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Luigi è vecchio e solo, abbandonato perfino dalla memoria, tranne che dal ricordo vivido dell’omonimo nipote a cui si aggrappa con tutto se stesso affinché non sfugga via. Vivacchia in un ospizio dove nessuno si interessa a lui. Fino a quando una donna misteriosa comincia a fargli visita e, affatto scoraggiata dal suo apparente stato di semi incoscienza, a raccontargli la storia di due giovani. E più si addentra nella narrazione più al vecchio sembrano familiari i luoghi e le abitudini. Gli avvenimenti sfilano via tra usi e costumi dell’entroterra campano nel corso del secolo scorso, quando la civiltà contadina era più viva che mai e l’emancipazione femminile stentava a farsi largo, anche se il concetto cominciava a prendere corpo nella mente di una ragazza che voleva vedere il mondo a colori.



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Calavrice 2015-07-19 09:34:16 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    19 Luglio, 2015
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Buona l’idea, meno la realizzazione

Prima di iniziare a leggere questo libro mi sono posto il problema del titolo che poteva essere il nome di una località o il cognome di un personaggio e fatte le opportune ricerche ho appurato che in Campania, regione in cui è nato e vive l’autore, così viene chiamato il biancospino, che oltre a essere una pianta ornamentale è utilizzato come soggetto per innestarvi diverse varietà di peri. Al riguardo, pertanto, assume un particolare valore simbolico per l’attività in agricoltura di uno dei protagonisti; non dico altro, anche perchè questo secondo romanzo di Sirignano, almeno nelle intenzioni, dovrebbe servire a evidenziare come era quella civiltà contadina ora scomparsa. Si tratta di un progetto ambizioso e di non facile realizzazione e che finisce con lo scontare inevitabilmente il confronto, da cui esce nettamente perdente, con la trilogia (Il Quinto Stato, La vita eterna e Un altare per la madre) di Ferdinando Camon, che rappresenta quanto di meglio ci possa essere per descrivere un mondo rurale ormai estinto. D’altra parte, nemmeno pretendevo che Sirignano fosse all’altezza del narratore veneto, ma comunque mi sarei aspettato un romanzo di migliore levatura. L’opera inizia con un vecchio in un ospizio, allettato e che sembra solo vegetare, che riceve quotidiane visite da una donna che non conosce e che gli racconta una storia che lui ignora, ma dove ci sono richiami a luoghi che gli fanno ricordare un’altra storia che poco a poco prende piede nella sua mente. La narrazione delle due vicende procede alternativamente, per poi incrociarsi nel finale, come era mia previsione. La struttura, così impostata, purtroppo è greve, pesantezza che potrebbe trovare giustificazione solo per approfondimenti di concetti particolarmente complessi, ma che non sono però presenti; è greve per l’impostazione dell’opera, per un ricorso a non rare digressioni che sono decisamente non pertinenti e se lo stile nel complesso è migliorato rispetto al primo romanzo dell’autore, permane tuttavia volutamente un velo di mistero che però si rivela solo un espediente per dare un po’ di vivacità a una trama tutto sommato abbastanza monotona Le due storie, inoltre, hanno tutte le caratteristiche tipiche della telenovela, fra cui il fatto che i protagonisti o sono solo buoni o sono solamente cattivi, con gli amori contrastati, le invidie e cattiverie del paese. C’é pure un richiamo alla natura, ma è appena accennato. Non mancano anche alcune perle, che riguardano in particolare i rapporti di Sirignano con le vipere, perché che una ragazza morsicata in un dito dal rettile muoia in pochissimo tempo e senza che chi le è vicino se ne accorga è del tutto impossibile, per non parlare di un altro serpente della specie che si arrotola a un neonato nella sua culla. Forse si è lasciato convincere da leggende che guarda caso mi raccontava anche mia nonna; sta di fatto che il romanzo, pur risultando leggibile, non potrà essere di sicuro annoverato fra le opere degne di nota e meritevoli di particolare attenzione.

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