Argo il cieco
Letteratura italiana
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I cento occhi della memoria
Stanco, anziano, disilluso, Gesualdo, affacciato alla finestra della sua stanza d'albergo in una Roma fredda e piovosa, affida la sua salvezza alla scrittura, ripercorrendo l'unica estate della sua vita in cui si sia sentito giovane e felice. Guardando nel suo passato come un Argo dai cento occhi, il narratore, chiaro alter-ego dell'autore, ritorna al 1951, alla fine di un anno scolastico in cui, trentenne, ha insegnato italiano a Modica, "un paese in forma di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri". Estraneo ai piaceri dell'amore che non siano quelli voluttuosi presi in affitto nelle case di piacere, invaghito di quella che è stata la sua città per la durata di un anno scolastico, incline alla malinconia e all'autocommiserazione, il nostro eroe racconta i tormenti sentimentali, carnali e poetici di quello spaccato della sua esistenza, ma anche le serate di baldoria, i balli, le consuetudini, le incertezze di un lavoro che dopo ogni estate non si sa dove lo porterà. Il suo cuore è tanto impaziente, talmente desideroso da riuscire ad amare più donne contemporaneamente, senza tuttavia essere corrisposto, bruciando di una passione feroce che sfoga scrivendo versi. Musa irraggiungibile di cotanto ardore è l'irrequieta Maria Venera, cui si alternano, si sovrappongono, si confondono altre procaci pulzelle come l'ingenua Isolina o la navigata Cecilia. "Pensavo ai miei amori, dicendomi ch'erano infatuazioni, prima che per una donna, per me stesso; e che potevano essere tanti nel medesimo tempo, perché in ognuna amavo me solo. Bisogna prima innamorarsi di sé per potersi innamorare di un'altra". La penna barocca del grande autore siciliano è capace di incantare il lettore con un uso sapiente delle parole, di entusiasmarlo facendogli provare i sentimenti che tormentano il protagonista, di interessarlo con colte citazioni che cadono a puntino. In questa sorta di diario tardivo, Gesualdo guarda al passato sguinzagliando i suoi cento occhi ma questi, ormai stanchi, non sembrano distinguere bene tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere, tra i fatti reali e le fantasie letterarie di un vecchio malinconico, arrancando nella fitta nebbia del tempo che offusca inevitabilmente la memoria e finendo per rendere cieco il nostro novello Argo. "...e avrei voluto vivere in carne e ossa un mistero di Parigi; giocare una volta alla roulette russa; ricevere una lettera di Mano Nera, firmata con una croce. Ancora oggi tutto quanto contiene una minaccia m'attira. Persino il gusto del fantasticare, questo spasso mio del teatro ad occhi chiusi, sono felice ogni volta che posso pervertirlo in un rischio della mente. Quasi volessi emulare da fermo il sonnambulo che passeggia su un davanzale largo due palmi e ripeterne nel pensiero le fatali anestesie".
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Memoria e sogno
“…Infine dai costoni di monte Tabbuto, dalle grotte di Pantalica e d’Ispica, tutta la terra, miocene e pliocene, schisti, faglie, semenze e tane, vene d’acqua e crepacci da sisma, tutta la terra del Val di Noto tremò, socchiuse impercettibilmente le labbra a un sorriso. Uno scorpione fra due sassi strofinò languido le due chele fra loro, una madamina lucertola dalla trincea d’un filo d’erba sporse un attimo il muso, lo ritrasse , lo sporse ancora, Don Alvise si tolse le mutande lunghe di lana e fu primavera.”
È strana la storia di questo grande autore siciliano che pubblicò il suo primo e fortunato romanzo Diceria dell’untore, e solo in seguito a un fatto fortuito, nel 1981, quando cioè aveva già 61 anni. Da allora, fu come si fosse scrollato di dosso una maledizione che lo aveva relegato in una oscura vita di insegnante e così, nel lasso di tempo che ancora gli restò da vivere (morirà il 14 giugno 1996 in un incidente d’auto) diede vita a una corposa produzione, peraltro tutta di elevata qualità. Fra questa figura anche Argo il cieco, che vide la luce nel 1984, un altro romanzo che pone in risalto, oltre alla straordinaria capacità narrativa, la sua altrettanto stupefacente abilità nell’uso della parola, mai superflua pur risultando abbondante, una quasi prosa poetica che al tempo stesso affascina e diverte.
E Argo il cieco è la sua seconda opera, smentendo così l’idea che non pochi si erano fatti che Diceria dell’untore fosse un unicum, un’esperienza di vita vissuta più volte scritta e riscritta quasi a futura memoria. È proprio la memoria che si mette in luce nuovamente in questo libro in cui l’autore pare voler rendere confessione al lettore accompagnandolo per mano fra presente e passato, con un’epoca in cui un uomo, ormai avanti con gli anni, cerca di fare i conti con il suo trascorso, ma un trascorso particolare, un anno, il 1951, da lui vissuto a Modica.
Così, chi non ha più speranze di futuro e come un cieco non lo vede, cercando anche di oscurare un presente del tutto insoddisfacente, il ricorso al ricordo è un espediente per rifugiarsi in una realtà passata, magari in parte arricchita con la fantasia. La ricerca dell’amore in un trentenne che in quel 1951 si considerava vecchio e che ora a sessant’anni si sforza di pensarsi giovane è l’occasione per una lunga carrellata su tutta una serie di personaggi, compreso un Gesualdo così diverso (ma fino a un certo punto) dall’attuale. Quel giovane insegnante, in quell’estate a Modica di trent’anni prima, più che cercare l’amore, vuole l’amore, come un fatto proprio e unilaterale, il che poi gli comporterà inevitabili insuccessi. Le varie Maria Venera, Cecilia, Isolina ritornano alla sua memoria come sogni di gioventù, desideri di un ardore frenato dall’inconscio limite di non impegnarsi troppo, e così i suoi innamoramenti non vengono corrisposti, diventano una sorta di temporanee infatuazioni, che non cerca di concretizzare e, anche quando, lo fa, è già più che certo dell’inevitabile rifiuto. Si tratta di un personaggio che arranca fra le donne con l’inconsapevole presupposto che l’amore, quello vero, e non quindi il convegno carnale, è un attimo fuggente, una chimera da inseguire per avere poi, più avanti negli anni, un ricordo che, sbiadito, magari anche in parte inventato, consenta di fare un bilancio non del tutto in perdita.
Bufalino si dimostra un maestro in questo difficile compito, intervenendo con sottile ironia, proprio quando può sembrare che la narrazione gli stia sfuggendo di mano, miscelando abilmente un’atmosfera e un’ambientazione che sono palpabili, intercalando qualche sciabolata sui costumi con riflessioni che non sono mai fuori tema.
Inoltre, quello che stupisce e affascina è lo stile, quasi arabescato, uno sviluppo di parole dotate di armonia che costituiscono una preziosa cornice – di cui più sopra fornisco un esempio – a una vicenda di per sé quanto mai avvincente. La cultura di Bufalino era senza dubbio assai elevata, ma l’uso che lui ne fa in questo libro non è mai fine a se stesso, non è ostentato, anzi appare più che mai funzionale alla trama, conferendo all’opera un ulteriore elemento di pregio.
A questo punto mi sembra quasi superfluo aggiungere che ne caldeggio vivamente la lettura.