Narrativa italiana Romanzi storici Un infinito numero
 

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Un infinito numero

Letteratura italiana

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Timodemo, ex schiavo di origine greca, racconta di quando accompagnò il suo padrone e Mecenate in terra etrusca per scoprire le origini di Roma, che Virgilio, per volere di Augusto, avrebbe dovuto immortalare in un grande poema. Giunti nella città sacra di Sacni, i due cives romani e il liberto riescono a essere ammessi nei sotterranei del tempio di Mantus. Attraverso un rito esoterico, in una sola notte rivivono circa mille anni di storia: lo sbarco nel Lazio degli scampati da Troia, gli eccidi, gli stupri e i tradimenti del sanguinario Enea e dei suoi uomini, la mescolanza etnica che diede vita alla civiltà etrusca, la nascita delle 12 città confederate e della tredicesima, Roma, mai riconosciuta dalle altre perchè fondata da banditi.



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Un infinito numero 2021-06-07 10:21:16 anna rosa di giovanni
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anna rosa di giovanni Opinione inserita da anna rosa di giovanni    07 Giugno, 2021
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Dalla violenza alla pace, finchè dura il mondo

UN INFINITO NUMERO (1999) di SEBASTIANO VASSALLI (1941-2015)

“Un infinito numero” non è veramente un romanzo storico, a differenza de “La chimera” (1990); Vassalli lascia infatti che, nel reale, l’immaginario irrompa fin dalle due pagine iniziali in corsivo, che fanno da prologo, quando in “una bella giornata d’autunno” in cui il rumore di trebbiatrici ed aerei sovrasta “lo stormire delle fronde e il cinguettio degli uccelli” (cioè il rumore caratteristico dell’epoca corrente rende quasi inudibile il suono costantemente invariato di fondo), l’autore si ritrova a conversare in giardino con uno dei suoi personaggi, ancora “sconosciuto” benchè lo nomini (“Timodemo”). Guardando altri personaggi che nel frattempo “passeggiavano tra gli alberi e parlavano tra di loro in modo piuttosto animato”, Timodemo osserva che ognuno di loro “sta soltanto recitando una parte: la sua parte, e continua a ripeterla”: insomma, le storie finora scritte dall’autore, le storie di quei personaggi, sono circoscritte, limitate, incomplete. Invece, dice Timodemo, “Ci sono storie che rimangono sospese fuori del tempo perché i loro personaggi ne conoscono soltanto una piccola parte, e perché nessuno riesce a vederle per intero”, storie che rimandano a qualcosa di più ampio e di misterioso. E “il mio amico Virgilio - continua Timodemo -, nei suoi ultimi giorni e mesi di vita, si era reso conto di essere passato vicino a una di quelle storie, e di non avere saputo riconoscerla ...”. Ecco, ciò che da qui in poi leggiamo fino alle due pagine finali anch’esse in corsivo è “la trascrizione (…) di quel lungo monologo”.

1. Dopo questo incipit anodino che ci proietta su un piano fantastico, Timodemo racconta, con una sensibilità moderna, realismo ed uno stile elegantemente scorrevole (gli si perdoni l’uso di “gli” per “loro”), la storia di cui lui è un personaggio insieme a tre dei più famosi uomini dell’Antichità: il poeta mantovano Virgilio (70-19 a.C.), che con Timodemo rappresenta la cultura che il potere cerca di sedurre per servirsene come arma di propaganda; Mecenate (68-8 a.C.), “l’Etrusco”, “uno degli uomini più potenti di Roma, cioè del mondo intero” (p.37), colui grazie al quale “Roma era diventata il centro mondiale, oltre che della politica, anche della letteratura e dell’arte” (p. 41) “l’arbitro della politica e del gusto, il dominatore delle mode e della cultura”; Ottaviano, infine, figlio adottivo di Cesare e futuro primo imperatore romano col nome di Augusto (27 a.C.-14 d.C.). È quindi il I secolo avanti Cristo, e Timodemo, nato in Grecia e venduto ancora bambino ad un mercante di schiavi, da questi fatto allevare come grammatico e poi portato al mercato degli schiavi di Napoli, “il più grande d’Italia cioè del mondo” (p. 23), viene acquistato proprio da Virgilio, che fa la spola tra la sua villa di Pozzuoli e la capitale, già famoso per avere scritto le Georgiche, e ne diventa presto segretario ed amico, a lui eternamente grato per averlo iniziato alla lettura e, con essa, a qualcos’altro: “mi abituai a guardare il mondo con cento occhi, anziché con i miei due soli, e a sentire nella mia testa cento pensieri diversi anziché il mio solo pensiero. Gli uomini, senza la lettura, non conoscono che una piccolissima parte di ciò che potrebbero conoscere. Credono di essere felici perché fottono, si riempiono le pance di cibo e di vino (…) ma la lettura gli darebbe cento mille vite, e una sapienza e un dominio sulle cose del mondo che appartengono solamente agli dei ” (p. 31). Si noti fin d’ora che per bocca del suo personaggio Vassalli fa l’elogio della scrittura, senza la quale non si darebbe lettura ...

2. Con la battaglia di Azio del 31 Ottaviano batte definitivamente il rivale Marco Antonio mettendo così fine a sessant’anni di guerre civili (vedi p. 33-35) e inaugurando il periodo di massima potenza di Roma (“una nuova stagione: così ricca di energie, così rigogliosa, così splendida” p. 46) (ma l’apice della potenza segna di per sè l’inizio del declino …). “Fu allora che la poesia (…) diventò un affare di Stato” (p. 50): Ottaviano Augusto, “il principe”, presto solo “Augusto”, “si era persuaso che il dominio di Roma sul mondo, e il suo dominio personale, non potevano basarsi soltanto sulla superiorità delle armi. Bisognava che Roma si presentasse ai suoi sudditi con un’immagine di grandezza, oltre che di forza; e che le sue origini, e le origini del suo principe, fossero racchiuse in un mito” (p. 52). Ora, secondo l’etrusco Mecenate, “ tutto ciò che era sorto, in un lontano passato, sulle rive del Tevere, era sorto per opera dei Rasna, cioè degli Etruschi” (p. 53) e all’obiezione di Virgilio, incredulo che dagli Etruschi possa essere derivata la grande civiltà romana non avendo essi lasciato nulla di scritto, Mecenate risponde: “Che ti importa se non abbiamo avuto poeti? Avremo te: e tu sarai il nostro cantore, come Omero lo fu per i popoli dell’antica Grecia ...” (p.53).

3. Mecenate e Virgilio partono perciò con Timodemo e qualche altro compagno di viaggio alla volta del paese dei Rasna: “soltanto lassù (…) Virgilio avrebbe potuto scoprire le vere origini di Roma” (p. 60), e il racconto del viaggio verso l’alta Toscana, lungo la via Cassia fin dove possibile, è l’occasione per raccontare realisticamente un’antica Roma non per caso molto simile al mondo di oggi (per es. p. 97). A Timodemo, che si stupisce dei variegati tratti somatici e costumi che vede, Virgilio risponde che “l’Italia, ormai, era diventata un miscuglio di popoli (…) si potevano incontrare, mescolati alle popolazioni locali, i Galli e i Germani dalla pelle rosea e dai capelli del colore della stoppa, gli Iberici dai capelli neri come la pece e i Siriani dalle lunghe barbe e dagli sguardi obliqui ...” (p. 71). E ancora: “incontrammo altri villaggi abitati dai veterani delle guerre civili (…) originari di tutte le province di Roma, anche di quelle africane e asiatiche. Velthune, il dio della vita e delle metamorfosi (“Lui è la forza che fa nascere gli animali e le piante, e che fa avvicendare le stagioni … Insomma è la vita!”), avrebbe avuto il suo da fare, nei secoli futuri, per trasformare tutta quella gente in Etruschi!” (p. 81).

4. I nostri viaggiatori arrivano infine a Sacni (Santuario), il cuore del paese dei Rasna, non lontano da Siena, che potrei localizzare nella regione di Larderello, in cui il cielo è costantemente velato dai vapori delle terme, dove “erano stati ricostruiti i templi di Velthune e delle altre principali divinità etrusche, e dov’erano custoditi gli antichi Libri del Culto” (p. 98). Virgilio, Timodemo e Mecenate chiedono di essere ricevuti appunto dal sommo sacerdote di Velthune (“Lui solo avrebbe potuto rivelarci i segreti della religione etrusca; e avrebbe anche potuto dirci qualcosa di nuovo e di importante sull’origine di Roma ...” p. 101), ma “i segni in cielo” sono tutti contrari per ora alla loro visita. Nell’attesa di essere infine ricevuti, i nostri visitano i tre templi principali di questo luogo sacro: il tempio di Velthune, dio della vita e delle trasformazioni, il tempio di Northia, personificazione del tempo (ossia della durata), dove, in una parete, sono conficcati tanti chiodi quanti sono gli anni di vita della civiltà etrusca (e solo un angolino è ormai vuoto), e il tempio di Mantus, dio-dea della morte e dell’Oltretomba. In quest’ultimo tempio “sono conservate le storie dei Rasna” (p. 108). “Una mattina, accadde finalmente qualcosa di nuovo (…) ci veniva data la possibilità di visitare l’interno del tempio di Mantus e di scendere nei suoi sotterranei (p. 121): “Scenderete nel pozzo dei misteri e viaggerete nel tempo (…) state per morire (...), ma la vostra morte non sarà una vera morte (…) Se anche doveste rimanere mille anni laggiù dove andrete, alla fine vi ritroverete qui (…) e sarà l’alba di domani mattina” (p. 122-126), viene spiegato loro. Richiesti di scegliere se viaggiare nel futuro o nel passato, i nostri scelgono il passato: “Siamo qui per conoscere le origini di Roma”, risponde infatti Mecenate. I tre viaggiatori si ritrovano perciò sprofondati ognuno per suo conto nella notte della storia.

5. Comincia qua la parte del romanzo in cui, presumibilmente nella mente di Timodemo (p. 145: “Chiudo gli occhi e sento le voci che mi attraversano. Vedo immagini ...”), riecheggiano le voci - voci di conquistatori e voci di vinti - di uomini di quella terra che sarà poi l’Etruria. Le voci e le epoche si susseguono a partire da quando i Lidi, scampati all’assedio di Troia, approdarono sulla sponda del Tirreno e si insediarono, con l’inganno e la violenza, nel territorio abitato dai Sabini, uccidendo gli uomini e i bambini e impadronendosi delle donne, allo scopo di moltiplicarsi e rinsanguare il loro popolo. Sono.

Ecco la prima voce: “Cammino verso oriente con i miei quattro fratelli (…) e ammazzo tutti i maiali maschi che incontro sulla mia strada. Non so dire quanti ne ho scannati finora, perché io riesco a contare soltanto sulle dita della mia mano (…) I maiali assomigliano nell’aspetto agli uomini, ma non sanno esprimersi come gli uomini e non sanno nemmeno vestirsi. Non conoscono le scarpe (…) Li abbiamo sgozzati mentre lavoravano nei campi, o mentre tagliavano la legna, o mentre conducevano per strada un asino carico di fascine. (…) Un giorno, quando tutti i maiali a due zampe saranno stati sgozzati, il nostro capo dei capi, il grande Eneas, darà a ognuno di noi una parte di questa terra e un certo numero di femmine, perché le faccia lavorare di giorno e le ingravidi di notte” (p. 130-131). La voce successiva, quella di Sethu, “il più giovane dei Lidi scampati alla guerra e alla distruzione della città di Troia” (p. 132), esprime invece lo smarrimento di chi vede la disumanità del comportamento dei suoi compagni e ci dice con ciò che il seme dell’umanità è sempre vivo ...

Alcune voci, poi, preannunciano qualcosa che è ancora violenza ma anche inizio di qualcos’altro. In particolare, un Lidio dice : “Per comunicare con le mie donne, e per essere ubbidito e servito, io ho dovuto imparare molte delle loro parole; e, se non c’è nessuno che mi ascolta, le uso (…) Adulissa (…) non riesce a impedirsi di provare piacere; e questo fa sì che , oltre a odiare me, odia anche se stessa. (Ma il suo istinto, fortunatamente, continua a essere più forte del suo odio) (…) i figli sono la cosa più importante che abbiamo, dopo le tragedie che ci hanno colpito (a noi in Lidia, e a loro in questa terra che chiamano Lazio). È soltanto grazie ai figli, nostri e loro, che i nostri due popoli potranno continuare a esistere” Inoltre: “Le altre mie donne sono più tranquille. Yahrissa è grassa e rosea come una giovane scrofa, e non ha pensieri di nessun genere: nemmeno pensieri di vendetta. (…) Truysia, infine, (…) del passato, non ha certamente molto da rimpiangere!” (p. 141-143).

Un’esigenza si fa strada in questo nuovo popolo nato dai Lidi fuggiti da Troia e dalle donne dei Sabini da loro rese schiave: cancellare la violenza delle origini: “Nessuna traccia di quella violenza dovrà rimanere tra di noi. Nessun racconto di cantastorie, nessun poema (…) nessun affresco e nessuna scultura. Basterà dire semplicemente: un giorno, in questa terra ricca di messi e di ogni genere di metalli, è nato un popolo che prima non c’era. Il popolo dei Rasenna (Rasna) ...” (p. 145). E infatti nessuno dei discendenti di quei massacratori saprà la verità: “Mio nonno parlava in un modo strano. Tutti gli uomini della sua età parlavano e si comportavano in un modo strano. Dicevano di essere venuti da un paese di là dal mare e raccontavano di avere combattuto una guerra lunga e crudele contro i Greci; una guerra che, alla fine, i Greci avevano vinto con l’inganno (…) Dopo un lungo viaggio si erano fermati in Italia, nel Lazio, perché qui c’era il dio di cui, allora, avevano bisogno. Il dio delle trasformazioni Velthune” (p. 145) In quest’opera di nascondimento della verità storica da parte dei Lidi un ruolo importante lo svolge il poema di “un famoso cantore: il grande Aveles (…) cieco dalla nascita”, che “raccontò la fuga dei Lidi dopo la caduta di Troia (…), le loro guerre eroiche contro i selvaggi del Lazio (…) ma soprattutto celebrò il senno e la possanza di Eneas” (p. 146).

IL TEMPO PASSA, LE STORIE SI RIPETONO, I VINCITORI DI UN TEMPO SONO A LORO VOLTA VINTI. La voce di un vecchio racconta infatti, guardando la gente che fugge: “i discendenti di tutti gli assassini e di tutti i ladri del popolo Etrusco, cioè i Romani, avevano deciso di annientarci e (...) stavano distruggendo, una dopo l’altra, le nostre Dodici Città. (...) sono rimasto solo con mia moglie Culni. Ci teniamo la mano nella mano e guardiamo fuori della finestra, sulla strada dove continuano a passare uomini e carri, diretti verso chissà dove. ”(…) Sbrigatevi a scappare, perché stanno arrivando i Romani! Ma io e Culni abbiamo deciso di rimanere qui, davanti a questa finestra, e di aspettare i nostri assassini per guardarli in faccia” (p. 151-152). Un altro dice: “Nelle nostre città, ormai, comandano gli stranieri (…) Per ogni nostra necessità dobbiamo ricorrere ai funzionari dell’amministrazione civile di Roma” (p. 153) Infine: “A Perugia, nella ricorrenza delle idi di marzo, più di trecento uomini della nobiltà locale (…) sono stati trascinati come animali sugli altari di pietra e abbattuti a colpi di scure (…) Si vedevano all’orizzonte le nuvole di polvere dell’esercito di Ottaviano che si stava spostando; e le grandi masse di fumo degli incendi (…) (p. 154). Ecco, le voci appartengono ormai all’“oggi”, il tempo di Ottaviano, quello della storia di cui sono personaggi Virgilio, Timodemo e Mecenate.

6. “Riaprii gli occhi” - racconta Timodemo - “Ognuno di noi aveva avuto la possibilità di conoscere, per suo conto, l’intera storia dei Rasna. Eravamo nati e morti decine di volte” (p. 157). A questo punto i nostri tre viaggiatori ricevono infine l’invito a recarsi dal sommo sacerdote di Velthune, “un omino grinzoso e deforme” (p. 164) che più volte hanno intravisto lungo il percorso, il quale dice loro: “l’epoca dei Rasna finisce oggi” (p. 166). A lui Virgilio chiede: “Perchè non avete mai scritto la vostra storia, e nemmeno le vostre riflessioni sulla vita e sul mondo? (…) Perché la scrittura vi ha sempre fatto orrore?” (p. 166). La risposta è quanto mai sibillina e non spiega “veramente” : “ La scrittura ci fa orrore come ci fa orrore la morte. La parola scritta è un segnale di morte” (p. 166). Quanto alla religione dei Rasna, l’omino spiega che essa “era antica di quasi dieci secoli e che era nata nel Lazio, tra i Lidi della terza generazione dopo lo sbarco di Eneas (p. 168): all’inizio “l’universo era il regno del dio del nulla Mantus e della “sua fedele ombra Mania” (p. 168), poi il dio della vita Velthune e il dio-dea del tempo Northia riempirono l’universo di cose e di vita, ma Mantus inventò un nome per ogni cosa “e l’infelicità penetrò” in esse (p. 169), ossia un principio di morte. Mania diede forma scritta a ogni nome “e il mondo si riempì di parole scritte, cioè di involucri vuoti e affamati di vita. (…) La seconda epoca del mondo (…) è stata l’epoca di Mania, ed è durata circa mille anni come la precedente. La terza epoca è quella dei Rasna (…) che è finita stasera (…) L’età della ragione e della gioia di vivere. Nessun popolo, in futuro, riuscirà a tenere a bada l’infelicità e perfino la morte come abbiamo fatto noi! ” (p. 171) (“Ma le epoche del mondo sono cinque” (p. 170), ha detto il sommo sacerdote: quali siano la quarta e la quinta Vassalli non lo dice). “La scrittura uccide” (p.174), insiste il sommo sacerdote, che scrive il proprio nome, quello della moglie e quello della moglie-figlia, che infatti muoiono poco dopo.

7. Tornati a Sacni, i tre viaggiatori partecipano al banchetto funebre in onore di Velia, la moglie-figlia del sommo sacerdote. Timodemo: “Quella notte a Sacni, io ho avuto l’impressione di tornare indietro nel tempo, fino a un’epoca che conoscevo, perché c’ero vissuto, in cui i funerali dei morti erano un’esplosione di vita (Cioè, in pratica, di violenza e di sesso)” (p. 184) e la musica che accompagna gli ultimi festeggiamenti “era il canto dell’Etruria libera e felice”. Virgilio, Timodemo e Mecenate si rimettono poi in viaggio per Roma e poi Napoli, carichi della vera storia delle origini di Roma. Racconta Timodemo: “Confrontavamo i nostri ricordi. Anche Virgilio, ormi, si era convinto che Roma era stata una città etrusca, e che la sua storia era un rivolo della storia dei Rasna; ma, a differenza di Mecenate, lui credeva che quella discendenza andasse tenuta nascosta. Il vero Eneas era impresentabile. La realtà, mi diceva il mio padrone, è sempre impresentabile; e l’arte esiste anche per questo scopo specifico, di renderla migliore e degna di essere raccontata (…) La poesia (…) deve mostrarci la parte migliore dei nostri sentimenti (…) Io ascoltavo e non ero convinto. Omero – gli facevo osservare – doveva avere, sulla poesia, delle idee un po’ diverse dalle tue, perché se avesse voluto mostrarci gli aspetti migliori della natura umana, ci avrebbe dato un Achille più pietoso, e un Ulisse più leale e più giusto … E nemmeno Eschilo e nemmeno Sofocle, a mio avviso, si sono posti i problemi che ti poni tu! È vero. - ammetteva Virgilio - (…) forse si illudevano che gli uomini avrebbero finito per correggersi da soli, riflettendo sui loro sbagli (…) ma, purtroppo, le cose sono andate in un altro modo. La ferocia e la follia, invece di diminuire con la civiltà, sono cresciute con lei; e la nostra epoca, tanto più colta e progredita delle epoche precedenti, ha dovuto assistere, in Italia, agli orrori delle guerre civili!” (p. 201-202). Intanto il potere si è fatto assoluto e sospettoso, la buona stella di Mecenate è impallidita e Virgilio si sottrae a fatica all’ingiunzione di Ottaviano Augusto di consegnargli il poema delle origini di Roma che sta scrivendo seguendo, pur fra tanti dubbi, il modello idealizzante dei cantastorie che del “massacratore di bambini e di donne” Eneas (p. 211) hanno fatto l’eroe da cui gli antichi Romani discendono direttamente, ignorando completamente il popolo etrusco, nonostante il loro determinante contributo di sapienza artistica e tecnologica. Sentendosi minacciati di morte dall’imperatore, Virgilio e Timodemo acquistano “una fattoria di quattrocento schiavi e di seimila iugeri nel paese dei Daunii” (p. 213), in Apulia, cioè nelle Puglie, senonchè “Virgilio non ha mai messo piede nella sua nuova proprietà; e io, che pensavo di averla comperata per lui, ci sono venuto ad abitare sotto un falso nome per sfuggire all’ira del principe, e ci vivo facendo il contadino, da quasi dieci anni (…) e anche questo è un segno della volontà di Velthune, il dio della vita e delle metamorfosi che ci ha fatti incontrare, e che è l’autore della nostra storia e di tutte le storie del mondo” (p. 214)

8. Come tutti sanno, alla fine l’Eneide diventa effettivamente il poema nazionale di Roma imperiale, ma ciò accade perché i pretoriani di Ottaviano Augusto si impadroniscono del manoscritto del falso mito di Enea, costringendo Timodemo alla fuga per sottrarsi alla morte, mentre Virgilio si ammala e muore amareggiato: “Sarei diventato un grandissimo poeta, un nuovo Omero, se non mi fossi illuso che l’arte può servire a migliorare gli uomini e se non avessi creduto di cambiare il mondo con la poesia” (p. 229).

9. Il racconto di Timodemo volge alla fine: “Ma Giove, ormai, ha distolto il suo sguardo da quello che succede a Roma; e la Fortuna, che è la più scellerata delle dee, fa il suo mestiere, favorendo gli spergiuri e ogni genere di delinquenti” (p. 233). E: “Non è trascorso nemmeno un quarto di secolo, mi dico, da quando Mecenate era il padrone di Roma e uno dei padroni del mondo; e ora, Roma e il mondo si sono dimenticati di lui (…) Mi domando cosa sia la memoria di un uomo, e non so rispondere (…) Che memoria può avere, il tempo, degl uomini che lo fanno esistere, senza la scrittura? La scrittura: è lei la protagonista della storia che sto raccontando. Il popolo dei Rasna (…) aveva scoperto, in alternativa alla scrittura, un modo di rivivere il passato (…) ma quel modo non aggiunge e non toglie niente ai singoli uomini, e non modifica le loro storie. La scrittura, invece, può durare (e di solito effettivamente dura) ben più di chi se ne serve” (p. 239-240).

10. Ed ecco la fine del romanzo: nella sua “Solaria” Timodemo è riuscito a costruirsi una piccola grande felicità (vedi p. 241-245) e solo una volta il passato gli ritorna. In sogno, l’omino grinzoso con la gobba, il sommo sacerdote di Sacni, gli dice: “Benvenuto nell’epoca della scrittura! (…) Il tempo degli uomini, da quando Velthune e Northia hanno smesso di occuparsi di loro, si è ridotto a essere una rincorsa tra presente e futuro, sempre più affannosa e sempre più folle (…) Voglio mostrarti il mondo dominato da Mantus e da Mania: il mondo scritto, con gli uomini che si dibattono tra i fili delle loro stesse parole come le mosche nella tela del ragno ...”.

11. GIUDIZIO. Ho apprezzato le parti della narrazione che attualizzano la storia di Roma e ho trovato abbastanza affascinanti le parti in cui Vassalli cerca di far rivivere la civiltà etrusca. Non particolarmente interessante è invece il modo in cui viene affrontato il tema della funzione della letteratura: celebrativa? educativa? garanzia di Fama per chi lo scrive e per chi vi viene celebrato? Preferisco di gran lunga per esempio “Lo scherzo” di Milan Kundera. Quanto al tema della scrittura mortifera per gli Etruschi, è solo un pretesto narrativo, giacché Vassalli, ovviamente, fa l’elogio della lettura e della scrittura. Anche le parti in cui si parla del ruolo del caso nella storia (“il caso non esiste (…) ogni avvenimento si colloca in una catena infinita di eventi” p. 113-114) mi sembrano più a effetto che pregne di sostanza. Quello che invece ho apprezzato e condivido sul piano del contenuto, e che secondo me è l’idea che Vassalli sviluppa forse in tutta la sua narrativa (sto leggendo qualcos’altro di lui), è che la storia è fatta di UN INFINITO NUMERO di variazioni dello stesso processo: violenza e pacificazione attraverso la rimozione della violenza iniziale… In questo senso trovo che sia un romanzo filosofico.

12. Come rimandi ad altre opere, mi sembra di poter segnalare “Candido” di Voltaire (il viaggio, il caso, la formula “Bisogna coltivare il proprio giardino”) e il monumentale “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann (per la ricostituzione di epoche remote)

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Candido; Giuseppe e i suoi frateli
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Un infinito numero 2016-03-13 13:04:20 silvia71
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    13 Marzo, 2016
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Le pieghe della Storia

Sebastiano Vassalli ci ha lasciato in eredità splendidi romanzi, piccole tessere temporali per dare forma e sostanza al nostro passato.
“Un infinito numero” è un romanzo che rifugge da etichette di genere, è un romanzo che vuole esplorare la lontana e stinta epoca etrusca e poi quella romana, camminando sui sentieri erbosi della fantasia per convergere sulle strade tracciate dalla Storia ufficiale.
Un viaggio nel tempo, un salto che catapulta nel mezzo di una civiltà “sepolta” come quella etrusca per innestare riflessioni che hanno come fulcro il valore della scrittura, il valore dell'infinito e del perpetuare nomi, volti e pensieri.

Non serve a nulla snocciolare i passi salienti dell'intreccio narrativo costruito da Vassalli, occorre leggere questo testo, affidarsi alla voce narrante e partire per il viaggio alla scoperta delle origini di Roma con Virgilio, Mecenate ed il fido Timodemo, alternando visioni di fantasia a momenti di valenza storica, predisponendosi all'ascolto e cogliendo le infinite sfumature che il racconto offre.
La scrittura semplice e la suddivisione in capitoli brevi celano in realtà un contenuto complesso e di estremo interesse, donando un valore aggiunto al testo.

Un invito alla lettura per tutti in quanto non parliamo semplicisticamente di un romanzo storico ma di un esempio di buona letteratura.

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Un infinito numero 2015-10-04 22:28:45 f.martinuz
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f.martinuz Opinione inserita da f.martinuz    05 Ottobre, 2015
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Scrittura: vita e morte

Come sempre accade agli artisti (che siano essi scrittori, pittori, musicisti) la loro figura assurge a maestro del nostro tempo solamente dopo la loro dipartita. Se ne parla e se ne pubblica soprattutto dopo che radio, web e telegiornali hanno dato la notizia della scomparsa. Lo stesso è accaduto con Sebastiano Vassalli, noto per “La Chimera” con cui vinse il Campiello, le cui opere hanno immantinente invaso gli scaffali delle librerie che offrono la migliore visibilità che un libro possa ottenere. Una pratica editoriale con risvolti plurimi: da un lato il comportamento delle case editrici verso l’autore denota freddo cinismo calcolatore ma dall’altro permette di poter avvicinarsi ad uno scrittore di cui, ingiustamente, non si parla e non si è parlato abbastanza. Baso questa mia affermazione non sul suo capolavoro ma su un’opera “minore”, ovvero “Un infinito numero”.

La vicenda ruota attorno alla figura di Timodemo, narratore-protagonista che, dopo essere stato allevato come schiavo nell’antica Grecia viene rivenduto a peso d’oro sul mercato di Napoli dove viene acquistato dal giovane poeta Virgilio. Grazie all’amicizia che si instaura col poeta mantovano Timodemo entra a piè pari nella Storia; viaggia per l’Impero, conosce le figure di rilievo della cultura e del mondo romano dell’epoca; Messalla Corvino, Ottaviano Augusto e soprattutto l’esuberante Mecenate, il protettore di Virgilio e il promotore della cultura romana del tempo.
Ed è proprio in questo fervido e frizzante clima culturale che Ottaviano Augusto, fresco vittorioso contro Antonio, affida a Virgilio, coadiuvato dall’onnipresente Mecenate, il compito di generare il mito di Roma. Infatti una civiltà può affermarsi e farsi rispettare solo se alle spalle possiede una storia mitologica abitata da valorosi eroi e sanguinose battaglie e chi meglio di un poeta può, grazie alla sua abilità, forgiare il Mito? Per questo Virgilio viene scelto e, sulla scorta delle volontà dell’esuberante ed egocentrico Ottaviano, si reca con Timodemo e Mecenate nel paese dei Rasna, cioè in Etruria, ritenuta a ragione da molti la vera culla storico-culturale della romanità. È un viaggio alla ricerca delle radici di Roma; radici che, come testimonierà un incredibile viaggio nel passato, sono intrise di sangue, stupri e violenze di ogni genere; un passato su cui la censura e la rielaborazione poetica virgiliana stenderanno un necessario e interessato velo.

Oltre all’importanza del mito come pilastro culturale di una civiltà, Vassalli insiste con veemenza su un’altra tematica; quella della Scrittura, la cui importanza e centralità all’interno della sua narrazione è esplicitata da Timodemo più volte.
Vassalli, attraverso l’esperienza del giovane schiavo, si chiede come, in un mondo di grafomani, la civiltà etrusca abbia potuto fare a meno della Scrittura; si domanda come sia possibile che a nessun etrusco, in circa un millennio, sia venuta in mente l’idea di tramandare storia, eventi, usi, pensieri, tradizioni ai posteri. La risposta si cela proprio nell’avventura a tinte magiche e surreali che i tre romani vivono una volta giunti nel paese dei Rasna. Qui scoprono come la Scrittura sia inscindibilmente legata al concetto di morte in quanto essa è stata appositamente creata dagli dei del nulla e dell’ombra e di conseguenza scrivere significherebbe condannare a morte qualcuno o qualcosa. La Scrittura, se impiegata dagli Etruschi, avrebbe generato un immediato oblio che si è poi fisiologicamente e storicamente verificato.
A questa visione mortale della Scrittura si oppone la percezione che di essa ha la cultura romana e oserei dire la cultura letteraria in genere. La Scrittura è difatti l’antitesi dell’oblio; essa è la garanzia della memoria, il lasciapassare per evitare il dimenticatoio, la certezza della persistenza. Scrivo quindi esisto si potrebbe parafrasare la massima di Cartesio. Virgilio stesso, che nel corso del testo è spogliato dell’aurea di Vate con cui siamo abituati ad identificarlo, è terrorizzato all’idea di essere dimenticato dai posteri.

L’intera vicenda scorre estremamente piacevolmente; Vassalli utilizza uno stile asciutto, semplice, diretto e privo di circonvolute costruzione sintattiche e ricercati florilegi linguistici. Ricerca la linearità e la semplicità stilistica, un ulteriore punto di forza che si aggiunge alle atmosfere da “Satyricon” che talvolta fanno capolino nella narrazione.

FM

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Un infinito numero 2015-08-18 14:20:41 Graci
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Opinione inserita da Graci    18 Agosto, 2015

“Il caso non esiste"

Virgilio, accompagnato dal suo fedele liberto Timodemo e Mecenate, intraprendono un viaggio attraverso le terre abitate dall'antica popolazione degli Etruschi, giunti al termine del loro inesorabile declino, con lo scopo di conoscere le vere origini della civiltà di Roma e il valore della scrittura secondo i Rasna, i quali la padroneggiavano ma non se ne servivano per produrre opere scritte. Una volta tornati a casa, esaudito il loro intento, la loro vita non sarà più la stessa.

Il narratore è Timodemo, il quale, tramite un espediente letterario, si presenta in una visione all'autore e inizia a raccontargli la sua vita, fin dalla nascita.
Personaggio di minore rilevanza storica rispetto a Virgilio e Mecenate, egli afferma di essersi sempre sentito “ai margini che al centro delle cose del mondo: un ruscello in balia del destino, una piuma al vento”, ciò nonostante alla fine del viaggio in Etruria realizzerà di essere il “vero protagonista della storia”.
Essendo il narratore, la sua caratterizzazione è la meglio efficace e chiara fra tutte. Timodemo compie inconsapevolmente una sorta di percorso di formazione, che giunge al culmine nel momento in cui dimostra la sua totale fedeltà verso Virgilio, anche dopo la morte di quest'ultimo.
È il personaggio che mi ha affascinato più di tutti. Ammirabile è la sua fame di sapere, altrettanto la sua devozione verso Virgilio, due capacità che fanno nascere in lui un acuto senso dell'osservazione e del giudizio.

“Mi abituai a guardare il mondo con cento occhi,anziché con i miei due soli, e a sentire nella mia testa cento pensieri diversi, anziché il mio solo pensiero. Diventai consapevole di me stesso e degli alti. Gli uomini senza la lettura, non conoscono che una piccola parte delle cose che potrebbero conoscere, credono di essere felici (…) ma la lettura gli darebbe cento, mille vite, e una sapienza e un dominio sulle cose del mondo che appartengono solamente agli dei.” (Timodemo)

Per quanto riguarda Mecenate e Virgilio, l'autore ha saputo descriverli in maniera diversa e nuova rispetto alla classica storia. Mecenate risulta essere un uomo in balia del Fato, inizialmente uomo potente e di grande prestigio, poi dimenticato dalla “Fama”.
Virgilio invece, poeta innamorato e illuso dal fascino della poesia, appare timido, impacciato e privo di senso del volere.

Il tema della scrittura presso gli Etruschi, e in particolare la relazione tra la breve esistenza dell'uomo rispetto all'eternità del tempo che scorre, sono le linee guida di Vassalli, il quale però, a mio parere, non riesce a renderle ai lettori in maniera completa e chiara.
Ho gradito l'intera narrazione, ma il finale mi ha lasciata perplessa, insoddisfatta. Mi aspettavo una risposta più chiara agli interrogativi che sono alla base del viaggio intrapreso dai personaggi, ma forse è proprio questo che, creando una sensazione di mistero, rende interessante e piacevole“Un infinito numero”, opera dalla narrazione “fosca” ma coinvolgente.

Romanzo non caratterizzato dalla rigorosità propria del genere storico, è al centro tra realtà e mito.
Vassalli aggiunge nuovi dati a quelli storici, che i libri scolatici ovviamente omettono, come ad esempio i frequenti rimandi al sesso o la descrizione del leggendario Enea come “uomo grasso e schifoso, più viscido di una lumaca, più puzzolente di un porco”.

Ho molto appezzato questa lettura, l'intera storia mi è parsa equilibrata fra le parti, lo stile utilizzato dall'autore è semplice e la suddivisione in bravi capitoli ne fa un libro di estrema scorrevolezza.

Lo consiglio a chi ha voglia di leggere qualcosa di semplice e allo stesso tempo colmo di utili spunti di riflessione.

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Un infinito numero 2012-06-08 18:13:26 Antonio
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Opinione inserita da Antonio    08 Giugno, 2012

Dal disfacimento allo squallore

“Gli ho chiesto: ‘Cosa verrà dopo il futuro? Tu forse lo sai?”
“Tornerà il passato – ha risposto Nicodemo – Cos’altro vuoi che succeda?”

“Un infinito numero” è un libro di Sebastiano Vassalli. Mecenate, Virgilio ed il suo segretario Nicodemo si inoltrano nelle terre dell’Etruria per scoprire le origini di Roma: alla fine comprendono che il tempo è un cappio mortale e la scrittura menzogna.

Vassalli è stato definito un “Manzoni senza la Provvidenza”, ma “Un infinito numero” non è romanzo storico, poiché della storia l’autore raccoglie solo qualche frammento per costruire una parabola metafisica sul nulla. Il Nostro è fondamentalmente autore nichilista: d’altronde gli stessi “Promessi sposi” - cui si richiama spesso lo scrittore genovese - se vi sradica Dio, sono un’opera mortuaria e desolata.

Così i personaggi, lo spregiudicato e miserabile Augusto, Mecenate, lubrico ed implacabile, Virgilio ed il liberto Nicodemo non sono protagonisti delle vicende, poiché non agiscono, ma sono agiti dal Fato. L’intreccio, in bilico tra queste e dolore, si dipana come un filo spinato da cui sgocciola il sangue delle vicissitudini umane, destinate a ripetersi all’infinito, precipitate nell’inferno di un perpetuo ritorno. A questo allude il titolo. Vassalli, lontano da una rievocazione idealizzante dell’antichità, ci restituisce un’immagine squallida dell’Impero augusteo e non meno disincantata del mondo etrusco. La stirpe dei Rasenna (i Rossi) – scopre il poeta di Andes – è una genìa di feroci conquistatori originari della Lidia e celebrare le mitiche origini di Roma significa mistificare la verità. Ecco perché Virgilio, abiurando la bellezza di false leggende, chiede nel testamento che l’Eneide sia bruciata. E’ comunque il misticismo dei Tirreni ad offrire ai viaggiatori nella terra dei Tusci l’opportunità di compiere un viaggio nel tempo; essi capiscono che nessuna civiltà declina, poiché ogni civiltà nasce dal difacimento per perire nel grigiore.

E’ il mondo intero a portare su di sé l’ipoteca e l’errore dell’esistenza che è nominazione e principium individuationis. Spiega Aisna, sacerdote di Velthune, ai pellegrini nella terra dei Rasenna: “Ci fu un’epoca in cui l’universo era il regno del dio del nulla, Mantus, e della sua fedele ombra, Mania. Un giorno il dio-dea della vita, Velthune, incontrò il dio-dea del tempo, Northia. I due incominciarono a parlare e ad immaginare un ambiente più bello e confortevole del vuoto che avevano attorno: immaginarono il sole e la luna, i mari e le montagne, gli animali e le piante e tutto ciò che prendeva forma nella loro fantasia, immediatamente diventava realtà. L’universo si riempì di cose e di vita. Allora Mantus, per ristabilire il suo predominio sulle cose, inventò un nome per ciascuna di loro. Chiamò la roccia granito o selce e l’infelicità penetrò nella roccia… Poi Mantus chiamò gli alberi quercia o pino o fico o alloro e l’infelicità penetrò negli alberi. Alcuni incominciarono a perdere le foglie ed a ricrearle ogni anno nella buona stagione: tutti presero la ruggine, le muffe e furono assaliti dagli insetti nocivi. … Venne il turno degli animali. Mantus li chiamò lupo e pecora, falco e serpente e li costrinse ad essere infelici: a sbranarsi, ad ammalarsi, a soffrire per mancanza di acqua e di cibo. Infine Mantus si rivolse agli uomini che, fino a quel momento, erano vissuti senza nuocersi e senza conoscersi e diede un nome specifico a ciascuno di loro … e gli uomini e le donne immediatamente diventarono infelici”.

Libro dunque tetro, eppure non privo di fascino, nell’apertura di alcune pagine verso il mistero del cosmo, nel disegno di una cultura, quella etrusca, popolata di ombre, ma pure amante dei piaceri della vita.

Nell’epilogo l’io narrante, il greco Nicodemo, emerso dalle nebbie del passato, passa il testimone all’autore (ed a noi) per consegnargli la sua amara saggezza, la sua deserta verità.

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Un infinito numero 2012-04-12 07:45:24 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    12 Aprile, 2012
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Lo scopo della scrittura

“La scrittura: è lei la protagonista della storia che sto raccontando. Il popolo dei Rasna, che io ho conosciuto prima che i suoi sacerdoti piantassero l’ultimo chiodo nel muro di Northia, credeva che gli uomini dovessero esistere nel tempo come gli insetti esistono nella notte, inebriandosi della loro vita finché gli è possibile, e poi tornando a scomparire nel buio. Aveva scoperto, in alternativa alla scrittura, un modo di rivivere il passato, e forse anche di anticipare il futuro, muovendosi lungo la catena di eventi che costituiscono la storia del mondo, come sui gradini di una scalinata infinita, in un senso e nell’altro; ma quel modo non aggiunge e non toglie niente ai singoli uomini, e non modifica le loro storie. La scrittura, invece, può durare (e di solito effettivamente dura) ben più di chi se ne serve; e ci può dare quell’illusione di immortalità che più di ogni altra illusione passata o presente ha abbagliato gli uomini della mia epoca. Virgilio, Orazio, Properzio, Agrippa, Mecenate e lo stesso Augusto, si sono riscaldati alla luce di quell’illusione, e hanno creduto di poter vivere oltre la morte fino a diventare immortali, rispecchiandosi nella loro scrittura o in quella degli altri…”


Ogni volta che leggo un romanzo di Sebastiano Vassalli mi stupisco perché riesce a non essere ripetitivo, pur rientrando sempre nell’ambito storico, che invece delinea una ripetitività di fatti e di comportamenti che induce a pensare che l’uomo sia rimasto sostanzialmente immutato nel tempo, con le sue passioni, le sue pulsioni, con una natura congenita che si ritrova sia in epoca romana che in quella attuale. Le tematiche sono le più svariate, ma imperniate su un attento lavoro di ricerca che di fatto riporta alla luce un’epoca attraverso una creatività che nulla toglie e nulla aggiunge a quella che era, oppure è, la realtà.
E’ questo il caso di Un infinito numero, che racconta di un viaggio compiuto in Etruria in età augustea da Mecenate, Virgilio e Timodemo, quest’ultimo schiavo acquistato sul mercato di Napoli dal grande poeta latino e liberato dopo pochi anni. Ed è appunto questo ex schiavo, materializzatosi fra i personaggi ideati da Vassalli, che riveste la parte dell’io narrante, in un ideale congiunzione temporale fra quella lontana epoca e l’attuale.
Ma perché questo viaggio? Qual è il suo fine?
Virgilio, tramite Mecenate, ha già avuto l’incarico da Augusto di scrivere un poema sulle origini di Roma, un’opera che dovrà restare eterna, per glorificare la sua potenza e anche l’attuale dominatore, quell’Ottaviano dalle incerte origini che ricerca, o meglio pretende di essere l’anello di una catena indissolubile di una discendenza divina, e ciò per rafforzare il proprio potere, per giustificarlo e per quel desiderio quasi inconfessabile che porta alcuni uomini alla fama, al mito.
Poiché Mecenate, di nobili origine etrusche, asserisce che tutto ciò che era sorto lungo il Tevere era opera dei Rasna, cioè degli Etruschi, si rende necessario approfondire, ricercare, andare nei luoghi ove ancora esistono questi ultimi, anche per comprendere il motivo per cui la scrittura fra gli Etruschi abbia così poco valore da non produrre libri in un popolo così evoluto, anche se in declino.
Eppure sapevano scrivere e anche bene, ma la loro religione, per la vocazione nominalistica della scrittura, ferma l’intera storia di un popolo nella immobile, stringente definitività del tempo, e, come dice Aisna, il sommo sacerdote del dio Velthune, Chi non ha un nome non muore in eterno.
In questo contesto i tre viaggiatori apprenderanno delle origini di Roma all’interno del tempio di Mantus nel corso di un viaggio soprannaturale nel tempo; liberi dai limiti inevitabilmente temporali dei propri corpi, avranno così modo di rivivere l’infinito numero delle vite precedenti, l’unico mezzo per viaggiare nel tempo, per tornare indietro o per proiettarsi nel futuro (ma qui si gira il corso del tempo perché si vuol conoscere ciò che è avvenuto molti secoli prima).
Vedranno, così, lo sbarco dei troiani capeggiati da Enea, la loro fredda determinazione a ricreare il vecchio stato in una nuova terra eliminando ferocemente tutti i maschi delle popolazioni lì insediate e salvando solo le donne, atte alla procreazione per rinsaldare la nuova stirpe.
La scoperta per Virgilio è sconvolgente, perché dovrà costruire un mito, che è basato sulla violenza, modificando la storia, facendo apparire bello ciò che è brutto, edificante ciò che è laido; questa sarebbe la ragione per la quale l’Eneide, invano continuamente reclamata da Augusto, dopo anni è ancora incompiuta. Il poeta di Andes non vuol consegnare al tempo e ai posteri un’invenzione, ma nemmeno può descrivere la verità, e allora, sentendosi morire, ordinerà di distruggere quanto ha fino ad ora scritto, ordine, per nostra fortuna, non rispettato.
Un infinito numero è la storia di un accentuato contrasto fra due civiltà, quella etrusca, ormai alla fine, che rifiuta la letteratura e la scrittura, in quanto portatrici di morte, e quella romana, che invece le pone sugli altari come unica possibilità per sopravvivere dopo la morte, un’indiretta forma di eternità di cui l’uomo vagheggia affinché, quando il suo corpo diventerà polvere, restino almeno il nome e la sua fama.
Però, Un infinito numero è anche il libro sulla genesi dell’Eneide, sulle figure di uomini come Mecenate, il cui nome è sopravvissuto alla sua morte; non è solo questo, tuttavia, perché è anche un’opera sul tempo che sembra scorrere veloce per gli umani, ma che è di un’assoluta immutabilità nell’eterno, tanto da ripresentare fatti e situazioni come se fossero una lunga storia di nascite e di morti, di scomparse e di ritorni. L’uomo non è che pulviscolo celeste e nella sua effimera esistenza è il frutto di un infinito numero di vite e di combinazioni.
Libro non certo facile per le sue variegate sfumature, Un infinito numero è tuttavia un romanzo di straordinaria bellezza, un altro dei non pochi capolavori di Sebastiano Vassalli.

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La chimera - Marco e Mattio, entrambi di Sebastiano Vassalli
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Un infinito numero 2012-02-21 18:11:21 LauraZ
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LauraZ Opinione inserita da LauraZ    21 Febbraio, 2012
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Virgilio nella terra dei Rasna:un capolavoro di st


Un romanzo che appassiona e stupisce, un’opera in cui
realtà e immaginazione si intrecciano con armonia.
Ecco “Un infinto numero”,
il capolavoro di Sebastiano Vassalli.
Ora la sua particolare macchina
del tempo va oltre il
periodo napoleonico di
“Marco e Mattio”, supera
gli anni dell’Inquisizione evocati da “ La Chimera” e ci riporta nel vivo della Roma Augustea.
A guidarci, è Timodemo,
ex schiavo di origine greca, divenuto il segretario personale del più grande
fra tutti i poeti latini: Virgilio. È questo il prediletto del princeps, colui che dovrà creare il grande mito di Roma: la città potrà presentarsi ai suoi sudditi con un’immagine di grandezza oltre che di forza,
le sue origini e quelle di
Augusto verranno esaltate.
La Fama è già pronta a prendere il volo, per superare il confine dell’impero e
raggiungere il limite delle terre
emerse.
Ma come poter scrivere un poema sulla nascita di Roma, date le poche conoscenze sulla sua fondazione?
Secondo Mecenate, il fido collaboratore di Augusto, re etrusco di Arezzo in esilio, “tutto ciò che era sorto in un lontano passato, sulle rive del Tevere, era sorto per opera dei Rasna, cioè degli Etruschi ”.
Un’affermazione che lascia perplesso Virgilio: non è possibile che un popolo senza una letteratura, appunto i Rasna, abbia dato vita ad una delle più grandi
civiltà di tutti i tempi.
Che storia può aver avuto chi non ha sentito il bisogno di raccontarla ai suoi posteri?
“C ’è un mistero nel passato dei Rasna, ed è proprio su questo che si basa la grandezza di Roma” .
Alla ricerca della documentazione per scrivere il “grande mito”, il poeta intraprende un viaggio nella terra degli Etruschi. Lo accompagnano lo stesso Mecenate, che in questo modo potrà riprendere possesso dei beni ora in mano ad amministratori disonesti, una scorta di soldati guidati dal centurione Cuoricino, le belle Ninfa e Tecmessa, Timodemo. La meta è Sacni, la città santuario: si trova qui il saggio sacerdote di Velthune, dio etrusco della vita e della metamorfosi, l’unico che conserva nella sua memoria ciò che i Rasna non hanno scritto, l’unico che può rivelare a Virgilio le vere origini di Roma.
Lungo l’accidentata via Cassia, trascorrendo le notti in locande malsicure, sfuggendo agli agguati dei banditi di strada, la compagnia entra in contatto con una civiltà ormai in decadenza, avvolta nel mistero e nel silenzio.
Il mercante che Virgilio conosce a Surina è l’ultimo orafo etrusco: dopo di lui, non si avranno più gioielli così raffinati.
Volsinii era un tempo il cuore palpitante dell’Etruria: ora, in questa città, i discendenti dei Rasna lavorano come schiavi nelle miniere e nei campi appartenuti ai loro antenati.
Pochissimi sono gli Etruschi che, favoriti dagli dei, hanno conservato potere e ricchezze. Tra questi, il cugino di Mecenate, il quale, nella sua dimora a Chiusi, può vantare di splendidi esemplari di leopardi e leoni. Nessuno, però, può sentire i loro feroci ruggiti: dipinte sulle pareti, queste belve sono ormai un ricordo dell’antica grandezza dei Rasna.
Nel muro di Northia, a Sacni, c’è spazio solo per un ultimo chiodo sacro, simbolo di un nuovo anno di vita del popolo etrusco: dopo settecento e più primavere, dopo settecento e più chiodi affissi alla parete, l’epoca dei Rasna si può dire conclusa.
In una notte di visioni e incubi, una notte che, nel tempio di Mantus, dura diecimila anni, in un ciclo di morte e di rinascita, il passato degli Etruschi si rivela a Virgilio.
Vassalli evoca magistralmente voci di oltre un millennio prima, voci che i Rasna non hanno voluto scrivere: sono quelle dei Lidi, sbarcati con Eneas sulle coste laziali, quelle degli indigeni massacrati, quella della vergine guerriera Camilla…
“Hai detto bene, la scrittura ci fa orrore, così come ci fa orrore la morte: non lo sai? Tu che di mestiere fai lo scrivano, non hai mai pensato a questo genere di cose? Gli animali non possono morire: solo i loro nomi muoiono. Chi non ha un nome, e non può scrivere il suo nome, non muore in eterno”.
Due grandi civiltà a confronto, i Rasna e i Romani, tanto unite, tanto diverse: per Virgilio la scrittura rappresenta l’unico strumento per l’immortalità, l’unico mezzo per sopravvivere dopo la morte.
Nell’Eneide, egli non racconta la vera storia di Roma, non descrive i massacri e gli eccidi dello sterminatore Eneas : le reali origini della città devono rimanere nascoste. Infatti, “il vero Eneas era impresentabile. La realtà è sempre impresentabile; e l’arte esiste anche per questo scopo specifico, di renderla migliore e degna di essere raccontata. (…) La poesia deve mostrarci la parte migliore dei nostri sentimenti, così come la pittura e la scultura mostrano l’armonia dei nostri corpi…”
Tuttavia, nemmeno l’Enea forte, saggio, paziente, generoso, rispettoso di tutte le leggi e di tutte le divinità, il pius Enea, soddisfa Virgilio. Nonostante le sollecitazioni imperiose e persino stizzite di Augusto, il poeta ha ormai preso una decisione: l’Eneide dovrà essere distrutta…
Sono, quindi, la scrittura, la poesia e soprattutto il tempo, personificato nella dea etrusca Northia, a costituire il filo conduttore dell’opera di Vassalli.
“Siamo noi a far esistere il tempo. Il futuro, il passato: ma in fondo è tutto un gran girare intorno al presente. In questo senso i miei romanzi hanno poco o nulla del romanzo storico ottocentesco. Semmai, esprimono il convincimento che per rendere il presente convenga esplorare il passato. In fondo il presente non è molto dissimile dal passato, con la sola differenza che il presente si racconta da sé…”
E poi si ritrova quel mostro, la Fama, l’ultima arrivata tra le dee dell’Olimpo, quell’essere invincibile e instancabile che nell’Antica Roma teneva sotto il suo potere Augusto e che esiste ancora oggi: “le più spudorate verità e le più spudorate menzogne venendo da lei diventano ugualmente credibili, e credute…”
La vicenda di “Un infinito numero”, narrata con uno stile sobrio e vivace, diventa quindi metafora del presente, spunto di riflessione sulla realtà contemporanea.
Il lessico semplice, ricco di espressioni tipiche del parlato, e la focalizzazione interna contribuiscono sicuramente a diminuire la distanza tra il lettore e i personaggi.
Efficace è la finzione letteraria con cui prende avvio la narrazione: nel giardino di casa di Sebastiano Vassalli, la stessa ex canonica nella bassa Novarese acquistata dallo scrittore, passeggiano i personaggi dei suoi romanzi; tra questi c’è anche Timodemo che, con al polso il bracciale dell’urobòros, il serpente che si morde la coda, inizia a raccontare una storia di tempi lontani…
Un romanzo, quindi, ricco e complesso, metaforico ed etico, che non delude il lettore: lo stesso Virgilio che incontriamo nei libri di scuola diventa il protagonista di una vicenda che suscita stupore ed interesse.
Ad ogni pagina, il nostro bagaglio culturale si arricchisce con informazioni e curiosi particolari che altrove non possiamo trovare. Scopriamo, quindi, le mentalità, le tradizioni e le abitudini di vita che differenziano due popoli con radici comuni, capiamo il difficile rapporto tra Virgilio e la sua opera, che egli raccomandò di distruggere, la sua concezione dell’arte e della poesia come rappresentazione dei valori positivi degli uomini.
L’Eneide viene riscoperta e valorizzata e diventa simbolo di una civiltà, quella di Roma, che da sempre affascina tutti noi.
Alla fine del racconto, Timodemo si sente chiedere dall’autore: «Cosa verrà dopo il futuro, tu, forse, lo sai? » “La sua risata ha turbato il silenzio del giardino, e ha fatto trasalire gli altri personaggi che si sono voltati a guardarci. «Tornerà il passato, cos’altro vuoi che succeda? Velthune cancellerà le cose del mondo e i loro nomi.(…)
Allora tutto ricomincerà dall’inizio »”.



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