Agnese, ancora
Letteratura italiana
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Sul filo dei ricordi
Il filo dei ricordi, soprattutto quelli dell’infanzia, sempre aggrovigliato tende a dipanarsi quando arriva il momento delle grandi riflessioni e allora si va a cercare nel passato per comprendere soprattutto il presente.
Giovanni Buzi, dopo il fortunato Agnese (Tabula Fati, 2005), prova di nuovo investigare sul tempo trascorso con questo Agnese, ancora, naturale seguito del precedente, da cui sarebbe stato troppo pretendere originalità e freschezza, immancabilmente meno evidenti quando con altro testo si vuole dare continuità a un’idea creativa.
Tuttavia l’abilità dell’autore riesce egualmente a tener vivo l’interesse in una serie di episodi, di affreschi e anche di ritratti di un periodo di cui non rammenta tutto alla perfezione, supplendo con la fantasia alla carenza di memoria. Sicuramente sono spunti che emergono dalla nebbia di un tempo sempre più lontano, intorno ai quali riesce a costruire vicende convincenti, anche se sovente mancanti di quel pathos proprio di un’esperienza diretta.
E’ lì che si riscontra la capacità del narratore, nell’imbastire trame da un quasi nulla e in cui tutti possano anche ritrovarsi.
Così assistiamo al cicaleccio pomeridiano delle amiche della madre, ai tentativi di far maritare una di loro, agli intermezzi gustosi, una sorta di contrappunto, frutto della personalità del nonno, anziano, sulla poltrona a rotelle, che poco parla tanto da sembrare assente, ma invece è ben presente.
Senza un apparente ordine di continuità si susseguono dei brani, per lo più brevi, che riescono a ricreare un ambiente di quasi mezzo secolo fa, in un’Italia rialzatasi dalle rovine della guerra e in pieno boom economico.
A volte queste storie sono interdipendenti, ma più spesso no, come se la memoria, sollecitata, le facesse uscire dalla mente in ordine sparso e questo, che potrebbe sembrare un difetto, finisce invece per snellire tutto il corpo dell’opera che scorre più armoniosa, meno legata a un filo logico di cui del resto l’autore non potrebbe avere un’esperienza completa, né un ricordo dettagliato.
Resta una figura, nel silenzioso dolore della sua malattia, quell’Agnese, la madre, questa sì ben impressa dentro, tanto da rivederne l’immagine, lo sguardo, dal risentirne la voce, dal percepirne il profumo.
Questo libro è certamente un romanzo da cui tutti potranno ritrarre piacere nel leggere, ma, come il precedente, costituisce anche la fissazione su carta del sentimento di un figlio per la mamma, una specie di sacrario di un amore che il tempo non attenua.
E anche se l’emozione è giustamente contenuta, il desiderio di parlarne non viene mai meno, ma sempre sommessamente, tranne nel finale, dove però tanto è forte quanto il pudore che ha portato a scrivere queste righe: "Una cosa sola so di te, Agnese: il tuo mondo era di cartapesta, le tue pareti di carta colorata, solo i tuoi sogni erano veri, mamma.".