A tua immagine e dissomiglianza
Letteratura italiana
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IL CERCHIO DELLA VITA
“Dio creò l'uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò.”
Genesi 1,27
Un Lui crea con una Lei, dalla notte dei tempi, un altro uomo: maschio o femmina. Un essere vivente e già in nuce morente, chiamato all’esistenza per un arco temporale circoscritto ma non definito: l’incognita più evidente della condizione chiamata vita. TEMPO. L’ essere nasce, del tutto inconsapevole; e l’essere, mentre il suo sistema fisiologico muta nel processo chiamato crescita, si inserisce in un contesto umano fatto di relazioni e si adatta. Inizialmente non dotato di categorie mentali utili a fargli decifrare l’ignoto che man mano si rivela, costruisce a sua volta categorie conoscitive e schemi comportamentali e assume, di riflesso, per il processo evidente dell’imitazione, quelli delle persone che gli sono più vicine. GENITORI. Esseri imperfetti che hanno già attraversato le fasi primordiali, esseri apparentemente finiti e conclusi in quanto adulti. Esseri che, in un processo di replicazione egoistica, bramano di scorgere nella loro genìa la propria unicità. CORTO CIRCUITO. Ogni essere umano è essere a sé: può riflettere l’immagine altrui, può essere cesellato finemente ma ha da fare, nella sua esistenza, il necessario processo di affrancamento da chi l’ ha preceduto, facendo tesoro degli errori altrui ma anche delle esperienze passate che non necessariamente portano solo, anche nelle avversità più buie, male o negatività. DOLORE. Necessario compagno dell’esistenza, passaporto per il superamento generazionale. RICONOSCENZA. Necessaria anch’essa per cogliere il dono della vita e cercare di spenderlo nel migliore dei modi possibili.
Un autore scrive, chiediamoci il perché.
Daniele Sannipoli è un giovane studente di medicina, una mente brillante, un ragazzo che si è sempre distinto per la passione con cui affronta il sapere. Un giovane uomo che sarà medico e che ha la sensibilità necessaria a sostenerlo in questa delicata professione; la lettura e la scrittura lo affiancano nel suo quotidiano e lo dotano di strumenti utili a sostenere gli uomini che un domani saranno i suoi pazienti. Un ragazzo di oggi che ha saputo, grazie al suo talento, regalarci lo stupore dell’universo emotivo di un giovane, restituendoci, a distanza di anni, i medesimi dubbi, le stesse fascinazioni, i dilemmi che ci hanno accompagnati guardando in viso i nostri genitori.
Perché ha scritto? Perché è un essere umano e agli altri esseri umani tende in un consorzio che ci unisce tutti nell’universalità della nostra condizione.
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Camus
Nessuno sopravvive da solo
Mi sono presa qualche giorno di tempo per scrivere le mie impressioni sul libro d’esordio del giovane Daniele Sannipoli. Volevo dedicarci il giusto tempo, perché nonostante sia un romanzo breve, che si legge relativamente in poco tempo, è effettivamente denso, di immagini, di richiami, di impressioni: richiede la giusta attenzione e merita una recensione onesta e ponderata.
Si rimane colpiti dalla sua sensibilità e dal suo stile. Subito.
Sannipoli è uno studente in medicina (troverete alla fine del libro la nota bibliografica che lo riguarda ed anche quella dell’artista Giorgia Gigì, che ha realizzato la bellissima copertina) con la passione e il talento per la narrativa.
Ho immediatamente pensato, con ammirazione, che nonostante la giovane età , egli possieda una comprensione profonda dell’animo umano, messo a dura prova dalle difficoltà della vita.
L’opera inizia con il monologo di una cellula che muore, consapevole di recare con sè un DNA che, arricchito della memoria delle precedenti generazioni, sarà passato a nuove cellule, ad un nuovo corpo . Ed è così che il miracolo della vita si ripete e si rinnova. Nuove coppie formate da un Lui ed una Lei, non specificati, si confrontano, passano attraverso incomprensioni, difficoltà di comunicazione.
Tematiche delicate: il suicidio di un genitore, la difficoltà nell’abituarsi alla perdita, l’alcolismo, il senso di inadeguatezza che sottende a ogni storia che compone il quadro del romanzo. E come un fotografo che mescola sapientemente le immagini delle scene più rappresentative per farne un collage, Sannipoli lancia dalla sua penna, già consapevole, immagini e sequenze narrative che si sovrappongono, spezzando il ritmo narrativo per cui il lettore viene catapultato ora in una cucina, nel ricordo di una nonna che impasta il pane, ora nella sala d’attesa di un ospedale, ora in una chiesa davanti ad una bara, ora al cospetto di un giudice. Generazioni di coppie Lui/Lei si succedono. Il ritmo narrativo è coinvolgente.
Una tecnica che costringe il lettore ad essere sempre attento, sempre vigile.
Uno stile che si muove tra scelte ben precise: una prosa fluida, ricca di immagini, di cultura scientifica e filosofica. Una penna duttilissima, che sa lasciare le immagini di luce per farsi sottile e stridente, senza alcuna paura e senza esitazione. Richiami a Camus, a Montale per i passaggi più aspri, per le scelte di parole più “scabre ed essenziali” che graffiano talvolta la nostra sensibilità.
Un giovane scrittore che sa calarsi alla perfezione delle scene del dolore più pazzesco, quello della perdita di un genitore, senza però farsi paranoico.
Piccoli, brevi colpi di penna. Penetranti quanto basta.
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FINCHE' C'E' DOLORE C'E' SPERANZA
“In questo sottile momento in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. […] Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.” (Albert Camus: “Il mito di Sisifo”)
“Spesso il male di vivere ho incontrato”, scriveva Eugenio Montale in “Ossi di seppia”. Di “male di vivere”, di dolore, di sofferenza (malattie terminali, suicidi, disagi mentali) è pieno questo pregevolissimo romanzo d’esordio, e stupisce assai che a raccontarlo sia uno scrittore di soli ventitré anni, un’età in cui di solito – ed erroneamente – si pensa ci sia posto solo per l’amore o l’amicizia o l’avventura. E’ un libro da maneggiare con estrema cautela, “A tua immagine e dissomiglianza”, un libro in apparenza talmente fragile e delicato che si ha paura che, come un fiore raro ed esotico, possa appassirci improvvisamente tra le dita. Daniele Sannipoli ci conduce in recessi remoti e profondi dell’animo umano, in anfratti bui e disagevoli dove la luce scarseggia e dove i personaggi (dei Lui e delle Lei senza nome, quasi a rappresentare metonimicamente l’intero genere umano) rischiano quasi di morire per mancanza di ossigeno. Ma poi, scorrendo una pagina dopo l’altra, ci si accorge che “A tua immagine e dissomiglianza” è un’opera solida e forte, innervata com’è da uno stile raffinato e maturo e da riferimenti culturali (Camus, certo, ma anche Cioran, il Kafka de “La tana” e il Dostojevskij di “Memorie del sottosuolo”) che la puntellano e la alimentano in continuazione. Negli esordi letterari gli autori vogliono comprensibilmente mettere dentro tutto il loro mondo, tutte le loro esperienze, tutte le loro conoscenze, e così spesso finiscono per esagerare, per uscire fuori dagli argini, per peccare di sovrabbondanza. Sannipoli è riuscito invece nell’intento contrario, cioè scrivere un romanzo di grande, estrema condensazione. E’ come se la sua storia fosse stata passata al vaglio di numerosi filtri, che l’avessero via via prosciugata, essenzializzata, lasciando ad ogni livello un concentrato sempre più denso, più ristretto. Per mezzo di un intelligente uso dell’ellissi, che permette di far scorrere in avanti il tempo della storia attraverso i decenni e le generazioni (il Lui bambino dell’inizio diventa nonno al termine del romanzo), e dell’analessi (i ricordi di infanzia che riemergono dal subconscio), e grazie alla scelta contestuale di lasciare il mondo esterno fuori della cornice, alla fine ciò che resta sono pagine di esacerbata perfezione formale, pepite che l’autore, come un cercatore d’oro, ha setacciato con cura dopo aver eliminato acqua, sabbia e impurità, e che il lettore deve interpretare in un non facile ma appassionante lavoro di esegesi.
Al centro di tutto, ad assillare i pensieri dei protagonisti, c’è l’eterno interrogativo sul senso della vita. La percezione della mancanza di uno scopo, dell’inesistenza (o, peggio, del silenzio) di un’entità trascendente, è un fardello talmente gravoso da far vacillare il loro equilibrio mentale e rischiare di gettarli nella disperazione più totale. Se le donne del romanzo si rifugiano nella pratica di un solidarismo, di stampo leopardiano assai più che religioso, che è volontà disperata e faticosa di redimere la sofferenza del creato, a volte soccombendo esauste e inaridite (come la madre di Lui, “incapace di frapporre un diaframma tra se stessa e il mondo”), gli uomini si ripiegano su se stessi, nell’arrovellarsi inesausto del pensiero, in un assillo di perfezionismo e di orgogliosa e solipsistica indipendenza destinato fatalmente a scontrarsi con la dura e crudele realtà. Il fatto è che i personaggi di “A tua immagine e dissomiglianza” non lottano solo con la vita, ma devono fare i conti anche con il proprio passato. Il legame con le generazioni che li hanno preceduti è infatti una pania che ostacola i loro sforzi di autorealizzazione: da una parte c’è la volontà di recidere questo vincolo indesiderato, dall’altra il desiderio opposto di far rivivere chi non c’è più attraverso il ricordo. Entrambi i tentativi sono destinati a fallire miseramente, perché “come non si sfugge alla fede diventando atei, così non si diventa liberi sforzandosi di essere una nemesi”, cercando cioè di essere il contrario dei propri padri (“perché nell’opposto ci sono tante catene quante nel simile”); d’altro canto l’oblio del tempo ricopre ogni cosa, lasciando dietro di sé solo rimpianti e sensi di colpa (come ne “Le braci” di Sandor Marai, i personaggi di Sannipoli si sentono colpevoli per il solo fatto di essere sopravvissuti a un lutto). “A tua immagine e dissomiglianza” è un po’ come una moderna rappresentazione del mito di Edipo, dove “uccidere” il padre e “sposare” la madre conduce a ferali conseguenze. Il fatto è che l’essere umano è il campo di battaglia in cui si sfidano e si affrontano forze opposte e inconciliabili: da una parte il peso insostenibile e condizionante delle generazioni che lo hanno preceduto, dall’altra il desiderio di essere il solo artefice del proprio destino; il determinismo contro il libero arbitrio, l’eredità biologica che Richard Dawkins aveva ben evidenziato nel suo “Il gene egoista”, contro la concezione cristiana della libertà individuale. C’è una soluzione a tutto questo? Sannipoli sembra inizialmente abbandonarsi a un pessimismo autocommiseratorio senza via d’uscita. Quando Lui dice alla moglie malata: “C’è sempre una speranza”, Lei risponde: “Non per me”, e questo scambio di battute mi ha ricordato il dialogo tra Franz Kafka e Gustav Janouch, quando alla domanda del secondo se al di fuori di questo mondo che conosciamo ci fosse ancora speranza, il primo aveva risposto: “Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi”. In realtà una soluzione esiste, e l’autore la scopre addirittura nel mito del vaso di Pandora tramandato da Esiodo. Quando la donna apre incautamente il coperchio, dal recipiente fuoriescono tutti i mali del mondo, condannando il genere umano alla vecchiaia, alla malattia, al dolore, alla gelosia, alla pazzia e al vizio. Sul fondo del vaso rimane però, ineliminabile, la speranza, pronta a librarsi tra gli uomini alla successiva riapertura del contenitore. Il messaggio di Sannipoli è dunque tutt’altro che negativo e pessimistico, e lo si può leggere tra le righe del meraviglioso prologo, in cui a parlare è un’insignificante cellula in procinto di morire: la soluzione non è né nell’individuo né in un dio, ma è nella vita stessa, che è inesorabilmente destinata a scomparire eppure eternamente si ripresenta in forme sempre nuove e sorprendenti, a dimostrazione del fatto che solo attraverso la morte e il dolore la vita può continuare ad esistere e a cercare senza requie il suo cieco, ostinato e indefesso scopo nel tempo (“non ho più paura della morte, perché in questo istante, eternamente presente, ogni volta risorgo”).
“A tua immagine e dissomiglianza” è un libro che pretende molto dal lettore, che gli chiede di superare i suoi limiti per affrontare gli eterni interrogativi della vita e della morte. E’ un libro che, però, dà anche molto al lettore. E’ raro infatti trovare in un romanzo (ancor di più in un romanzo italiano, scritto poi da un giovanissimo esordiente) una scrittura così sapientemente elegante ed elaborata senza essere estetizzante, sempre preziosa e mai banale persino nelle parti in cui l’ispirazione magari fatica un po’ a reggere il passo delle ambizioni filosofiche dell’opera, una scrittura dall’aggettivazione ricca ma mai ridondante, dal ricorso parco ma efficace a figure retoriche come l’ossimoro (la “lontananza così prossima” che caratterizza la storia d’amore tra Lui e Lei, le “fiamme gelide” dell’inferno interiore di Lui) o la similitudine (i frammenti del biscotto sciolto nel tè che “assomigliano agli uomini in balia della vita, sfibrati e dissolti nell’affanno continuo degli eventi”), e in cui l’alternanza tra terza e prima persona è sempre motivata da esigenze diegetiche (Lui ad esempio è uno scrittore che mette costantemente per iscritto i suoi pensieri). La inusuale maturità di questo stile conduce a delle pagine di grande suggestione. Già ho citato l’incipit (a mio avviso un piccolo, virtuosistico capolavoro, che fa da cornice, insieme al capitolo finale, alla storia vera e propria), ma degni di menzione sono anche gli allucinati incubi del protagonista maschile o l’altra scena onirica del dialogo con il giudice-psicanalista (che a me ha ricordato Kafka, ma un Kafka contaminato con il senso dell’assurdo di una pièce di Pinter), o ancora le liriche scritte da Lei durante la malattia, a dimostrazione di un notevole eclettismo, che sa spaziare dalla filosofia al teatro, dalla mitologia alla poesia. “A tua immagine e dissomiglianza” è un libro il quale, se nella sua relativa brevità risulta pesante, lo è nel senso buono e necessario del termine, perché ogni buon libro deve – come dice Cioran – “avere un peso e presentarsi come una fatalità; quando lo leggiamo deve darci l’impressione che non avrebbe potuto non essere scritto”. Tale è senza ombra di dubbio il romanzo di Daniele Sannipoli, al quale non si può che augurare un radioso futuro letterario: in un panorama così asfittico, depresso e provinciale come quello della narrativa italiana contemporanea, credo che ci sia davvero bisogno di un autore di talento come lui.
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Perché il mondo non si è fermato?
«Perché sono vissuta? Non voglio morire senza una risposta. La mia vita è stata un’ingiustizia crudele, un gioco inutile. Perché io? Perché non posso essere come le mie sorelle, cellule del cuore, nate e perenni, tanto quanto la vita che sostengono, perché non posso anche io contrarmi e spingere il sangue, far vivere l’uomo a cui appartengo? Perché non posso essere un piccolo neurone, una scossa elettrica, un flusso di energia, perché non posso far parte di una rete che tutto pensa e tutto compie, nelle galassie sconfinate del cervello? Perché non posso essere che me, inutile cellula di un lembo di pelle che unisce ancora l’indice e il medio? E perché questa cellula, mia vicina sarà l’estremo difensore della materia e io, invece, appena più spostata, il futile pasto del nulla?»
Nascere, vivere, essere e morire in un percorso dell’esistenza dettato da tappe obbligate e imprescindibili ma, tuttavia soggettive, sono soltanto alcune delle tematiche che Daniele Sannipoli affronta in questo suo primo, ma affatto semplice, romanzo d’esordio.
Sin dalle prime battute, infatti, il lettore si rende conto di non trovarsi di fronte ad un elaborato con una trama lineare e dal ritmo dettato da personaggi che vengono presentati personalmente e da cui le vicende hanno luogo in un susseguirsi incatenato e intrecciato di eventi. E ciò perché protagonista indiscussa della narrazione è l’introspettività, l’io interiore, quell’io che viene messo alla prova e piegato da tutti quei dolori e quei mali che nel quotidiano si susseguono ininterrottamente. A ciò si aggiungano tutte quelle domande sul vivere e sul perché e il come vivere che ciascuno di noi, almeno una volta nel suo personale percorso, si è posto. Dubbi e interrogativi che cercano una e più risposte, che si interrogano inesorabili seppur soventemente incapaci di trovarle, quelle soluzioni.
«Annegato tra doveri e volontà, con questa vita che mi sfugge tra le mani, io non sono.»
«Ora ho capito perché non piango più. È che non mi concedo più di sbagliare.»
Voci. Voci che si uniscono, che si fondono, che urlano insieme nel silenzio più profondo. Alla ricerca, nella speranza, nel tentativo. Parole, parole, parole, parole che formano quell’intreccio, quel susseguirsi di esistenze che giungono al termine, di nuove esistenze che arrivano a nascere e ad affermarsi. Vite che si spezzano, vite che decidono di interrompersi per mano propria, vite che sono troncate da fattori esterni. Legami. Amore, famiglia, perdita. Solitudine. La paura. La soggettività. Perché ogni individuo è poliedrico, nel suo volto, nella sua psiche, perché ogni individuo è fatto di azioni e reazioni che si differenziano a seconda del confronto Dio/uomo, Padre/figlio, Madre/figlio, Compagno/Compagna, Vivere/sopravvivere a cui il protagonista è chiamato a dar suono.
Tanti i riferimenti letterari, quali quell’anima di Camus che sovente riecheggia nella penna dello scrittore e nella mente del lettore, tanti i riferimenti filosofici che reggono la struttura di questo scritto forse piccolo nella mole ma smisurato nel contenuto e nelle riflessioni che è capace di suscitare. E ha ragione Antonella Di Martino quando nella sua encomiabile prefazione invita il conoscitore ad affrontare la narrazione con «il respiro» che «deve farsi lento, per assaporare, collegare, riflettere». In quanto «il ritmo non s’impone al lettore, è l’attenzione che deve allacciare i diversi livelli di lettura, sfogliando il lessico ricercato e il periodare assorto. Le parole non sono leggere e nemmeno pesanti; ognuna possiede il suo spessore, livellato su misura».
In queste pagine l’avventuriero troverà la vita, la vita in ogni suo corollario e in ogni sua sfumatura, la vita in ogni sua conseguenza. C’è tanto di vero, tanto di concreto e chissà, forse anche di ricordo e di vero vissuto intimistico e personalissimo in “A tua immagine e dissomiglianza”, tanto che chi legge non può sottrarsi a quell’autoanalisi e a quella più recondita meditazione sul suo cammino, sul suo essere.
Una prima prova complessa, articolata, impegnativa che sorprende e non delude le aspettative e che fa ben auspicare per i futuri lavori di Sannipoli.
«Non c’è verbo che possa guarire, alleviare, placare, solo il rispetto muto per la sua anima che non c’è più. Nemmeno la morte è più sacra qui, il funerale, i fiori sarà tutta una vertigine di soldi e mani strette, il colore della bara, dei nastri, delle donazioni. […] Sarà la morte perché non riuscirò a perdonare la vita.»
«La domanda mi sorge spontanea, e non so più pensare. Il mondo non si è fermato e io non capisco perché. Eppure il rumore è stato così assordante e il silenzio, dopo, così vuoto che tutti se ne sarebbero dovuti accorgere.»
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“La speranza è l’illusione che ci mantiene in vita
Consideriamo il cristallo, come lo si trova in natura, osserviamo la sua poliedricità. Nessuna faccia è identica all’altra. Così è la psiche umana. Essa assume aspetti e caratteristiche diverse in ogni singolo individuo. È questa la prima riflessione che sorge spontanea leggendo l’impegnativo romanzo di Daniele Sannipoli “A tua immagine e dissomiglianza”. Il rapporto uomo/realtà circostante varia con il variare delle condizioni materiali e spirituali del singolo. Nessuna realtà è uguale a un’altra, nessun individuo reagisce allo stesso modo. Qui il racconto, che rivela una buona conoscenza delle dottrine filosofiche, si concentra sul confronto Dio/uomo, Padre/figlio, sulla frustrante ricerca di una perfezione che avvicini il soggetto al modello o di una dissomiglianza che da esso lo allontani. Ed è alla parola che Sannipoli affida il suo pensiero, che si materializza in una potente capacità espressiva.
Il dolore è una costante nella narrazione, il dolore da affrontare, da gestire, da annullare, come costante è la consapevolezza che la cessazione di ogni dolore può coincidere solo con la morte. Eppure in questa cosciente analisi del mondo problematico in cui si dibatte l’individuo, c’è ancora posto per l’amore e per la speranza e per una vita che rinasce. Non a caso il primo capitolo è affidato alla voce di una cellula, la struttura più piccola di un organismo vivente che pronuncia queste parole: “Non ho più paura della morte, perché in questo istante, eternamente presente, ogni volta risorgo.”
Splendido il paragrafo che chiude il romanzo:
“E’ del colore dell’alba il mare stasera. Il morso del sale sulla pelle, la sabbia incrostata sulla pianta dei piedi, il bagno d’indaco e rosa tra le dita del cielo. Non c’è separazione tra l’orizzonte dell’acqua e l’altezza della luna, lo spazio collassato nel ceruleo eterno della fine. Il lucore tenue del tempo è durato lo spazio di un amen. Già non sono più corpo, risalgo i fondali del mare, schiuma sulle onde in un equoreo orizzonte. Plancton primordiale, galleggio, come un corpo morto, nel diaframma espanso di un respiro e mi libro, leggero, nell’aria. Sono la salsedine che riveste i capelli, desquama la pelle, sono una molecola d’acqua che nutre una pianta, inane germoglio di arbusti secolari, millenari, inabissati nel verdazzurro quieto di abissi profondissimi. Nudo e cristallino, vegetale e minerale, consumato dalla fiamma della vita, fossilizzo, bianco e calcareo, nella tiepida aria che soffia su un campo di grano. Sacro e primordiale, soffio via silenzioso. Non ho rimpianti, non ho rimorsi, non spero nella vita eterna, sono una preghiera della terra, che torna alla terra.
Muoio e sono in pace.”
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Le leggi del tempo
La vita è un percorso segnato da tappe obbligate, che si snoda in strade differenti: questo romanzo sembra iniziare in senso inverso, con una fine, che si rivela una genesi anomala dal retrogusto amaro, che sostiene un ritmo contorto ma appassionante, privo di fluidità ma denso di stimoli.
La trama rivela subito la sua complessità introversa, che si allarga nel tempo, oltrepassando i limiti di una singola generazione. L’intreccio è sostenuto da personaggi dal carattere definito dalle loro parole, da visioni che si incontrano e danno origine a nuove vite e nuovi significati, da opposti che si scontrano per costruire. Il ritmo si avvolge a spirale su vite che sembrano prive di superfici, esistenze poco carnali che si dibattono nei loro quesiti, nelle loro paure contrastanti che si esprimono in tesi e antitesi complesse. Su tutto incombono costantemente la morte, che sbarra la strada e offre una via di uscita, la speranza, che imprigiona insieme vita e dolore, e l’amore, un’incognita che affonda le radici nel desiderio.
Il romanzo narra la storia di una famiglia che si snoda per più di una generazioni, un percorso accidentato dove la ripetizione è vincolo e sostegno, dove il dubbio sostiene la tenacia, dove la luce illumina e gela, incoraggia e tortura. Una storia che disorienta, anche se forse non c’è nulla di nuovo, in fondo: Lui e Lei, una ferita nella memoria da guarire, un passato su cui riscrivere, una nuova volontà da costruire. Lui e Lei, una storia antica, con infinite possibilità. La tragedia tende a ripetersi, tuttavia l’amore suggerisce nuove strade che pur non annientando il dolore e la morte nutrono il desiderio, “nonostante tutto”, di continuare. “Le leggi del tempo non sono le leggi dell’amore”, tuttavia, noi siamo il tempo e noi amiamo, “nonostante tutto”.
Ci vogliono coraggio e attenzione per avventurarsi nella densità di questo romanzo. La lentezza della lettura, però, costituisce un valore aggiunto per chi è armato di curiosità. Il ritmo è lento, talvolta spezzato dalla meschinità del male e dalla stupidità dell’umano, che irrompe nella tragedia suscitando sorriso più che angoscia.
“Guardate, ho trovato un euro. L’oroscopo l’aveva detto, oggi sarà una buona giornata. Mia madre lo diceva sempre, non tutti i mali, vengono per nuocere.”
Un romanzo per lettori affamati di buona scrittura e intensità, una chicca per gli amanti della ricercatezza non pretestuosa. Lettori coraggiosi, che conoscete il valore catartico della tragedia e la dolcezza della brutalità, fatevi avanti! Non resterete delusi. E voi, abituati alle letture tutte d’un fiato, non arretrate: la varietà è ricchezza, quindi vale sempre la pena di provare l’esotico.
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"Perché mi hai abbandonato?”
Non ci si immerge con leggerezza nell’opera di un autore che, per quanto giovane, scrive con mano ferma e uno stile in cui si alternano e si mescolano la crudezza del romanzo moderno e la prosa poetica della metrica classica.
Il libro, un corale gioco di specchi, racconta sensazioni più che eventi, e scorre fluido insieme alle generazioni che in esso si susseguono, gettando una luce fosca su una realtà costellata dalle riserve mentali di infanzie irrisolte, sogni spezzati, desideri frustrati.
Arrivati all’ultima pagina si avverte l’esigenza di tornare su certi passaggi, non soltanto per riassaporare un ritmo che non di rado rasenta il lirismo, ma per i diversi piani di lettura a cui si prestano.
La narrazione, in buona parte sotto forma di monologo – un po’ monocorde, a volte, ma sempre schietto – verso la fine lascia il posto ad un dialogo semiserio dal sapore kafkiano tra Io e Super-io, si direbbe, imputato e giudice.
Assolvere se stessi è essenziale, nel processo che porta all’accettazione – se non al perdono – delle colpe di chi ci ha messo al mondo finendo poi per distruggere la nostra fiducia nel mondo:
“… il perdono è sopravvalutato: le persone non tornano bianche se le lavi col perdono”.
Filo conduttore è il dolore, rimosso, negato, riconosciuto, abbracciato, inconveniente della vita, forse, di sicuro parte integrante, fino all’ultimo respiro.
E’ la morte, infatti, a dissolverlo, o meglio, a diluirlo nella sua essenza più congeniale, dandogli un significato in extremis.
Accanto ad intenti suicidari espliciti o latenti c’è sempre però, struggente, un anelito di vita:
“Sa che solo Lui può salvarsi, ma anche che nessuno sopravvive da solo”.
I pronomi personali dei protagonisti, scritti in maiuscolo, suggeriscono un accostamento a quel Dio che creò i Suoi figli a Sua immagine e somiglianza, eppure liberi di affrancarsi affermando la propria identità, per quanto imperfetti, fragili, disorientati:
“Mi viene solo da dire: perché mi hai abbandonato?”.