, dove articolate famiglie (vecchie e nuove) si sgretolano in un processo lento ma inesorabile in cui vengono annullate tutte le unità spaziali (Garboli ha scritto che le Famiglie della Ginzburg sono in realtà “tribù nomadi”).
L'impossibilità comunicativa negli anni '70 non è più una novità in letteratura, ma la lucidità cinica che descrive come questi personaggi non sappiano più riconoscersi (nel doppio senso di riconoscere se stessi e gli altri) fa intuire la presenza di una miriade di linguaggi differenti e inconciliabili.
Fruttero e Lucentini in una particolare critica al romanzo hanno parlato di “romanzo fantascientifico”, intendendo con tale definizione quella parte catastrofica delle opere di tale genere: i personaggi di Caro Michele sono -per i due scrittori- i sopravvissuti a una catastrofe culturale che ha distrutto ogni forma di intelligenza; per salvarsi essi si aggrappano alle cose (sono moltissimi gli oggetti simbolici con valore affettivo-esistenziale lungo il romanzo) accontentandosi solo di sopravvivere. A tenere unito un mondo in frammenti (oltre agli appena citati oggetti) appaiono a tratti alcuni personaggi con funzioni positive di collante (Angelica, una moderna Antigone)
Si possono cogliere poi due temi molto importanti dalla lettura: il tema dell'educazione nel complicato rapporto genitori-figli, e la crisi identitaria del mondo maschile (è chiave in tale direzione la figura di Osvaldo).
Caro Michele è un romanzo in cui la Ginzburg oltre allo scavo nella memoria -derivato dalla profonda conoscenza dell'opera di Proust- ha avuto modo di ritrarre la propria “triade femminile” (vi sono tre tipi di donne: donne stabili, donne che corrono, donne che camminano).
Concludo scrivendo dello stile di Caro Michele (l'aspetto più incompreso dell'opera): è uno stile volutamente essenziale e sintetico, con una riduzione ai verbi elementari e ai periodi brevi (l'utilizzo continuo del punto offre una narrazione sincopata). Tale secchezza sintattica -allontanandosi dall'introspezione- punta ad una schietta oggettività il cui fine è il rimando ad una “realtà elementare”, la quale non permette lo sfogo dell'emotività (il cui segno è l'aggettivo) poiché sono venuti meno i sostantivi che meritano d'essere qualificati.
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Romanzo epistolare
Chi è Michele? Lui è uno con il fuoco dentro, uno che sta bene da solo e con tutti, uno che è di casa qua ed anche un po’ là, uno che lancia tutto sé stesso contro il nemico e che abbraccia con anima e corpo i propri ideali, uno che se può filarsela se la fila, uno che sa, vorrebbe sapere di più ma finge anche di non sapere. Michele è l’unico destinatario delle lettere, i mittenti sono vari, principalmente i familiari e gli amici. Se per amicizia si intende una relazione coltivata nel tempo e per famiglia un rapporto forte ed immenso, allora non posso utilizzare queste parole. Tra le pagine si respira aria fredda, l’unica voce calda è quella della madre, le altre sono indifferenti, le missive non traboccano di emozioni, hanno un carico affettivo pari a quello delle ricevute fiscali.
Siamo negli anni settanta, periodo politicamente infiammato. Piccoli drammi quotidiani si sfogano nelle lettere destinate al ragazzo fantasma, lui risponde raramente e quando lo fa è arido di parole e di sentimenti. Possono essere fatti banali, a volte rilevanti.
Una famiglia scollata ma che in fondo ama, vivono allo sbaraglio, sembra che l’umanità intera sia smarrita e ferita.
La seconda parte del libro è la migliore, emerge il dolore. Di primo acchito prevale la perplessità, subentra poi l’indecisione alla fine la consapevolezza.
La penna si adatta ai vari personaggi: dolce e profonda la madre, sbandata e superficiale la ex ragazza, fredda ma precisa una sorella, banale e lamentosa l’altra, triste e sincero l’amico.
Concludendo, una lettura particolare, che riserva nelle ultime pagine un’amarezza difficile da cancellare.
“Ti sembrerà strano, ma ci si attacca a desideri minimi e strani quando in verità non si desidera niente.”
“Penso ora che quello era un giorno felice. Ma purtroppo è raro riconoscere i momenti felici mentre li stiamo vivendo. Noi li riconosciamo, di solito, a distanza di tempo. ”