Lucrezia Borgia
Letteratura italiana
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Un grandioso affresco rinascimentale
Corre l’anno 1939 quando esce in lingua italiana, per i tipi della Mondadori e in lingua inglese per i tipi della Phoenix, Lucrezia Borgia, un’ampia ed esauriente biografia che va dal 1492, allorché il padre Rodrigo viene eletto pontefice, alla sua morte, avvenuta nel 1519, probabilmente per setticemia. Si tratta di un’opera monumentale, frutto di un lungo periodo di ricerche nei più svariati archivi, ed è la prima di Maria Bellonci, un esordio clamoroso, visto il successo da subito incontrato, e che fra l’altro le valse il Premio Viareggio, e la sua diffusione in moltissimi paesi del globo. Già da allora si delineava chiaro lo stile di questa storica e narratrice piemontese, uno stile che, pur non scostandosi dalle risultanze emerse dai carteggi, non solo non è mai greve, ma addirittura avvincente, tanto lega il lettore al filo del discorso con una continuità che non viene mai meno, con un ritmo per lo più incalzante che lascia tuttavia lo spazio per ponderate riflessioni e per pagine più quiete, in cui si sviluppa un linguaggio di soffusa poeticità che dà respiro a un lavoro innegabilmente complesso. In buona sostanza Maria Bellonci è in grado di narrare la storia, intessendo una trama senza voli di fantasia, se non per le personali considerazioni in ordine ai vari protagonisti. Che Lucrezia Borgia di per sé sia un personaggio di estremo interesse è fuor di dubbio ed è stata vista dagli storici via via come diabolica avvelenatrice, soprattutto per quelli che all’epoca trovavano vantaggiosa questa definizione, oppure come fanciulla infelice perché piegata alla ragion di stato, fondamentalmente innocente, ma purtroppo succube del padre e del fratello Cesare. Al primo, come scrive Maria Bellonci, somigliava nel suo modo gioioso d’aver fede in tutte le promesse del futuro; ma si può anche aggiungere che ne era la figlia anche per una innata carnalità, di cui tuttavia all’epoca nessuno si meravigliava; abile nel condurre anche una signoria, differiva dal genitore e dal fratello in quanto immune da una smania di grandezza volta a costituire uno stato dominato dai Borgia, anche in danno della Chiesa stessa. E per far questo, non esitavano a ricorrere alle arti diplomatiche per legare, tramite uno sposalizio, questa o quella signoria, così come utilizzavano metodi più spicci, come l’eliminazione fisica di un avversario, pratiche entrambe che, tuttavia, erano in quel periodo storico assai diffuse. A questo punto è indubbio doversi chiedere chi in realtà sia stata Lucrezia Borgia? Fra accusatori e difensori dei Borgia Maria Bellonci si pone in una prospettiva diversa, come appunto risulta da alcune righe di una Nota generale posta al termine dell’opera. Scrive: Scrivendo questa storia, ho inteso non tanto di rifare il secolare processo ai Borgia, quanto di rappresentarli nel loro modo quotidiano, caldo e naturale di stare al mondo, in una prospettiva umana di individui, non mostruosa di criminali. E poiché ho preso a narrare particolarmente di Lucrezia Borgia, aggiungerò che ella è stata di tutta la famiglia la più maltrattata, e dagli accusatori e dai paladini: un vero destino da donna.
E’ così che, se Rodrigo e Cesare Borgia sono particolarmente invisi – ma come ho scritto prima il loro comportamento era diffuso all’epoca - , a Lucrezia per il solo fatto di essere donna e di quella famiglia vengono da un lato attribuiti i più nefasti crimini e dall’altro invece la si evidenzia come una succube, un essere privo di personalità, appunto a conseguenza del suo essere femmina.
Non era né l’una, né l’altra, era invece un essere pieno di vitalità che nella sua esistenza ebbe da scontare quella parentela che tanto spaventava, perché le mire di Cesare, sostenute da suo padre, non erano limitate territorialmente, ma abbracciavano idealmente l’intera Italia.
Maria Bellonci è riuscita in un difficile compito, cioè rendere giustizia alla storia e allo stesso tempo alla dignità di una donna che aveva l’unico torto di appartenere alla famiglia Borgia.
In una narrazione senza respiro, minuziosa nei fatti come nelle descrizioni dei personaggi e delle atmosfere, emerge la figura di una donna che in pratica ebbe a conoscere un po’ di felicità solo dopo la scomparsa del padre ed il crollo dei sogni di conquista del fratello. Lei che fu sposa, per breve tempo, di Giovanni Sforza ( i due non si amavano) e poi del duca di Bisceglie, il suo primo autentico amore, ucciso dai sicari di Cesare - il che potrebbe avvalorare le voci di un loro rapporto incestuoso, ma sono solo mere supposizioni, perché di certo non vi è nulla di concreto – troverà la pace e l’appagamento come donna nel rustico, ma suo modo fascinoso Alfonso d’Este. Ferrara diventerà per lei la seconda patria e piano piano riuscirà, se non a farsi amare, almeno a farsi rispettare dai suoi cittadini.
Quanto alla tresca con il cognato Francesco Gonzaga viene di molto ridimensionata, nel senso che se si trattò di vera attrazione (lei bellissima, lui non bello, anzi bruttino, ma dotato di una particolare personalità) il tutto si risolse in una schermaglia amorosa di tenore platonico, all’epoca peraltro molto in voga.
Grazie alle ricerche e ai documenti reperiti negli archivi, di Lucrezia si viene a sapere pressoché tutto: dei favolosi vestiti che indossava, della sua preziosa collezione di monili d’oro e di pietre preziose e perfino dei componenti la sua corte personale.
Fra guerre combattute e battaglie diplomatiche emergono, escono dall’ombra, per poi infine ritornarvi, personaggi famosi, come l’Ariosto, il Bembo, lo Strozzi, tutti letterati che le corti cercavano di attrarre e che Lucrezia annoverò fra i suoi frequentatori.
Ebbe molti figli, fra cui l’erede al ducato, ma i parti sfibrano, stancano una donna, la indeboliscono e così a 39 anni, alla sua ottava gravidanza, ebbe un parto prematuro; la bimba sopravvisse, la madre penò ancora due giorni fino a esalare l’ultimo respiro. E qui Maria Bellonci si supera, con le ultime righe che raggiungono vertici sublimi. Lucrezia rivede la sua vita, la sua partenza da Roma per Ferrara: Forse a questo rombo che sembra arrivare da un tempo remotissimo, da un’eternità umana, con una voce che ha tanto di magia quanto di antica incuorante serenità, i terrori finivano di sbandarsi per dar luogo ad una stanchezza lunga, filata, vicina alla pace. Era venuto il momento di non aver più paura. Lucrezia guardava in viso suo padre come al momento della loro separazione, quel nevoso mattino d’Epifania. E come allora sospirò appena, quando qualcuno disse che bisognava partire.
Ecco, senza volerne fare un’eroina, non vorrei che l’epitaffio dicesse Qui giace Lucrezia, sposa e madre esemplare, ma semplicemente Qui giace Lucrezia, che amò la vita senza toglierla ad alcuno.
Il libro è sicuramente stupendo, un grandioso affresco rinascimentale dipinto con mani sapienti ed equilibrate.