Le streghe di Lenzavacche
Letteratura italiana
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Beata la diversità
Ci voleva poco un tempo perché una donna, già considerata essere inferiore e tentatore, fosse marchiata come strega: bastava che rivendicasse il suo naturale diritto di esistere e di condurre una vita non uniforme agli ottusi dettami religiosi, a una ridda di comportamenti a cui tante, per timore, ma anche per assuefazione, invece si uniformavano. L’essere diversi, insomma, era non solo un peccato, ma addirittura un reato. Superati i confini del tempo, arrivando fino a quasi i giorni nostri, nell’anno 1938 a Lenzavacche la storia sembra ripetersi, facendo tornare alla memoria quelle femmine, che nello stesso paese, nel 1600 furono chiamate streghe perché, nella loro condizione di mogli abbandonate, ripudiate o più semplicemente in fuga da un’esasperante emarginazione, si riunirono in una casa alla periferia dell’abitato, iniziando a condividere un’esperienza di vita comunitaria e anche letteraria. In quell’anno fascista vive una strana famiglia, composta dal piccolo Felice, che a dispetto del nome, disabile come é, sembra riassumere su di di sé tutte le possibili disgrazie, sua madre Rosalba e la nonna Tilde, con entrambe le donne che rivendicano di essere discendenti dalle streghe del 1600. E certo il loro comportamento, così inusuale, finisce con il dar credito a questa asserzione: donne che non si sposano, che rivendicano una personale libertà e che attribuiscono, giustamente, alla conoscenza, alla cultura un ruolo fondante non possono che destare ampi sospetti in un mondo chiuso e ancora feudale quale quello della Sicilia dell’epoca. Non intendo, però, andare oltre, nel senso che non voglio anticipare la trama, preferendo soffermarmi sugli aspetti salienti dell’opera e in primis sul messaggio nella stessa contenuto. La salvezza dell’umanità é riposta nella convinzione che solo una cultura che non si esaurisca nel semplice atto dell’apprendimento, ma vada oltre diventando un atto creativo, teso a liberare l’animo da ogni preconcetto, consente, nell’accettare noi, anche di accettare gli altri, permettendo di cogliere nella diversità ciò che non si ha, rompendo il circolo delle apparenze e facendo rinascere due sentimenti che da soli elevano l’uomo: la purezza dell’amore e la pietà. L’epoca, come detto, é quella fascista, che vive e vegeta sull’uniformità, ma che attecchisce in modo perfetto laddove, per ignoranza, per un errato concetto di religione, tutto deve essere immutabile e scritto da regole tramandate di generazione in generazione. Allora era senz’altro così, ma siamo sicuri che ancora oggi, in altri luoghi, ben lontani, non sia presente in modo corrosivo questa distorta mentalità?. Ed ecco che allora quello che a prima vista potrebbe sembrare un romanzo storico travalica il suo tempo e appare ancora attuale e con ogni probabilità sarà così anche in futuro. La carne al fuoco non é poca, perché ricorrono temi cari all’autore, quali la diversità, la difesa dei più deboli, il valore salvifico di una cultura che non sia fine a se stessa, ma la mano è sicura e anche se le prime pagine richiedono un certo grado di assuefazione, poi la lettura si fa più veloce e anche più appagante, tanto che posso dire che ci troviamo di fronte all’ennesima prova positiva di Simona Lo Iacono, che di certo offre, ancora una volta, tanta sostanza.
Indicazioni utili
La normalità è solo questione di postazione
Le streghe di Lenzavacche risalgono al XVII secolo: furono oggetto di persecuzione, come documenta Simona Lo Iacono nella seconda parte del romanzo in un apocrifo carteggio della superstite della strage.
Nonna Tilde e la figlia Rosalba sembrano discendere da questa dinastia maledetta (“Io e Tilde eravamo le eredi di una stirpe di indovine, avevamo una casa di memoria incerta, dominata da dicerie e misteri…”). Vivono ai margini del villaggio siciliano, senza rispettare le regole sociali di un lembo di Sicilia che è vivace miscuglio di credenze, mentalità e passionalità. Unica frequentazione: lo strampalato farmacista Mussumeli.
Poi Rosalba partorisce Felice (“Così inadatto a vivere”), figlio dell’arrotino detto “il santo”: un bambino speciale sia perché sfortunato nella nascita (“Felice, nipote sciancato e senza angeli”), sia perché ha un’indole sognatrice e incline alla fantasia. Il suo destino confluisce in quello di Alfredo Mancuso, il giovane maestro giunto a Lenzavacche nel 1938, che rifiuta i metodi fascisti di una didattica asservita al regime (“Oggi il direttore mi ha detto come comportarmi con l’insegnamento della storia”).
Il tema della diversità (“La normalità è solo questione di postazione … varia a seconda della trincea dietro la quale ci acquattiamo”) è rappresentato con una narrazione sospesa tra la fiaba e la denuncia sociale (“La mia capacità divinatoria non è magia. Solo abitudine alla lettura”).
Giudizio finale: mitologico, immaginifico, diverso.
Bruno Elpis