Sagapò Sagapò

Sagapò

Letteratura italiana

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Sullo sfondo di una sperduta isola del Mediterraneo, lontano da un'Italia che sprofonda nella guerra civile, un manipolo di militari si ritrova improvvisamente tagliato fuori dai campi di battaglia e dalla storia. In balia di un cielo privo di nubi, di un caldo che abbatte il corpo ma esalta la mente, militari italiani, partiti per «rompere le reni» del popolo greco, impareranno presto che S'agapo (o, come pronunciavano, Sagapò) in greco vuol dire ti amo e che solo grazie al calore di una donna potranno vincere le loro paure. E continuare a essere uomini. Un libro unico, un miracolo di armonia tra le storie narrate e il talento di una scrittura capace di restituire la tragedia di un'umanità che non si arrende. Sagapò ha ispirato la sceneggiatura del film Mediterraneo di Gabriele Salvatores (Premio Oscar 1992).



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Sagapò 2017-09-25 14:05:06 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    25 Settembre, 2017
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Sagapò...

Quando è chiamato sotto le armi e inviato al Brennero, Renzo Biasion, è insegnante di disegno alle scuole Industriali di Feltre, e ha già dipinto, su tavolette e tele di dimensioni ridotte, le sue prime periferie e i suoi primi interni veneti. Quando poi passa al fronte greco-albanese con il grado di sottotenente di fanteria, è al disegno, più che alle parole, che affida le sue prime impressioni circa la moltitudine di uomini, bambini greci laceri e denutriti e donne consunte e disperate, che lo circondano.
Tra tutte, le guerra in Grecia è una delle più inutili e rovinose, tanto che, l’aggressione, che aveva avuto inizio alle 2.30 del 28 ottobre del 1940 finì ben presto con il tramutarsi nell’esatto opposto. E nello specifico, per Biasion, questa campagna, non è stata solo di pioggia e di fango, è stata, per lui, la sconfitta di Venezia. Le conseguenze dell’otto settembre 1943 avevano comportato la perdita di tutti o quasi i disegni con cui aveva fermato le immagini a cui aveva assistito negli anni del servizio, immagini che andavano da quei bambini infelici rastrellati nel Peloponneso, a quelle di prostitute affamate e disgraziate, agli sfollati nei catafigi di Atene ed ancora, a quegli italiani, dimenticati nell’Egeo. Non stupisce, quindi, l’avvicinamento alla scrittura. L’autore, durante ed una volta a casa, è vinto dal bisogno di raccontare, di venire fuori, di fare i conti con quegli anni bui. Basti pensare, che al suo rientro, si è isolato, ha scelto di affidarsi ad una sorta di catarsi, di rifugiarsi in un luogo lontano da tutto e da tutti, un luogo dove poter coltivare questo desiderio e dove consentire all’orrore, alla miseria, alla degradazione, alla disperazione, alla voluttà, alla paura, allo sfinimento, alle oscenità, alla ribellione, all’ignavia, alla rassegnazione, al pentimento, di manifestarsi in tutte le loro sfumature.
Così, pian piano, passo dopo passo, anno dopo anno, è nato “Sagapò” opera letteraria ambientata in Grecia negli anni del 1941-1943 e che ha per protagonisti i soldati, i sergenti, gli ufficiali dell’esercito che erano stati incaricati di “rompere le reni” al popolo greco. Ma questa cronaca delle avventure e delle missioni militari, è solo un aspetto indiretto. Di fatto, esso ci descrive in modo diretto, di come questi soldati si procurassero, al di là di quella realtà artificiosa loro imposta, quel minimo di quotidianità naturale che chiunque si trovi in stato di coercizione cerca di assicurarsi, per riuscire a essere ancora un uomo, per riuscire ancora ad amare, a soffrire, ad avere fierezza, umiltà, illusioni, speranze. Significative sono a tal proposito le parole del trevisano stesso:

«Per me questo sottotitolo è sbagliato, non tutti sanno che Sagapò vuol dire “Ti amo”. Il vero significato del libro sta nel titolo: il modo rozzo ed essenziale usato dai soldati italiani nei loro approcci greci, ma anche l’unica risposta formulabile alla luce.»

Come noto dal romanzo è stato tratto anche il celebre film “Mediterraneo”, classe 1991/2 che è valso l’Oscar a Gabriele Salvatores. Personalmente non ho avuto modo di vedere, ad oggi la pellicola, quindi non mi pronuncio sul consigliarvela o meno, circa la lettura, invece, mi permetto di suggerirne la conoscenza a chi ama la storia e a chi desidera conoscere un aspetto del Secondo Conflitto che non è particolarmente approfondito tra i banchi di scuola.
Il testo, composto da racconti che si susseguono l’uno dopo l’altro, è caratterizzato da uno stile narrativo asciutto che si concentra nelle descrizioni (soprattutto dei luoghi tanto che il lettore si immedesima immaginandosi nelle terre descritte), e che per la rudezza, spesso implicita, spesso sottesa, dei fatti descritti, disturba, induce a riflettere, sdubbia. Questo accade, in particolar modo, nei primi aneddoti, incentrati sulla figura della donna prostituta, ma anche negli ultimi. Se nei primi, infatti, assistiamo alla disperazione di queste giovani ragazze, alla loro arrendevolezza, accondiscendenza alla situazione in cui vertono in antitesi con questi uomini apatici, assuefatti alle circostanze di vita cui sono costretti, negli ultimi traspare totalmente l’indifferenza e l’inumanità insita e radicata. Si perde di vista la concezione dell’uomo, la pietà, l’affezione, identità. Ciascuno non è altro che un numero, in attesa, di che cosa poi di fatto chi lo sa.
In conclusione, una perfetta fotografia, dei completi, diari di guerra.

«A modo suo voleva salutare quel soldato, morto lontano dalla famiglia. Anche lui ne aveva una. Restò di sasso e avvampò: là non era scritto Tarabusso Francesco ma Tabarusso Francesco. Aprì la bocca per parlare ma la scarica glie lo impedì. Poi pensò che il furiere era un personaggio potente ed era meglio non andar in cerca di grane. Tarabusso o Tabarusso che importava ormai? Era morto, no? Era sceso giù con gli altri e nessuna cosa al mondo l’avrebbe fatto più ritornare»

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