Bella mia
Letteratura italiana
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L'amore al tempo del terremoto
“Bella mia” è un canto poetico sull’amore, l’amore che non c’è più e l’amore che pian piano rinasce tra le macerie del terremoto che ha colpito L’Aquila il 6 aprile 2009. Quelle potenti scosse che all’alba hanno raso al suolo una città e tanti altri paesi intorno hanno seminato morte e macerie non solo fisiche ma anche morali, hanno cancellato l’individualità e l’intimità delle persone che le hanno vissute. Cosa resta dopo un terremoto oltre ai morti e ai feriti, agli sfollati, alle case violate, al pianto dei sopravvissuti, al dolore per chi non ce l’ha fatta? Resta la nostalgia dei ricordi e quelle poche cose che i sopravvissuti sono riusciti a portare in salvo, un tempo insignificanti e ora testimoni mute di tutta una vita.
Il romanzo parla di due gemelle che il terremoto ha diviso per sempre lasciando a una delle due l’incarico di fare da madre, lei che madre non ha mai voluto essere, al figlio adolescente della gemella, Olivia, rimasta sotto le macerie. Parla del rapporto difficile con questo nipote, aggrovigliato nella sua perdita, incapace di parlare con la zia e con la nonna perché l’unica persona con cui vorrebbe parlare è sua madre. Che non c’è più. E il padre conferma l’inconsistenza e la nullità affettiva che già c’era prima del terremoto.
L’io narrante è Caterina, la gemella superstite, che ha ripreso a dipingere le sue terrecotte ma dentro è in frantumi come sono andate in frantumi le sue terrecotte. L’assenza è la presenza onnivora del romanzo con cui Caterina, Marco, il nipote, e la nonna devono fare i conti tutti i giorni e tutte le notti. Amano fortemente e fortemente rimpiangono. Olivia è altrove. La vita, laggiù nelle C.A.S.E., si srotola come una tela di Penelope. Ogni giorno si ricomincia daccapo. Eppure nella provvisorietà e nei rimpianti delle loro esistenze ogni tanto l’oscurità è squarciata da qualche piccolo momento di grazia. Le intemperanze di Marco, che cerca una logica a quello che gli è successo dove logica non esiste, vengono un po’ domate dall’arrivo di Bric, anche lui un sopravvissuto, un cane sopravvissuto al suo padrone. E Marco riesce a trovare un canale comunicativo con lui. Caterina riassapora il gusto di due labbra sulle sue e la dolcezza delle carezze di un uomo sul suo corpo. Una nuova vita sta formandosi nel grembo di una vicina. Deboli luci di una rinascita della speranza a cui aggrapparsi per vivere e non solo sopravvivere.
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L'AQUILA FERITA
Ho trovato questo libro molto toccante e con varie sfumature di lettura. E' stato scritto dopo qualche anno dal terremoto che ha distrutto il centro storico di L'Aquila e l'autrice mette in luce la difficoltà di vivere dei sopravvissuti, scampati al sisma, ma costretti ad emigrare in quartieri dormitorio senza un passato. La protagonista ha perso la madre e ora vive con la nonna perché il padre aveva già tradito la famiglia scappando con un'altra donna. La forza del libro è quella di scavare nei sentimenti dei protagonisti per elaborare tutto il dolore che lascia una simile tragedia. Questo dolore diventa poesia attraverso la penna di Donatella Di Pietrantonio che ci permette anche di passeggiare fra le rovine della città per cercare un futuro andato perduto fra le macerie.
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Mastrocola - Non so niente di te
“L’Aquila bella me, te vojio revete”
Sin da subito sono stata attratta dalla bella copertina e dal titolo così compiaciuto che mi fa ricordare una classica espressione di apprezzamento tipica dell’agrigentino “bella me”. D’altra parte la grafica e le copertine che la Elliot sceglie mi piacciono sempre.
“Bella mia” è un inno alla vita, alla persona che amiamo, alla terra che ci accoglie, è la ricerca spasmodica della speranza, della ricostruzione dopo l’abbattimento del disastroso e indimenticabile terremoto che ha colpito l’Aquila. E’ una confessione intima e struggente di chi è rimasto illeso nel corpo, è l’urlo straziante di una donna che vede morire la sorella gemella e che a piccole dosi vede crollare il mondo che la circonda e il resto della famiglia che le rimane. E’ una dura prova di sopravvivenza, di dettagliate situazioni che Donatella Di Pietrantonio spulcia con pochi mezzi, ma quelli usati sono parole dettate da un’intima narrazione quasi scarna e dolorosa tanto quanto è stata la violenza del terremoto che ha raso al suolo case, persone, oggetti e le affezioni della propria terra natia. E’ la dura prova che l’uomo deve sostenere prima con se stesso e poi con chi gli sta accanto per elaborare il complesso concetto della perdita improvvisa. Una risalita dalle macerie, un piacevole ricordo che riemerge nella mente osservando la tanto desiderata felpa gialla dei Simpson dell’ultimo compleanno di Marco, stesa sul filo esterno della biancheria nella zona rossa vietata al pubblico e ai residenti, oppure un vasetto di alici che tristemente staziona sopra una mensola risparmiata dal sisma e che Olivia non mangerà più.
Cosa resta di noi se un terremoto ci portasse via tutto quello che amiamo? Si diventa ladri in casa propria, furtivi e impietriti dai propri ricordi come quelle mura diroccate che non hanno più anima, si diventa “deportati “ presso le C.A.S.E. provvisorie e facili all’usura pure quelle. L’autrice lo delinea con un linguaggio a tratti severo ed empatico, lasciando lo spazio essenziale alla rabbia e alla morte dell’anima che solo col tempo può tornare a rivivere e trovare la forza e il coraggio per andare avanti e ricominciare tutto daccapo. In silenzio, urlando dentro se stessi e riallacciando gradatamente e senza rancore i lembi amputati da chi ha reciso la dignità senza altra alternativa o via di scampo.