La scomparsa di Patò
Letteratura italiana
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Recensione della Redazione QLibri
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Murì Patò o s’ammucciò?
Una narrazione insolita, costruita su un puzzle variegato di lettere, comunicati, articoli di giornale, querele, verbali d’interrogatorio, manifesti, scritte sui muri e altro ancora. Un giallo grottesco, venato di grassa comicità, cosparso ed elegante ironia, intriso di forti connotazioni sociali e condito si affreschi ambientali a tinte forti.
La sparizione del ragionier Patò, figlio di papà molto perbene che vive in assoluta piattezza e perfetto conformismo, come il proverbiale sasso gettato nello stagno smuove le acque e solleva reazioni e conflitti fino alle rive e oltre. Il fatto solleva innanzi tutto accessi conflitti di opinione, tra le ipotesi sollevate dalla sua scomparsa. Perché sparì il buon Patò? Perdita di memoria? Rapimento? Fuga? Questioni di mafia, o comunque torbidi conflitti di interessi nell’ambito delle alte sfere? La fioritura di risposte di fronte al quesito è lussureggiante. L’autore non ci risparmia nulla, neanche saporitissimi risvolti fantascientifici a base di illusioni ottiche, anomalie spazio-temporali e dispute tra pseudo-scienziati folli.
Il sasso fa riemergere anche altri tipi di conflitti: tra istituzioni, tra diversi modi di vivere la fede e la superstizioni, tra culture e linguaggi diversi. Ne escono fuori contese che non soltanto intrattengono piacevolmente il lettore, ma impongono alcune riflessioni non superficiali. Il teatro, una volta, era considerato la casa del demonio, perché suscitava passioni peccaminose, anche se virtuali. A pensarci bene, questi bigotti arcaici avevano sicuramente torto, ma non avevano tutti i torti. Del resto, anche il celebre effetto catartico riconosciuto alle tragedie, non conferma la forza della finzione nell’alterare l’animo umano?
La storia parte lentamente, incastrare i pezzi del puzzle richiede tempo e i caratteri minuscoli degli articoli di giornale non aiutano, ma dopo l’avvio l’attenzione è incatenata dagli indizi disseminati ad arte e soprattutto dalle gustosissime “spiritosaggini lessicali” e dagli arcaismi esilaranti, dai contrasti tra personaggi e registri diversi (dai toni istituzionali alle invettive rustiche), che aggiungono alla suspense quel tocco di piccante che non guasta ma aggiusta.
Un ritratto a tutto tondo che si svela un microcosmo senza confini, che dalle scritte sui muri di paese sii espande fino al Regio Ministero dell’Interno, luogo assai pericoloso.
“Lo ziuccio gira per i corridoi del Ministero gettando foco e fiamme dalle nasche: quello è capace, se fai errore, di farti catafottere nel posto più sperso di questa nostra bella Italia. Occhio, Libò.”
Occhio, lettore. Non non perdere l’occasione di riscoprire questo gioiellino ritrovato!
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Dossier Patò
Se avessi avuto ancora dubbi sulla capacità di Andrea Camilleri di giocare con la scrittura, questo romanzo li avrebbe definitivamente fugati. Lo scrittore siciliano tira fuori dal cilindro quella che per me è stata una vera sorpresa narrativa, dimostrando come, con il suo stile inconfondibile e la sua godibilissima ironia, può davvero far ciò che vuole.
In questo caso, un dossier. L’autore sembra infatti svestire i panni di narratore per limitarsi all'apparenza al ruolo di documentarista. Prende un bel faldone d’archivio e inizia a catalogare con minuzia documenti pubblici e privati per comporre in questo modo la storia del ragionier Patò, sparito misteriosamente durante la tradizionale rappresentazione vigatese del “Mortorio”, nel Venerdì Santo 1890.
Nessuna voce narrante, nessuna descrizione, nessun passaggio temporale ad esclusione delle date apportate sui documenti. La storia prende così forma attraverso il susseguirsi di articoli di giornale, lettere personali, rapporti ufficiali di pubblica sicurezza, addirittura scritte murarie.
Sono pagine in cui si respira innanzitutto il piacere di raccontare. Camilleri si diverte molto a ricostruire l’ambientazione storica ottocentesca, a delineare comportamenti e tratti umani invece ancora attualissimi, ad amalgamare coincidenze inspiegabili, indagini impossibili, siparietti divertenti. E, soprattutto, a giocare con le parole e i diversi registri linguistici, destreggiandosi come un giocoliere tra ampollose raccomandazioni, sgrammaticate lettere popolari e ossequiosi articoli governativi, senza dimenticare i burocratici e dettagliatissimi rapporti quotidiani del delegato Bellavia e del maresciallo Giummaro, costretti loro malgrado a indagare insieme sulla misteriosa sparizione.
I due investigatori sembrano sempre fuori strada. Il rompicapo sembra davvero irrisolvibile. Invece, forse, tra tutte queste scartoffie si può leggere una verità. Una verità dal sapore amaro e dal retrogusto incerto, fatta di insabbiamenti e omertà, di ombre mafiose e poteri collusi, di comportamenti e ingiustizie così difficili da sradicare. Una lettura scorrevole e arguta che, tra il divertimento, nasconde non pochi spunti di riflessione.
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Il dossier
“Un evento mirabile e misterioso s’è verificato in Vigàta il 21 marzo 1890, Venerdì Santo, durante la sacra rappresentazione della Passione di Cristo, popolarmente detta il “Mortorio”: il ragioniere Antonio Patò, direttore della locale sede della “Banca di Trinacria”, funzionario irreprensibile, marito integerrimo e padre amoroso di due vivacissimi bambini, oltre che apprezzato Giuda nella predetta rappresentazione, come da copione è precipitato, al termine di questa, nella botola approntata per aprirsi, con meravigliosa verosimiglianza, sotto i piedi del traditore di Cristo, ma non è più riemerso per ricevere l’applauso del pubblico e poi rientrare nei consueti suoi panni di cittadino modello. Scomparso nel nulla, volatilizzato. Ma unni sinni ì Patò?”
“Murì Patò o s’ammucciò?”
Ho letto la vecchia versione edita da Mondadori, uscita nel 2000. Camilleri ci presenta il dossier con cui le forze congiunte della Polizia, dei Carabinieri, della Chiesa, della stampa, dei familiari, degli abitanti e di “illustri” turisti, si sono cimentate nella ricerca di Patò.
L’autore con ogni mezzo cartaceo e non, ci racconta la realtà siciliana di fine ottocento. Utilizza lettere, scritte sui muri, biglietti anonimi, interviste, protocolli, materiale riservato, dispacci a mano, articoli di giornali e soprattutto tanta ironia.
A tratti il libro diventa davvero esilarante e fra le righe possiamo leggere quello che spesso altri tentano di celare.
Per chi come me ha letto Montalbano, ritornare a Vigàta e Montelusa è sempre un piacere, specialmente quando la narrazione è così divertente.
“Mi fici pirsuaso ca quel grannissimu curnuto di raggiuneri…
MODERI I TERMINI!
…ca quel curnutu di raggiuneri…
TI HO DETTO DI MODERARE I TERMINI!
E non li moderai? Il grannissimu ci lo livai, ma u curnuto ci resta!”.
Un libro che consiglio anche se il passare da un articolo giornalistico, a una lettera scritta in corsivo, a una scritta a macchina e così via non è proprio il massimo, all’inizio bisogna entrare nel meccanismo e ricordarsi tutti i nomi, poi la lettura diventa solo un piacere!
Buona lettura!!