Porte aperte
Letteratura italiana
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 4
“Lei sa come la penso” disse il procuratore
Questo breve racconto del grande scrittore Leonardo Sciascia si svolge nei meandri del Palazzo di Giustizia di Palermo ed è incentrato sulla difficile decisione di un giudice che si trova a dover emettere una sentenza di condanna nei confronti di un triplice omicida, reo confesso.
Sembra che tutti, ad eccezione forse proprio del giudice, propendano perché venga inflitta all’assassino la pena capitale, non tanto per il fatto di aver ucciso a sangue freddo la propria moglie, il datore di lavoro ed il collega, ma, soprattutto, perché una delle vittime era un personaggio influente e noto, che ricopriva cariche importanti, nonché (questione all’epoca non di poco conto) per il ritrovamento nella dimora del reo di una fotografia di Giacomo Matteotti, politico socialista, ucciso da una squadra fascista nel 1924.
In un’era (Italia alla fine degli anni ’30, quindi, in pieno regime dittatoriale) in cui si tace, si obbedisce, non si osa esprimere il proprio pensiero e si simpatizza (chi sentitamente, chi per convenienza, chi molto a malincuore) per il partito fascista, invero in netto declino (di lì a breve l’alleanza con Hitler e l’errata scelta di partecipare alla guerra a fianco della Germania nazista), in un paese stravolto, sconvolto e soggiogato da cotanto potere totalitarista, un piccolo ed insignificante giudice, come tanti, non un eroe, non un paladino della giustizia, decide, sostenuto soltanto da uno dei giurati facenti parte della corte d’assise (gli altri voteranno tutti per la condanna a morte) di non applicare la più severa delle pene (reintrodotta dall’allora Guardasigilli Rocco) ma di punire in modo, comunque, esemplare il reo, dando alla pena anche quel senso di rieducazione e quella finalità di punizione/insegnamento/riabilitazione che in uno Stato equo, democratico e civile dovrebbe avere.
Il giudice giunge ad emettere il proprio verdetto non con cuore leggero, ma interrogandosi assiduamente sui possibili scenari che si sarebbero aperti a seguito della propria decisione.
Egli si discosta dalle direttive provenienti dal potere, dagli auspici dell’opinione pubblica, dai suggerimenti carpiti, in modo più o meno velato, da chi gli sta intorno (sia nella vita lavorativa che nella vita privata) e prende la propria sofferta decisione accollandosi tutte le conseguenze del caso.
Come il giudice, anche il lettore viene messo abilmente da Sciascia nella condizione di porsi degli interrogativi sull’esistenza o meno della Giustizia, sulla terzietà ed indipendenza dell’organo giurisdizionale rispetto al potere legislativo ed esecutivo.
E’ chi detiene il potere giurisdizionale veramente capace di garantire imparzialità e parità di trattamento di fronte alla legge? Oppure la Giustizia è una mera utopia perché chi è chiamato ad applicarla si trova immancabilmente influenzato dal momento storico, dal potere politico, dall’opinione pubblica predominante in quel dato periodo?
Si riflette sulla condanna a morte, applicata ancora in diversi paesi, se l’efferatezza di un delitto può legittimare uno Stato a decidere di togliere la vita al colpevole, se la punizione inflitta sia sempre adeguata e proporzionata al reato commesso.
Letto il racconto ai giorni nostri, alla luce di qualche recente sentenza emessa, viene d’altra parte anche da chiedersi se lo Stato di oggi non sia talvolta fin troppo garantista nei confronti di chi si macchia di atroci delitti.
Quindi, in ogni caso, si rimane sospesi tra ciò che sentiamo essere equo e giusto e ciò che le leggi sanciscono e le procedure impongono.
L’invettiva, la retorica sagace, il linguaggio e lo stile di Sciascia nel descrivere questo episodio, che fa parte della storia del nostro Paese, sono encomiabili.
Ho letto “Porte aperte” con molto piacere e particolare interesse, un po’ per il contesto in cui il racconto è ambientato, facendo parte io stessa di quell’ambito, ed un po’ perché il modo di scrivere di Sciascia è davvero accattivante e coinvolgente.
D’altro canto così mi era parso già dal titolo, di cui poi nel corso dei capitoli l’autore chiarisce l’importante significato metaforico.
Di Sciascia conoscevo già “A ciascuno il suo”, libro letto durante l’adolescenza, del quale mi è rimasto un ottimo ricordo, e leggerò sicuramente anche altro.
Indicazioni utili
Top 100 Opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
L'ordine delle cose
Nel giro di poche ore ha pugnalato sua moglie, il ragioniere che lo ha sostituito in ufficio e il dirigente che lo ha licenziato, uccidendoli tutti. La “belva umana” lo chiamano a Palermo, dove in reazione al gesto efferato ci si attende ora la giusta punizione.
Negli anni ‘30, dove si dorme “a porte aperte” (ma più lo si crede di quanto non lo si pratichi realmente), la giusta punizione non può essere che la pena di morte, reintrodotta dal regime fascista dopo quarant’anni di abolizione. E’ quel che tutti si aspettano, tenuto conto che uno degli accoltellati a morte è quel Giuseppe Bruno – avvocato, segretario del sindacato forense, presidente dell’unione provinciale fascista artisti e professionisti, e chi più ne ha più ne metta – che è figura particolarmente rappresentativa nel capoluogo siciliano.
Ed è quanto ricorda anche il procuratore generale al giudice che dovrà occuparsi di quel processo: d’altronde non è prima di tutto il Ministro della giustizia, 'Sua Eccellenza Rocco', ad aver indicato il fondamento giuridico della pena capitale? E non è forse il procuratore generale così prodigo di illustri riferimenti perché sa bene che quel "piccolo giudice" non è per nulla convinto che una tale pena abbia fondamento?
"Un brav’uomo, il procuratore: ma di brav’uomini è la base di ogni piramide d’iniquità."
I principi di civiltà possono essere i più alti, ma con ciò nulla si è detto: il più è che sono applicati da uomini.
Lo spiega – ancora una volta – Leonardo Sciascia in questo romanzo breve, caratterizzato dal suo tipico incedere narrativo e dal consueto acume: di fronte ad un (triplice) fatto di sangue, il problema non è la colpevolezza, l’eventuale infermità di mente o l’esistenza di qualsivoglia attenuante, bensì come lo Stato – in quel momento lo Stato fascista – ritenga di "rendere giustizia". Protagonisti perciò non sono il reo, le vittime, i fatti posti in essere: lo diventano invece il giudice a latere, i giurati, il procuratore generale, l’opinione pubblica, il comune sentire di un’epoca storica, le esigenze politiche e la "filosofia" giuridica che ad esse si piega.
A sentenza resa, l’ultimo capitolo del libro si rivela densissimo (almeno quanto tutti i precedenti insieme), quello nel quale il procuratore generale e il "piccolo giudice" si ritrovano a cose fatte: è allora che si comincia davvero a discutere delle proprie convinzioni in tema di giustizia, del diritto o meno di un giudice a comminare la pena di morte quand’anche prevista dal sistema, del "beneficio" realmente reso alla persona giudicata e "risparmiata" laddove in ogni caso già pende il ricorso per il grado d’appello. E’ l’ultima motivazione opposta dal procuratore generale all’affermazione di qualsiasi alto principio da parte del giudice, mentre entrambi scoprono che ad accomunarli realmente, in un dato momento storico, è solo la paura.
E mentre si riconosce lo Sciascia acuminato di sempre.
"Aveva una brillante carriera da fare, se l’è rovinata rifiutando di condannare uno a morte."
Indicazioni utili
Top 50 Opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
Il vero arbitro è il cuore
Nella Sicilia degli anni trenta, come in tutta l'Italia dell'epoca, il regime si vantava del fatto che i propri cittadini potessero dormire sonni tranquilli anche lasciando aperte le porte di casa. Ciò era il risultato dell'inflessibile ed implacabile lotta alla criminalità messa in atto dalle camicie nere, in nome della quale il governo, nella persona del ministro Alfredo Rocco, reintrodusse la pena di morte nel codice penale, a dimostrare che il fascismo non scherzava nei confronti di assassini e disonesti. Con questi presupposti, poteva un semplice ragioniere palermitano, reo confesso di un triplice omicidio nei confronti della propria moglie, dell'uomo che lo aveva scalzato dal suo posto di lavoro e del suo superiore che ne aveva chiesto ed ottenuto il licenziamento, scampare all'inevitabile patibolo? Se in più consideriamo che in casa dell'assassino era stato trovato il ritratto di Matteotti e che una delle vittime, l'esimio, stimato e integerrimo Avv. Comm. Giuseppe Bruno oltre che Segretario del Sindacato Forense era Presidente dell'Unione Provinciale Fascista Artisti e Professionisti, rimanevano ben poche speranze all'imputato di evitare una sorte ormai scritta. Quale giudice, quale giurato, quale individuo che teneva alla propria carriera, alla propria vita, alla sua serenità personale e a quella della propria famiglia avrebbe potuto mettersi contro una decisione dettata da un codice scritto nonché da importanti motivazioni politiche? Sciascia ci riporta indietro di qualche anno, a quella che rimane una delle epoche più nere della storia del nostro paese. Lo fa con la sua penna scaltra e incisiva, disegnando un perfetto ritratto della società dell'epoca, in un periodo in cui il regime tira fuori gli artigli per cercare di recuperare un consenso che va via via scemando. "Non si erano mai posto il problema di giudicare il fascismo nel suo insieme, così come non se lo erano posto nei riguardi del cattolicesimo...Ma tante cose disapprovavano della chiesa cattolica. E tante del fascismo. Cattolici, fascisti. Ma mentre il cattolicesimo stava ancora lì, fermo e massiccio come una roccia, per cui sempre allo stesso modo potevano dirsi cattolici, il fascismo no: si muoveva, si agitava, mutata e li mutava nel loro sentirsi sempre meno fascisti. Il che accadeva in tutta Italia e per la maggior parte degli italiani. Il consenso al regime fascista, che per almeno dieci anni era stato pieno, compatto, cominciava ad incrinarsi e a cedere". Se il clima pesante della dittatura aleggia sul libro dalla prima all'ultima pagina, non è esclusivamente nei suoi riguardi che si concentra l'atto di denuncia dell'autore. Il reale imputato, in quest'opera che ha i veri e propri connotati del processo, è la pena capitale. Sciascia si fa avvocato dell'accusa e, attraverso i pensieri e il comportamento di un coraggioso e intelligente "piccolo giudice", mette in atto un'eccellente requisitoria nei confronti della pena di morte, importante per i contenuti e interessante per lo stile letterario e per le argute e pertinenti citazioni che spaziano da Vitaliano Brancati a Stefan Zweig, fino ad arrivare all'immenso Tolstoj. "Quando vidi come la testa si staccava dal corpo e come l'una e l'altro, separatamente, andavano a sbattere nella cassa, allora capii, non con l'intelligenza, ma con tutto il mio essere, che non vi è alcuna teoria della razionalità dell'esistente e del progresso che possa giustificare un simile atto e che quand'anche tutti gli uomini al mondo, fin dalla sua creazione, basandosi su teorie quali che siano, trovassero che ciò fosse necessario, io so che ciò non è necessario, che ciò è male e che, quindi, arbitro di quel che è bene e necessario non è quel che dicono e fanno gli uomini, e neppure lo è il progresso, ma lo sono io, con il mio cuore" (Le confessioni - Lev N. Tolstoj).
Indicazioni utili
Top 10 opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
Il grande impegno civile di Sciascia
“ La realtà è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma il provvedimento giurisdizionale. Onde il processo si pone con una sua totale autonomia di fronte alla legge e al comando, un’autonomia nella quale e per la quale il comando, come atto arbitrario di imperio, si dissolve, e imponendosi tanto al comandato quanto a colui che ha formulato il comando trova, al di fuori di ogni contenuto rivoluzionario, il suo .” (Salvatore Satta, Soliloqui e colloqui di un giurista)
Verso la fine degli anni trenta (e quindi in pieno regime fascista) a Palermo fu commesso un crimine efferato (un uomo uccise la moglie, il suo datore di lavoro che l’aveva licenziato e l’impiegato che lo aveva sostituito). Il colpevole, individuato dagli investigatori, fu assicurato alla giustizia. La vicenda, accaduta realmente, rappresentò l’occasione per Leonardo Sciascia per imbastire nel 1987 un romanzo storico volto a condannare, senza mezzi termini e senza dubbi, la pena di morte. Sì, perché il colpevole, che per il suo carattere non era individuo capace di suscitare simpatie, né di impietosire, era destinato inevitabilmente ad essere condannato alla pena capitale mediante fucilazione, poiché la pena di morte era stata reintrodotta nella legislazione dal Ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco. Non bastasse questo, in un regime che, vantandosi, affermava che gli italiani potevano dormire sonni tranquilli a porte aperte (da qui il titolo dell’opera), non si poteva tollerare che qualcuno contraddicesse con i fatti la pretesa quiete tanto sbandierata. Quindi sembrava già deciso tutto e il processo non avrebbe dovuto che essere una mera formalità, ma ci fu un giudice che intese procedere secondo coscienza e che pertanto né tollerò pressioni autoritarie, né riuscì ad accettare che potesse esistere un diritto legale di sopprimere un essere umano.
Certo, nel libro c’è una chiara condanna del fascismo e della sua violenza innata, ma sarebbe riduttivo dire che Sciascia si è limitato a stigmatizzare un regime, perché la sua denuncia, e da qui il suo grande impegno civile, sta proprio in quella possibilità che ha un tribunale di privare della vita un imputato, atto più che ingiusto in quanto la pena è prevista da una legge, immorale e inumano, immorale perché si attribuisce un potere eccessivo a chi giudica (decidere fra vita e la morte), inumano poiché togliere la vita a un nostro simile non solo non risolve il problema della delinquenza come statisticamente dimostrato, ma impedisce anche che il reo possa prendere coscienza dell’enormità del suo reato e che con il rimorso si accompagni il pentimento, e quindi la redenzione. Questo giudice, un piccolo giudice a latere esistito veramente, non volle tradire la sua coscienza e trovando anche un alleato in un giurato popolare, un agricoltore bibliofilo (di grande rilievo ed effetto il loro dialogo), arrivò a comminare una sentenza di reclusione a vita, ben sapendo che in appello sarebbe stata assai probabilmente ribaltata e trasformata in pena di morte. Come uomo, tuttavia, rimase in pace con se stesso, non ebbe contrasti e lacerazioni nella sua coscienza, non si lasciò condizionare, anche se poi il suo comportamento ebbe effetti negativi per la sua carriera. Ma al di là della bellezza del romanzo, del profondo messaggio che lancia, della capacità di Sciascia di avvincere e di pungolare, ciò che mi sembra sia di particolare pregio è quella necessità espressa affinché ogni essere umano, nelle sue decisioni, debba sempre regolarsi secondo coscienza, mantenendo ben viva quella luce di umanità che ci distingue dalle bestie, e ciò anche se avrà un costo, che non sarà mai così alto e lancinante come invece nel caso in cui si agisca contro il proprio intimo sentire.
Dal romanzo è stato tratto un film di grande successo diretto da Gianni Amelio e interpretato da Gian Maria Volonté, un eccellente trasposizione di un’opera narrativa non certo facile, ma che non può che lasciare un segno indelebile dentro il lettore.