Accabadora
Letteratura italiana
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Un racconto che fa riflettere
Accabadora si potrebbe definire una favola dai contorni noir ambientata in una Sardegna di metà 900 molto ben caratterizzata dall’autrice. Soreni, paesino dove hanno luogo i fatti del racconto, ha i contorni tipici che potrebbero essere propri di un qualsiasi paesino del sud italia: un ecosistema chiuso in cui ciascuno dei suoi abitanti è ben inserito e svolge un ruolo, dove tutti sanno di tutti ma le apparenze devono essere mantenute perchè il pettegolezzo rappresenta ancora una sorta di controllo sociale che tutti temono. Soprattutto se è per “stupidità” a finire sulle bocche dei compaesani. Ed è proprio un fatto “stupido” (una disputa terriera finita in tragedia) a rappresentare la rottura della normalità per una famiglia molto sui generis composta da Bonaria Urrai, sarta del paese, e la sua fillus de anima Maria Listru.
Il povero Nicola Bastiù, mentre tenta di dar fuoco al campo dei confinanti, viene colpito da una fucilata ad una gamba, in seguito amputata a causa delle ferite riportate. Il suo forte temperamento e la strabordante vitalità giovanile vengono annientati dalla sua nuova condizione fisica, portandolo ad una profonda depressione. Dunque è in questo frangente che Maria scopre un segreto molto importante riguardo la sua madre acquisita, ovvero lei è l’accabadora, colei che finisce: Bonaria, colpita dalla storia del ragazzo in cui rivede il suo promesso scomparso anni addietro, decide di mettere fine alla sua vita cedendo alle sue insistenze, tradendo un pò i dogmi che la sua professione gli impone, ovvero di aiutare a compiere il destino dei morenti in assoluta accondiscendenza con la famiglia dell’infermo, che in questo caso viene tenuta all’oscuro.
La scoperta turba la giovane Maria che, presa da un atto di profonda indignazione, decide di lasciare il paese per andare a lavorare come tutrice a Torino.
Passano un paio d’anni e la ragazza si ambienta nella nuova realtà e (quasi) scopre l’amore ma una chiamata improvvisa la costringe a tornare in Sardegna: Bonaria ha avuto un ictus e non è più autosufficiente. Maria decide quindi di tornare a prendersi cura della madre adottiva. Nei due anni che seguono la situazione diventa per entrambi sempre più insostenibile e nella mente della giovane comincia a maturare l’idea di porre fine a tanta sofferenza. Con le parole in testa di Bonaria pronunciate tempo prima durante il litigio che ha portato la famiglia a separarsi, ovvero “non dire mai: di quest’acqua non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”, Maria decide di compiere l’estremo atto nei confronti della madre sofferente, atto che tanto aveva criticato in passato.
Il libro si legge tutto d’un fiato, complice uno stile asciutto ma efficace, che non annoia. I dialoghi dei protagonisti, molto ben scritti e cuciti in maniera impeccabile attorno al carattere dei vari personaggi, sono incalzanti e danno ritmo alla lettura.
Sono proprio i dialoghi a mio avviso il fulcro su cui poggia la struttura del libro perchè scritti in modo tale da indurre il lettore alla riflessione, senza che l’autrice rischi di imporre in maniera esplicita il suo pensiero. I fatti in sé sono dunque solo la cornice che dà l’opportunità ai protagonisti di poter riflettere e maturare di conseguenza le proprie idee.
Come ogni favola che si rispetti, Accabadora ha un suo insegnamento, ma sta a voi saperlo cogliere!
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Ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno
Un romanzo che ci porta diretti in una Sardegna anni ’50 ancora legata a riti e tradizioni in parte arcaici, in difficoltà nel confronto con la modernità incipiente. E’ infatti ancora in uso la pratica dei “figli dell’anima”, bambini cioè che vengono passati da una famiglia che fa fatica a sfamarli (sono spesso gli ultimi figli) a una donna sterile e che gli farà da madre, pur non essendolo da un punto di vista di legge.
"i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra"
Maria Listru, quindi, ultimogenita, viene ceduta dalla famiglia biologica a Tzia Bonaria Urrai, sarta del paese, che la alleva come figlia con l’obiettivo di assicurarle educazione, istruzione e futuro. E affetto, per quanto la società dell’epoca in quella Sardegna consentisse di esternare.
Maria cresce esattamente così, brava a scuola, bella e intelligente. E perfettamente consapevole della sua situazione di figlia-non figlia.
Nota di quando in quando strane uscite di Tzia Bonaria la notte, ma non ottiene alcun chiarimento nonostante le domande.
Scoprirà poi, dopo la morte di un ragazzo del paese rimasto con una sola gamba a seguito di un incendio appiccato per vendicare un torto, che Tzia Bonaria è l’Accabadora del paese, si occupa cioè di garantire una morte pietosa a chi la chiede perché in condizioni di estremo dolore e impossibilità a proseguire oltre una terribile agonia.
Si tratta di un’opera di carità, non di un omicidio. La morte e la mano che la porta possono essere pietose.
Quando Maria lo scoprirà non lo accetterà, perché “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno”, e questa è una di quelle che non si fanno.
Con l’aiuto della sua insegnante lascia la Sardegna e va a lavorare in una casa privata a Torino. Quando però riceve una lettera che la avvisa che Tzia Bonaria è gravemente ammalata, dopo aver anche perso il lavoro a Torino ritorna in Sardegna e assiste la madre adottiva fino all’ultimo.
Capirà quindi in quel lungo periodo il senso di ciò che fa l’Accabadora, capirà che la morte può essere un gesto di pietà dovuto a chi soffre e lo desidera.
E aveva quindi ragione Tzia Bonaria a dirle “Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”
Il romanzo mette sul piatto diversi temi, primo tra tutti quello dell’eutanasia e delle sua implicazioni, tema di stretta attualità. Non faccio qui riflessioni in merito, non sarebbe giusto trattandosi di un tema etico sul quale possono esistere sensibilità diverse. La Murgia spiega e declina bene l’argomento in differenti sue possibili accezioni e non occorre aggiungere altro. Certe sue frasi, anche quando decide di negare una morte perche non sarebbe opera di carità, dicono e insegnano moltissimo, o quantomeno dovrebbero far riflettere. Perché, questo vuol dirci la Murgia, per giudicare occorre comprendere.
Benché non tanto approfondito (non era il tema principale) c’è poi il tema dell’adozione. Maria sa di non essere figlia di Tzia Bonaria, eppure la sente ormai come una madre, colei con la quale confrontarsi sui temi importanti della vita, alla quale si ritorna e per la quale si è importanti. Non gli ultimi, come si è invece sempre sentita Maria.
La scrittura è densa, nessuna parola è usata a caso, alcune aggiungono particolare pathos alla storia.
L’ambientazione è molto bella, la ricostruzione di una Sicilia arretrata e che si forza di progredire è molto ben fatta e ce la sentiamo addosso mentre leggiamo. Non c’è particolare descrittivo o atmosfera che non sia curato, ho apprezzato in particolare quella del lutto.
Cosa non mi è piaciuto? Sicuramente la parte che Maria trascorre in Piemonte. Necessaria ai fini della storia non riesce a mio parere a saldarsi bene al resto, rimane qualcosa che il lettore vorrebbe si concludesse al più presto per tornare alla storia che sente come “vera”, quella in Sardegna. Non so come, ma forse si sarebbe potuta trovare una diversa soluzione.
Inoltre, nonostante sia al centro della storia, il lettore non riesce a sentirsi davvero accanto e solidale alla figura di Maria che ci rimane sempre un po’ staccata da chi lette, non si riesce ad empatizzare con lei. Fredda, forse, non lo so. Di fronte al suo amico di infanzia Andrea Bastiu che, pur nella disperazione per la morte del fratello, le dichiara il suo amore, Maria non riesce ad essere davvero lì con reazioni umane, è invece fredda e compassata come in un rito imposto.
Di fatto il lettore di sente molto più vicino a Tzia Bonaria, vera protagonista pur nella sua apparente freddezza. Ma è una freddezza tutta esteriore: Bonaria è una donna di immensa profondità, sente cosa è giusto e cosa non lo è aldilà di qualsiasi precetto, è comunque attraversata da mille dubbi ma avverte la pietas e agisce di conseguenza.
Ho letto questo libro in due giorni, la storia, salvo la parentesi torinese, è appassionante. Non perfetta, certo, di sicuro una bella storia che chi ha a cuore in modo aperto il tema del fine vita può leggere.
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Non dire mai...
Maria è bambina, graziata dalla giovinezza che le concede di non piegarsi al peso delle parole altrui.
Così, abituata a una madre che di fronte alle altre comari lamenta l’arrivo della Quarta e dello sforzo ulteriore nella situazione sua disgraziata di vedova. Si adatta a quell’essere chiamata con un numero ordinale, invece che col nome proprio. O, tutt’al più, l’Ultima.
Viste le difficoltà di mettere un tozzo di pane nel piatto, Anna Teresa Listru cede Maria in adozione a Tzia Bonaria, che accoglie amorevolmente la piccola nella sua casa vuota.
Accabadora è colei che aiuta a raggiungere la fine, in una terra pervasa di suggestione e superstizioni è lecito e tacitamente convenuto quel che altrove è null’altro che delitto.
Ciò che insegnerà l’accabadora a Maria sarà riconoscere la differenza tra pietà e complicità, alla fine di un percorso in cui due anime nate sole, strette in un legame affettivo sempre più solido, convoleranno al loro naturale destino: la vita, la morte.
Un romanzo che calza come un vecchio velluto verde e prezioso, un velo sul capo ricamato da merletti in tombolo nero, narrando di una Sardegna di terra e sudore, di fatture e benedizioni, di uomini e donne che sono isola ancora più dell’isola stessa, protetti da una legge che non sta né in cielo né in terra né sui testi giuridici.
Spicca la narrativa di Michela Murgia per il realismo attribuito ai personaggi in una scenografia perfettamente affrescata, aspra la vita e aspra la gente, scavando tra le pietre un cuore satollo di nettare come quegli acini d’uva rossa e dolce, nella vigna dei Bastìu.
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Diritto e Pietas
Un romanzo molto molto bello “Accabadora” di Michela Murgia. Una prosa asciutta, spesso aspra, direi, come certi meravigliosi paesaggi selvaggi della terra di Sardegna. Personaggi che evocano nei particolari il carattere e le usanze degli abitanti di quei luoghi che sopravvivono nel non facile tentativo di preservare l’orgoglio della propria cultura.
Due donne sono al centro di questo racconto, Tzia Bonaria e Maria, la vecchia generazione e la nuova che vivono come madre e figlia. È Maria, l’ultima figlia giunta per caso in una famiglia povera, la fill’e anima di Bonaria e come ogni fillus de anima nasce una seconda volta a una nuova vita. Amata sia pure con la durezza di cui è capace una vecchia sarta abituata ad affrontare tutte le difficoltà della vita senza cedere alla debolezza, Maria è intelligente e studiosa. Sente tuttavia che qualcosa di misterioso circonda la persona di Tzia Bonaria, non sa spiegarsi certe sue uscite notturne che precedono sempre la morte di qualche conoscente o amico in fin di vita. Il mistero si dileguerà dinanzi agli occhi di Maria, quando dovrà affrontare il dolore per la morte dell’amico Nicola Bastiu mai ripresosi dopo l’amputazione di un arto dovuta a una cancrena seguita a un colpo di pistola che lo aveva raggiunto in una notte in cui cercava di incendiare il campo del vicino che aveva osato spostare il suo confine a danno della sua proprietà.
Maria non riesce ad accettare questo ruolo di “accabadora” di Tzia Bonaria. Mettere fine alla vita di un essere umano è terribile e inaccettabile per lei. E certo ci vorrà del tempo e ancora tanto dolore perché possa capirne tutto il significato.
Un tema assai complesso questo che la Murgia affronta nel suo romanzo, un tema che implica considerazioni etiche e che riguarda il dibattito attuale sull’ammissibilità giuridica dell’eutanasia.
È il personaggio stesso di Tzia Bonaria che testimonia quanto sofferta sia la sua decisione di agevolare il trapasso di chi soffre, di chi in effetti sopravvive solo per un accanimento terapeutico. Ma è proprio in contrapposizione a questi casi che si pone il destino di Nicola Bastiu, il quale desidera la morte solo perché non ha la forza e il coraggio di affrontare una vita da disabile, in pieno possesso delle sue facoltà intellettive e di abilità fisiche parzialmente ridotte. È qui il punto centrale del romanzo. Il dibattito sulla legittimità del fine vita dovrebbe sempre basarsi su una valutazione globale dello stato in cui si trova chi chiede l’eutanasia o un suicidio assistito. Difficile condannare o assolvere. Ogni caso è singolare. Una legge rigida e universale non può risolvere ogni problema. Maria capisce tutto ciò quando si trova al capezzale di Tzia Bonaria morente e ricorda le sue parole: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo.” Il destino si è compiuto. La giustizia non può mai ignorare il diritto a vivere e morire con dignità, ma può essere intransigente con chi potrebbe rendere dignitosa una vita dimezzata.
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Il fine giustifica i mezzi?
La Murgia affronta con uno stile molto particolare e personale un tema moderno ma evidentemente presente nei tempi addietro senza tutto il dibattito etico sulla giustezza dell’atto che invece contraddistingue le pagine di oggi. Si sa che nel passato anche recente alcune attitudini o comportamenti che erano socialmente accettate più o meno in maniera esposta, nei tempi moderni suscitano dibattito ed indignazione; è il risultato del progresso e dello sviluppo, chiamiamolo culturale, della nostra società. Oggi farebbe senz’altro specie pensare ad una donna che si raggira di notte chiamata dai familiari di un malato terminale a fare quello che non tutti avrebbero il coraggio di fare, ossia “finire” il povero essere umano ed aiutarlo a traghettare verso l’altro mondo; la nostra accabadora (dal termine spagnolo acabar “terminare”) utilizza un cuscino plausibilmente, ma se si legge la storia sarda di queste accabadore esistevano (o esistono?) strumenti anche più macabri. Ma alla fine, a parte il mezzo, qual è la differenza con il rivolgersi ad una clinica svizzera? Il confine tra il bene e il male è fine; ovviamente mi distacco totalmente dalla volontà di esprimere un giudizio, certo è che Maria, fill’e anima della nostra Bonaria fa fatica a comprendere un po’ per la sua giovane età un po’ per il senso di tradimento che prova. Una storia che parte da qui ma che poi si evolve in tutt’altro modo che non mi aspettavo, perché ero convinta man mano che proseguivo nella lettura che la Murgia volesse approfondire il tema, invece rimane in superficie, si limita al racconto dei fatti con un certo distacco, prova alla fine a ricongiungere il quadro ma a mio parere non ci riesce. Un altro tema bellissimo che affronta è proprio la fill’e anima, già il termine di per se evoca una vicinanza non materiale e fisica, quindi non figlia biologica ma figlia dell’anima, un concetto bellissimo e romantico; forse vale doppio, la scelta di avere un figlio supera anche qui il mezzo per ottenerlo che sia fisico e naturale, che sia acquisendo una figlia/o di un terzo per dare a lei/lui una seconda possibilità hanno lo stesso valore se non maggiore nel secondo caso; e nella nostra storia senza dubbio maggiore, la nostra Bonaria sceglie proprio lei , non vuole un’altra, ma quella bimba che sente il bisogno di aiutare. Un’esaltazione dell’amore filiale!
Lo stile della Murgia è davvero interessante, le tematiche impegnative ma non abbastanza approfondite; avrebbe potuto dilungarsi molto di più, una storia troppo breve per la profondità dei concetti che lei stessa ha voluto prendere in esame. Mi aspettavo qualcosa di più, ma sicuramente leggerò altro dell’autrice.
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Promette e non mantiene
Il romanzo parte bene, forse con qualche tecnicismo di troppo ma con ingredienti letterari sapientemente dosati che danno colore e spessore ad una trama abbastanza originale, farcita di espressioni idiomatiche regionali dal sapore arcaico.
A un certo punto, però, qualcosa si sgonfia e la banalità prende il sopravvento: frasi trite come “lo guardò stupita” e considerazioni della stessa scrittrice, che alla fine di un capitolo tira in modo dilettantesco le somme guidando il lettore verso riflessioni che dovrebbero sorgere spontaneamente, guastano tutto il buono della narrazione.
Di alcuni capitoli, poi, che non si amalgamano bene al resto della trama, si sarebbe potuto anche fare a meno.
E mentre non si è più tanto sicuri che certe frasi un po’ arzigogolate significhino realmente qualcosa, prevale la sensazione di leggere un romanzo d’appendice con morale e buoni sentimenti annessi.
Il potenziale politicamente scorretto, che avrebbe fatto la differenza, resta sostanzialmente inespresso, la ribelle sensualità della protagonista rientra nei ranghi e la verve delle prime pagine sparisce.
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- no
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Tradizioni e superstizioni
Proprio in questi giorni si sta discutendo in Parlamento la legge sul fine vita, questione che genera fra qualcuno molte perplessità, eppure le tradizioni popolari (come quella riportata in questo libro) ci insegnano che anche l'eutanasia è una pratica che in qualche modo è sempre esistita.
Il romanzo è davvero molto evocativo: sembra davvero di stare negli anni '50 in un paesino sperduto in Sardegna, in un'atmosfera che a tratti è misteriosa e a tratti invece molto familiare. Maria, ultima nata in una famiglia povera, viene data volentier in adozione dalla madre come fill'e anima a una donna anziana e sola. Maria con Tzia Bonaria Urrai crescerà in un clima completamente diverso da quello che aveva a casa sua: affetto da parte della donna, rispetto ma anche cultura (Maria ha la possibilità di studiare e imparerà a fare la sarta) ma allo stesso tempo rigore da parte della donna, che nasconderà una parte di sé alla figlia adottiva. Bonaria Urrai è infatti un'accabadora, una donna che interviene per aiutare il destino a compiersi: portare una fine benevola a una vita divenuta troppo sofferente. Quando Maria scoprirà questa cosa, il loro rapporto si incrinerà ma ci sarà sempre un filo a tenerle legate fino all'ultimo.
Il romanzo è molto scorrevole, lo stile è molto elegante ma allo stesso tempo semplice. Leggendo questo libro non ho faticato a immaginarmi in una Sardegna dell'epoca tra folklore e tradizioni (o superstizioni) popolari. Anche nella descrizione dei personaggi o delle vicende, si lascia volutamente sempre un non detto che crea un alone di mistero e che invita il lettore a immaginare ma anche a riflettere.
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Ci sono cose che si sanno e basta, e le prove sono
Anni ’50, Soreni, Sardegna. Maria Listru, figlia di Anna Teresa Listru, è una fill’e anima. Quarta e ultima nata, viene adottata da Tzia Bonaria Urrai, nubile benestante e sarta di facciata. Sono i lustri in cui nell’entroterra sardo è diffusa la pratica del “fillus de anima” ovvero di quell’accordo ingenerato tra privati per cui si manifesta l’affidamento volontario e consensuale di un figlio da parte dei genitori a terze persone. La piccola si ritrova così in una nuova casa, con nuove regole perché quelle della madre adottiva sono legge di Dio e come tali vanno rispettate, e con uno spazio tutto per sé. L’anziana, resasi conto delle condizioni economiche e affettive in cui la giovane è vissuta, inizia un vero e proprio lavoro di ricostruzione, un lavoro atto a creare prima di tutto un rapporto di amore, di rispetto e di famiglia.
E quello che si instaura tra le due, è un legame fortissimo. Bonaria dona alla bambina istruzione, saggezza, intelligenza, severità, affetto e generosità, tanto che questa ha tutti gli strumenti per crescere sana e responsabile, ha tutti gli strumenti per crescere nella consapevolezza che alcune cose possono essere fatte, mentre altre, no. Questi concetti, purtroppo, non sempre e non necessariamente coincidono con l’idea filosofica del giusto e dello sbagliato.
Ma l’opera non si esaurisce con quanto sino ad ora esposto. Attorno alla figura di Bonaria si cela il mistero, il segreto. E’ oggetto e destinataria di domande, domande alle quali non può essere data risposta, domande, ancora, che semplicemente non possono essere poste. Maria si impegna a mantenere il silenzio, a domare la curiosità. Non sa spiegarsi il perché di quelle improvvise uscite notturne, ma sa anche che l’anziana è stata categorica in merito. Quando scoprirà quel che davvero si cela dietro la sua figura, quel che queste sortite notturne hanno ad oggetto, resterà destabilizzata e si staccherà da quel ventre materno che l’ha tirata sù per ritornarvi soltanto dopo aver maturato, soltanto quando alcuna parola è più necessaria perché ogni silenzio vale più di ogni verbo espresso.
Caratterizzato da un linguaggio curato, fluente, quasi magico, uno stile narrativo capace di far rivivere le tradizioni, le superstizioni e le credenze della cultura sarda, “Accabadora” è un romanzo che si auto conclude in appena una giornata ma che lascia il segno. L’intero suo scorrimento è caratterizzato da quell’alone del mito, della fiaba mixato alla trattazione di argomenti attuali ed infine, alla dimensione eterna. Quest’ultima è quella che parla dell’orgoglio, dei doveri di una figlia verso la madre e della madre verso la figlia, della vita, del significato che le attribuiamo, di quando questa perde quei connotati che siamo soliti riconoscere quali elementi giustificativi di dignità e di vivere.
«Perché Arrafiei era andato sulla neve del Piave con scarpe leggere che non servivano, e tu invece devi essere pronta. Italia o non Italia, tu dalle guerre devi tornare, figlia mia»
«Ci sono cose che si sanno e basta, e le prove sono solo conferma»
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Nascere, vivere e morire.
Nella Sardegna al trapasso tra il mondo contadino e la società dei costumi moderni si dipana una storia in cui le protagoniste sono donne. Un’accabadora, colei che finisce, l’ultima madre che accompagna i moribondi al loro destino con un gesto di pietà e sollievo. Una bambina, poi ragazza e donna, che dall’accabadora viene adottata, salvata da un destino di indigenza e con il beneplacito della sua madre naturale.
È un universo di valori lontani dalle prospettive moderne, valori che popolano l’orizzonte duro di una società abituata a far fronte alla miseria.
Su questo sfondo si svolge una vicenda che assume i toni di un romanzo di formazione. Un romanzo che parla di un modo tanto diverso dal nostro di concepire la famiglia, la vita e la morte, i ruolo dei sessi, ma al contempo capace di mostrarlo naturale e condivisibile: se una donna non sa di che sfamare il proprio figlio è normale che un’altra lo prenda come proprio; se alle sofferenze di un malato non c’è più rimedio è naturale aiutarlo a mettervi fine.
Lineare l’intreccio, da potersi quasi dire povero, ma sostenuto da uno stile magistrale, evocativo, capace di gonfiare il significato delle parole. Non manca quel tentativo di ritrovare una lingua primitiva, ancestrale, che lasci trasparire i toni e i suoni di un mondo lontano, sì, ma la cui memoria, con qualche sforzo, può ancora essere ritrovata.
Da leggere senza dubbio.
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Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo
Maria ha sei anni, è la quarta ed ultima figlia indesiderata di una vedova disattenta e scostante. Vive a Soreni, un minuscolo paese dell’entroterra sardo.
Il romanzo è ambientato in un periodo storico nel quale, in certe località, era diffusa la pratica del “fillus de anima”, un accordo privato che prevedeva l’affidamento volontario e consensuale di un figlio ad altre persone.
Maria viene “adottata” da Tzia Bonaria Urrai, l’anziana sarta del paese, una misteriosa nubile che tutti sembrano osservare con rispetto e timore.
Tra le due nasce un legame forte. Bonaria dosa saggezza, affetto e severità, permettendo alla bambina di crescere sana e responsabile, consapevole che ci sono cose che possono essere fatte, limiti da non superare e domande che non devono essere poste. Per questo Maria resta in silenzio, soffoca la curiosità, quando scopre che a notte fonda alcune persone bussano alla porta di Bonaria e vede la madre adottiva uscire avvolta nel suo solito vestito nero. Nella piccola comunità di Soreni tutti sanno tutto di tutti ed il conteggio delle dicerie ha raggiunto cifre incalcolabili, ma una tacita consapevolezza impone la presenza di segreti che devono restare tali, per non compromettere la convivenza comune
Un aspetto che colpisce è l’ambivalenza temporale del romanzo. L’attaccamento alle antiche tradizioni, la superstizione spirituale, la descrizione di una natura onnipotente che sovrasta l’essere umano, donano al testo una dimensione arcaica, mitica, fiabesca, collocabile nel secondo dopoguerra.
Allo stesso tempo Michela Murgia tratta argomenti complessi ed attuali, come l’eutanasia, periodicamente alla ribalta delle cronache nazionali.
Con altrettanta curiosità ho notato la disparità caratteriale che divide le figure femminili da quelle maschili.
“Accabadora” è infatti un romanzo incentrato sull’universo femminile. La parte attiva della trama, le decisioni, le azioni compiute, hanno come uniche protagoniste le donne.
Gli uomini, sia per motivi caratteriali che fisici o psicologici, si trovano tutti in una condizione passiva, di reazione più che di azione.
Ho apprezzato meno la parte che precede il finale, un cambiamento di scenario fin troppo sbrigativo e che aggiunge un’ulteriore, eccessiva, tematica importante ad un testo che fino a quel momento si regge su un equilibrio perfetto.
Ma questo aspetto non scalfisce particolarmente il valore di un romanzo importante, maturo e ben scritto, vincitore del Premio Campiello nel 2010.
“Le colpe, come le persone, iniziano ad esistere quando qualcuno se ne accorge”.