Oro puro
Letteratura italiana
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Storia di umanità
“La mamma aveva ragione quando diceva che al mondo c’è chi è bravo a parlare, chi a raccontare, a convincere, a cantare o incantare, ma a me veniva bene la cosa più rara: ascoltare”
La scoperta dell’America è stato davvero un passo avanti per l’umanità? Se sì a che prezzo?Questa è la storia della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo dal punto di vista, modernissimo, dell’ultimo mozzo della Santa Maria. Ma, soprattutto, è un grande romanzo di mare, vero protagonista dalla prima all’ultima pagina e metafora della vita.
Non siamo di fronte a un capolavoro, questo va detto subito, però il romanzo rimane godibile e, per quanto riguarda me, l’ho letto volentieri.
Se qui l’originalità non è nella scrittura, che non affascina ma si lascia leggere, lo è a mio parere molto il punto di vista di un uomo contemporaneo (tale è immaginato Nuno, il protagonista) su un fatto del 1492 tanto rivoluzionario.
Figlio di una ex prostituta che sa leggere e scrivere, Nuno impara quest’arte insieme a lei al porto di Palos, dove la madre, che ha lasciato la professione alla nascita del figlio, scrive lettere d’amore su indicazione dei marinai di passaggio.
Costretto a lasciare Palos per la persecuzione di chi non era di religione cattolica Nuno si trova per un caso non voluto ad essere assoldato come ultimo dei mozzi sulla Santa Maria, la più grande delle tre caravelle in partenza verso mari e terre sconosciute con altissimo rischio di non tornare mai più. Proprio lui, che ha sempre amato rimanere attaccato alla terra come i granchi!
Il Capitano Colombo scopre che Nuno sa leggere e scrivere e lo assolda durante il viaggio come suo scrivano per tenere il diario di bordo.
Il romanzo, nel descrivere il viaggio, narra anche dell’umanità persa che è a bordo delle caravelle (molti sono condannati a morte che tra la morte certa e la morte probabile hanno optato per quest’ultima), nell’attesa, nella paura, nello sconforto e nel desiderio di tornare a casa, se mai ciò fosse possibile, fino all’arrivo in un’isola sconosciuta e all’incontro con gli indigeni. Popolazione buona e che li adora come divinità, pronta a regalare ai nuovi arrivati ciò che per loro è più prezioso, benché nulla di tutto questo abbia valore per Colombo e gli altri.
I naviganti continueranno a cercare ciò di cui a loro parere le Indie, dove credono di essere arrivati, dovrebbe essere ricca, l’oro. Non trovano invece nulla che a loro parere meriti ma si accorgono di quanti frutti, alimenti e cose nuove le isole dove sono arrivati siano portatrici.
La bellezza, il mare limpido, la pace di queste isole le rende comunque un paradiso che Colombo e i suoi non vedono l’ora di fare proprie, conquistare e saccheggiare, considerando gli indigeni loro proprietà, quasi oggetti.
Nuno si innamorerà perdutamente di una di loro, assisterà al male che possono fare gli uomini ad altri uomini incolpevoli, soffrirà questo processo con lo sguardo sgomento da ultimo tra gli ultimi ma che vede più lontano degli altri.
Oro puro ci accompagna poi nel travagliato e periglioso viaggio di ritorno fino ad accennare alle spedizioni che seguiranno quella di Colombo mentre Nuno invecchia e si domanda come diversamente sarebbero potute andare le cose.
Il racconto non vuole essere una precisa ricostruzione storica ma solo un romanzo che nel narrare un evento di così grande portata, in mezzo a tante luci ha avuto anche molte ombre. Non va cercata quindi la precisione dei fatti ma va letto con l’animo di chi vuol provare a leggere la scoperta del nuovo mondo con gli occhi disincantati di chi è consapevole di quanto male possa fare l’uomo nel suo progresso. Ma Oro puro è anche una grande storia di umanità perché sono proprio tutti gli uomini con i quali Nuno avrà a che fare, ad essere protagonisti della storia.
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Nuno e l’Ammiraglio del Mare Oceano
Nuno è un diciassettenne figlio di una prostituta di Palos che, dopo la sua nascita, s’è riciclata a scrivano per i marinai al porto e per i tanti analfabeti che abitano la cittadina. Dopo la morte prematura della madre, il ragazzo, travolto dalle persecuzioni che Torquemada ha scatenato contro chiunque non professi apertamente la fede cattolica (Nuno sarebbe ebreo, anche se non ha mai praticato), si ritrova al porto schiacciato tra una moltitudine di suoi correligionari in attesa di un imbarco che, forse, si concluderà con un eccidio di massa. Invece, per una serie di fortuite circostanze, viene imbarcato al posto di un mozzo fuggitivo su una nave pronta a partire per una missione misteriosa e forse ugualmente mortale. La nave si chiama Gallega, ma ormai è stata ribattezzata Santa Maria e il suo capitano, uno straniero di nome Cristoforo Colombo la vuol portare, assieme a due caravelle, in una direzione dalla quale mai nessuno è mai ritornato: il Catai del Gran Khan o il Cipango dai tetti dorati, ma non aggirando l’Africa, come fanno i portoghesi, bensì attraversando il Mare Oceano che tutti sanno insuperabile.
Così per l’inesperto, maldestro, timido Nuno inizia il viaggio che lo porterà dopo due incredibili mesi d’ansia e paure, alla scoperta di quelle che, poi, saranno chiamate le Americhe. Qui scoprirà pure l’amore per una bellissima indigena.
Ci sono innumerevoli modi (intelligenti) di narrare, a romanzo, una vicenda storica ormai assurta a mito. Ad esempio ci si può limitare al racconto degli avvenimenti, depurati degli aspetti mitici, facendo una cronaca ben calata nell’ambientazione del suo tempo. Oppure si può conferire una maggiore tridimensionalità ai fatti e ai personaggi coinvolti, sfruttando le licenze concesse dal romanzo storico e arricchendo le vicende e gli attori del dramma di dialoghi e accadimenti inventati, ma coerenti al contesto. Oppure ancora si può porre la vicenda storica a sfondo delle storie personali degli attori (non necessariamente reali) che coprono il ruolo di protagonisti. In ultima analisi, si può pure utilizzare la predetta licenza per inventarsi un'avventura che solo riecheggi i fatti documentati, pur senza contraddirli.
L’A. ha scelto di seguire la via peggiore: appoggiandosi pedissequamente al mito colombiano, ha predisposto un palcoscenico in cui mettere in scena una vicenda che, in pieno revisionismo storico, tenta di fornire una lettura politicamente corretta, secondo l’odierno sentire, di quelle vicende passate, con un affannoso e non richiesto sforzo di autocritica. Il tutto miscelato a una stucchevole storia d’amore tra il giovane Nuno e Lei, la bella india incontrata nell’esplorazione. Tutto ciò appare subito artefatto, macchinoso e per nulla coinvolgente.
La figura di Colombo spesso è descritta in modo macchiettistico e irriverente. La ciurma delle tre caravelle assomiglia più a quella della Hispaniola de “L’isola del tesoro” di Stevenson (per non dire a quella del Capitan Uncino della Disney) che a un credibile equipaggio tardo medievale.
Nuno che, ricordo, è un diciassettenne del XV secolo, quindi, per i canoni dell’epoca, un uomo fatto, appare come un bamboccio imbranato e assolutamente poco verosimile. Per non dire delle sue considerazioni etiche che sono decisamente fuori luogo per una persona coeva anche se, come nel caso di specie, appartenente a una classe emarginata e perseguitata.
Ma la cosa che più deprime la lettura è lo stile usato: l’A. si abbandona sin troppo spesso a un profluvio di iterazioni che si accavallano a reiterazioni rozzamente ridondanti che in costante amplificazione e accumulazione ripetono più o meno gli stessi concetti nel tentativo di infondere emozioni nel lettore che, invece, ne risulta sopraffatto, sfinito e infastidito. Le enumerazioni caotiche, poi, talvolta veramente esondanti (e non di rado in asindeti privi di interpunzione), sfiancano, al punto da far dire: “meno elenchi e più virgole!”.
La storia d’amore di Nuno viene descritta con la stessa stucchevole enfasi retorica di un impacciato innamorato crepuscolare. Le, per fortuna rare, scene di sesso, poi raggiungono una rara goffaggine descrittiva.
In conclusione, il risultato finale è assolutamente deludente. Ero partito, forse, con aspettative troppo elevate, ma l’argomento scelto le meritava. Alla fine l’unica certezza è che un’occasione d’oro puro è stata maldestramente sciupata, svilita in un romanzo da ombrellone.
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Mi rendo conto che aprire l’angolo del pignolo per questo libro è come “sparare sulla Croce Rossa”, ma non posso esimermi dal fare alcune domande. È mai possibile che nessuno dei marinai della Niña abbia mai avuto la tentazione di chiamare la nave su cui navigava da anni con il suo vero nome di Santa Clara? Oppure che Nuno, per quanto “testone” possa essere, dopo sette mesi di mare non abbia imparato che su una nave non esistono ringhiere, ma che il parapetto si chiama impavesata o battagliola, a seconda di com’è fatto? O che non esistono “corde”, ma cime, sartie, draglie, sagole e così via? Che le sovrastrutture di un vascello si chiamano cassero e castello di prua? Che l’apertura usata per scendere ai livelli inferiori si chiama boccaporto?
Anche da questi piccolissimi particolari si capisce quale sia la cura con cui è stato concepito e progettato un romanzo.