La pelle
Letteratura italiana
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La peste
Se si trattasse di un romanzo scritto ai giorni nostri farebbe molto clamore, verrebbe tacciato di omofobia, di crudezza eccessiva. Insomma farebbe parlare di sé. “La pelle” è invece semplicemente un romanzo disturbante, un pugno allo stomaco, ma dando a queste caratteristiche una connotazione assolutamente positiva. Malaparte con la sua prosa di qualità, a tratti pomposa, barocca, didascalica, fornisce una rappresentazione decisamente realistica della città di Napoli nell’ottobre del ‘43, al momento dell’arrivo degli Alleati a seguito della caduta del Fascismo.
Secondo la visione dell’autore, che narra in prima persona in qualità di ufficiale di collegamento con l’esercito alleato, la città di Napoli è lo specchio di un’Europa intera, di una “civiltà moderna, questa civiltà senza Dio, che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla propria pelle. Non c’è che la pelle che conta oramai”. Il lettore si trova così immerso all’interno di splendide pagine dove la città di Napoli emerge tanto nella sua bellezza quanto nella sua trivialità, in quanto “La peste era scoppiata a Napoli il 1° ottobre 1943...Era quella una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa”.
“La peste” (doveva essere il vero titolo di quest’opera poi cambiato esclusivamente perché nel frattempo Camus aveva dato alle stampe un libro così intitolato), è la rappresentazione di un degrado morale al quale non vi è rimedio secondo Malaparte. Degrado figlio del proprio tempo, conseguenza della sconfitta italiana, del popolo vinto, per questo colpevole agli occhi di se stesso ed a quelli dei vincitori, che si consegna nelle mani dei “colonizzatori” Alleati cercando di compiacerli. Le conseguenze sono nefaste: “per effetto di quella schifosa peste, che per prima cosa corrompeva il senso dell’onore e della dignità femminile” in città dilaga la prostituzione, compresa quella minorile, si fa mercificazione del proprio corpo, della carne. In aggiunta a questi aspetti la città si mette in vetrina, non esita ad allietare i conquistatori con le usanze, il folklore tipicamente partenopeo, e nemmeno la politica è esente da tutto questo. Secondo Malaparte infatti la voglia di libertà post bellica sfocia in comportamenti ambigui che investono le nuove generazioni: “siete dei poveri ragazzi che si vergognano d’esser borghesi, e non hanno il coraggio di diventar proletarii. Credete che diventar pederasti sia un modo come un altro di diventar comunisti”.
In ogni caso andando oltre alle pagine in cui si parla di guerra, di prostituzione, di politica, oltre la ferocia così squisitamente "Malapartiana", emergono riflessioni di una bellezza unica, pagine in cui la luce della speranza appare nel suo fulgore, descrizioni in cui si evince un rispetto profondo verso tutti coloro che hanno sacrificato la vita in nome della libertà, per salvare tutti gli Altri. Che si tratti di italiani, anglo americani poco importa, il sacrificio li accomuna, li pone tutti quanti sullo stesso piano, a livello di nuovi Cristi del XX° secolo.
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la liberazione negata
LA PELLE, DI CURZIO MALAPARTE (1898-1957), pubblicato dapprima in Francia in francese nel 1949 e alcuni mesi dopo in italiano in Italia.
NOTE SULL’AUTORE. Malaparte è stato uno scrittore e giornalista molto famoso (e chiacchierato) in Italia quando era in vita, ma è oggi molto più noto e apprezzato in Francia che in Italia, tant’è che nella pagina a lui dedicata in wikipedia.fr egli è definito come “uno dei più importanti prosatori della letteratura italiana del ‘900”. Avendo letto di lui “La pelle” e “Kaputt”, le sue opere oggi più note, nonché la sua biografia scritta da Giordano Bruno Guerri (fuori catalogo ma reperibile nelle biblioteche) mi sembra che il romanzo più interessante e intrigante di Malaparte sia … la sua vita, che risente di tutte, proprie tutte, le esperienze politiche e culturali dall’inizio del ‘900 all’anno della sua morte, il ‘57. Se ci si pone fuori da un conformismo culturale che impone di o condannare o lodare gli uomini che vissero in un’epoca in cui nessuno poté sottrarsi alla scelta fra l’adesione a un movimento di massa e la solitudine, Malaparte - come uno stendhaliano Julien Sorel novecentesco - impersonerà, certo non sempre suscitando simpatia a causa del suo egotismo, la complessità della storia.
CONTESTO DI VITA CHE FA DA SFONDO AL ROMANZO. Quando il 25 luglio del ‘43 Mussolini è arrestato e il re Vittorio Emanuele insedia al governo il generale Badoglio, CM rientra dalla Scandinavia dove si trova da più di un anno al seguito delle truppe italo-tedesche come “ufficiale comandato” (e infatti mantiene la divisa di capitano degli Alpini) alle dipendenze dell’ufficio stampa dello Stato Maggiore, e varie pagine de La pelle si riferiscono a episodi da lui vissuti nell’Europa del Nord e dell’Est. Al secondo breve arresto per i suoi trascorsi fascisti viene liberato grazie all’intervento dell’amico Henry Cumming, il colonnello statunitense al quale dedicherà “La pelle”, in cui egli è rappresentato dal colonnello Jack Hamilton. In cambio deve però arruolarsi come ufficiale di collegamento col Corpo Italiano di Liberazione al seguito dell’esercito alleato. Così, dopo un periodo di stanza, allo sfondamento del fronte a Cassino nel maggio ‘44 lascia Napoli con le truppe americane e con esse risale fino a Firenze. Nel romanzo egli segue l’avanzata degli Alleati fino a Milano, la Milano di piazzale Loreto, ma in realtà, una volta a Firenze, egli resterà a Livorno, sempre alle dipendenze di Cumming, per un anno e mezzo.
IL TITOLO. Inizialmente il romanzo doveva intitolarsi La peste, ma siccome Camus ha appena pubblicato il suo La peste, CM sceglie il titolo “La pelle” per motivi cui allude lui stesso in due pagine dell’opera: è per “salvare la pelle” che gli Italiani liberati dal giogo nazifascista si ammalano di peste, ovviamente peste morale (e “La peste” si intitola il primo capitolo), quella che li spinge a prostituire se stessi e finanche i figli per approfittare del denaro dei soldati americani.
CONTENUTO (il numero di pagina si riferisce all’edizione Oscar Mondadori). “La pelle” racconta alla prima persona il soggiorno a Napoli e poi l’avanzata a Roma a Firenze a Milano (dove arriva quando il cadavere di Mussolini è ancora esposto in piazzale Loreto) e infine di nuovo a Napoli, al seguito degli Alleati fra il ‘43 e il ‘44.
In questa narrazione non bisogna tanto cercare la verosimiglianza realistica quanto il racconto di un’immaginazione visionaria che non comporta obbligo di coerenza logica. Ogni capitolo racconta un’avventura, se così si può dire, che talora ne richiama alla memoria una analoga vissuta precedentemente. Spesso CM comincia con qualcosa come “Ero lì con … e facevo questo o quest’altro”, poi continua dicendo che si reca con uno o due suoi amici americani in un certo luogo, dove si affacciano su una stanza, dopodichè assistono o partecipano a qualcosa di molto singolare e a vario titolo disturbante che dà origine al titolo (per esempio la “figliata” che prepara l’orgia finale tra omosessuali, o il seppellimento di un ucraino ridotto da un carro armato a una pelle che può essere montata su un bastone e far da bandiera o quella del banchetto in cui viene servito un pesce che sembra una bambina). Anche il finale è “disturbante”: in una Napoli più pagana che cristiana il Vesuvio ha eruttato e si è spento, e i Napoletani vorrebbero resuscitare quel “dio morto” con processioni e invocazioni. “Eravamo sulla vetta di un vulcano spento. - scrive CM - Il fuoco … s’era spento … e ora a poco a poco la terra si raffreddava ... Non v’erano che uomini vivi e uomini morti, sulla terra. Tutto il resto non contava. Tutto il resto non era che paura, disperazione, pentimento, odio, rancore, perdono, speranza … Quella città laggiù … era popolata non già d’innocenti e di colpevoli, di vincitori e di vinti, ma d’uomini vivi vaganti in cerca di che sfamarsi, d’uomini morti sepolti sotto le macerie delle case” (p. 324). Ecco, in fondo al viaggio dei vincitori fra i vinti non c’è una terra promessa, ma una terra ricondotta alla realtà più elementare: la necessità di ricominciare a vivere.
L’ATTEGGIAMENTO DI MALAPARTE RISPETTO ALLA LIBERAZIONE. Colpito da un “bando morale” a causa dei suoi trascorsi fascisti e quindi filo-tedeschi, Malaparte sente da una parte il bisogno di far conoscere la sua partecipazione agli eventi bellici al fianco degli Americani, di enfatizzare la sua ammirazione per loro e di aumentare a dismisura il periodo del suo confino a Lipari, dall’altra parte il bisogno di ridimensionare il sentimento di vittoria degli Italiani. Come? Rappresentando la Resistenza nel cap. “Il processo” in cui un partigiano fucila a sangue freddo i giovani fascisti sulla scalinata di Santa Maria Novella; additando i tanti “eroi di domani” che hanno aspettano prudentemente nascosti il momento di uscire dalle cantine per gridare “Viva la libertà!” (p. 304 e 307); soprattutto, negando la “liberazione” e parlando piuttosto di “vincitori” e “vinti”. Per quanto riguarda i “vincitori”, che sono i soli Americani, da un lato CM tesse innumerevoli altissime lodi dei soldati americani, “morti inutilmente per la libertà dell’Europa”, dall’altra li rappresenta come coloro che pur involontariamente provocano la peste morale dei “vinti”, rappresentati fondamentalmente dai Napoletani, meritevoli di compassione perché da sempre dalla fame abituati a prostituirsi, ma anche altri: gli ebrei crocifissi agli alberi in Ucraina, l’ucraino ridotto a una bandiera di pelle, il suo povero cane Febo (per fortuna non fa affatto la fine che CM racconta), l’ex-fascista “il Magi” e Mussolini, metaforicamente rappresentato dall’enorme feto (sì, “feto”) della parte finale, espressamente onirica, del penultimo capitolo (“Il processo”). Di Mussolini CM scrive: “al pensiero che quell’uomo, un tempo così superbo e glorioso, ... se talvolta, nella mia cella di Regina Coeli o sulla riva solitaria di Lipari … m’ero compiaciuto di maledirlo … come fa l’amante con la donna che l’ha tradito, ora ch’era lì, feto nudo e schifoso, … arrossivo di rider di lui… io pure, per molti anni, prima di ribellarmi alla sua stupida tirannia, avevo come tutti gli altri piegato la schiena sotto il peso della sua carne trionfante ” (p. 315-316).
GIUDIZIO PERSONALE. Come probabilmente si è intuito leggendo quanto precede, Malaparte vuole colpire, e per colpire è disposto a menar fendenti. La sua musa è piuttosto quella del visionario Peter Brueghel di “Margherita la pazza” piuttosto che quella di Filippo Lippi che pur dice di amare, e da questo punto di vista tra le pagine più significative segnalo quelle della “figliata” (nel cap. “Le rose di carne”). Accanto alle molte pagine degne per esempio del teatro della crudeltà o degli spettacoli di Cocteau o del cinema di Bunuel o degli espressionisti tedeschi, CM intermezza descrizioni paesaggistiche molto belle, per quanto disseminate di troppi aggettivi relativi al colore e dissemina le sue pagine di così tanti elementi apparentemente realistici che si è continuamente sollecitati a verificarne la veridicità, per cui la lettura può esserne tanto più stimolante benchè più lenta. Segnalo qui di seguito le cose che mi hanno urtato:
1. alcune false citazioni (molte di versi poetici), soprattutto quella dell’ordine di Badoglio dell’8 settembre del ‘43 (p. 52);
2. i dialoghi inverosimili, che vorrebbero essere profondi o suggestivi, ma che a me suonano semplicemente sconclusionati e quindi noiosi;
3. “tutto sulle sue labbra diventava pretesto a pettegolezzo” (p. 131): a CM ben si applica quel che lui scrive a proposito di un suo personaggio: poiché CM parla e sparla di molte importanti personalità di cui sottace il nome, con l’intenzione abbastanza scoperta a mio avviso di suscitare la curiosità pettegola dei lettori contemporanei;
4. il fatto che CM menta spudoratamente sulla durata del suo confino a Lipari: a p. 155-156 parla di “anni d’esilio”, quando a Lipari c’è rimasto dal nov. ‘33 al giugno ‘341;
5. l’istrionismo di un uomo certo molto colto, intelligente, brillante, che però lascia perplessi per come mette in scena se stesso: la sua cultura classica e artistica, la sua conoscenza anche delle forme popolari della cultura italiana, il suo multilinguismo, la sua stupenda casa di Capri e la villa di Forte dei Marmi, le sue conoscenze altissimamente locate, la sua partecipazione attiva ai fatti d’arme al seguito di importanti graduati americani …;
5. il suo modo di rappresentare la plebe napoletana - e Napoli non gliel’ha perdonato - , verso la quale pronuncia parole di grande compassione (sì, compassione), ma che rappresenta sempre come più prossima al mondo animale che a quello umano (per es. regolarmente parla di “suoni gutturali” quando parla delle voci), dall’alto di un’aristocraticità che tradisce una sua fondamentale nostalgia per una società Ancien Régime in cui i signori proteggano il popolino, oltre che i migliori letterati e artisti, e il popolino si faccia proteggere dai signori;
6. il sarcasmo feroce sugli omosessuali (solo gli uomini peraltro), che per lui sono tutti colpevolmente marxisti / comunisti e pederasti, arrivando a scrivere per es. che “la corruzione dei costumi, nella gioventù europea, aveva preceduto, non seguito la guerra … Già molto prima dei dolorosi avvenimenti del 1939 era parso che la gioventù europea ... fosse vittima di un piano … diretto con freddo calcolo da una cinica mente ... Quella cert’aria equivoca nei modi, negli atteggiamenti, nei detti, nel tono delle amicizie, nella promiscuità sociale fra giovani borghesi e giovani operai … erano fenomeni già dolorosamente noti molto prima della guerra, specie in Italia (dove, in certi circoli di giovani intellettuali e artisti, massime pittori e poeti, si faceva della pederastia credendo di fare del comunismo) … Ciò che sopra tutto mi sorprendeva era il fatto che tale corruzione dei costumi giovanili ... avvenisse col pretesto del comunismo … E m’ero già più volte domandato … se ciò avvenisse spontaneamente … o non piuttosto in conseguenza di una sottile, cinica, perversa propaganda condotta di lontano, e mirante a dissolvere il tessuto sociale europeo, in previsione di ciò che gli spiriti deboli del nostro tempo salutano come la grande rivoluzione dell’età moderna.” (p. 125-126);
7. Parlando dei soldati americani di colore, mai una volta che dica “neri”, ma sempre “negri”, e questi “negri” sono sempre bestialmente sensuali e poco intelligenti; quanto ai soldati americani bianchi, CM mette in scena praticamente solo gli alti ufficiali che lui frequenta, tra i quali “Jack”, cioè Cumming Hamilton, che recita Omero in esametri greci, mentre i soldati semplici sono sempre evocati in modo indifferenziato come nella dedica: “i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani, miei compagni d’arme dal 1943 al 1945, morti inutilmente per la libertà dell’Europa” (sì, scrive proprio “inutilmente” (e spiega il senso di questa parola, in modo molto poco chiaro secondo me, nel documento III a p. 331, stralcio del “diario segreto” scritto durante il 1944).
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La pelle- la nuova bandiera da sventolare
"Non ha alcuna importanza" disse Jack "se quel che Malaparte racconta è vero, o falso. La questione da porsi è un'altra: se quel ch'egli fa è arte, o no."
Già, perché lo scrittore non è mai sincero e i suoi scritti sono sabbie mobili per chi cerca la verità dei fatti o ideologica: per chi cerca di capire chi era l'autore uomo e non l'autore artista, diventa invece terreno stabile per chi cerca la bellezza e la perfezione letteraria. Sotto questa lente ho letto "La pelle" e mi si è rivelata in tutto il suo splendore. Ambiguo il filo ideologico, molte cose che hanno stonato anche alle mie orecchie ma ingiustamente, perché mi focalizzavo su ciò che dovevo lasciare andare. Per fortuna ho raddrizzato la mia attenzione su ciò che davvero conta, perché ogni scrittore è figlio del suo tempo, spesso sporco dalla storia crudele.
Un'altalena continua questa lettura, sempre in bilico tra pietà e cinismo, solidarietà o accusa, fierezza e vergogna, vincitori e vinti, e che dipinge in maniera cupa ma nello stesso tempo allegra una città vinta, un paese vinto, un continente vinto. Napoli rappresenta lo stato d'animo e la situazione di tutta l'Europa, ha solo la (s)fortuna di essere tra le prime città "liberate". La libertà però è più forte dell'uomo che non la sa gestire, e infatti ne descrive lussuriosamente le conseguenza.
E' un libro in cui Dio manca, in cui ci si rifiuta di essere cristiani, in cui il Dio si cerca nella natura, nel Vesuvio, e Gesù lo si cerca tra coloro che sono morti nella guerra perché se non ce ne fossero allora tutto è stato inutile:
"Oh Jimmy, perché non vuoi capire che tutti quei morti sarebbero inutili, se non ci fosse un Cristo fra loro? perché non vuoi capire che vi son certamente migliaia e migliaia di Cristi, fra tutti quei morti? Lo sai anche tu che non è vero che Cristo ha salvato il mondo una volta per sempre. Cristo è morto per insegnarci che ognuno di noi può diventar Cristo, che ogni uomo può salvare il mondo col proprio sacrificio. Anche Cristo sarebbe morto inutilmente, se ogni uomo non potesse diventar Cristo e salvare il mondo."
Ci sono molti capitoli inquietanti. Alcuni per la miseria e la bassezza del popolo descritta, altri per le scene macabre e surreali, alcune delle quali si rivelano essere degli scherzi di cattivo gusto, altre delle messe in scena di tradizioni antiche, altre ancora di carattere misterioso ma nonostante questo, ho trovato la lettura agevole per via della preziosa prosa. I capitoli descrittivi sono delle perle vere e proprie in cui la ricchezza del vocabolario non diventa mai barocca, o fine a se stessa ma si intreccia a umanità con il risultato che resta impressa nel lettore:
"Il mare mi guardava fisso con i suoi grandi occhi imploranti, andando come una bestia ferita, ed io rabbrividii. Era la prima volta che il mare mi guardava in quel modo. Era la prima volta che io sentivo lo sguardo di quegli occhi verdi gravare su di me con una così pesante tristezza, con una tale angoscia, con un dolore così deserto. Mi guardava fisso, ansando, era proprio come una bestia ferita, aggrappata alla riva, ed io tremavo d'orrore e di pietà."
Impressionante il penultimo capitolo con la scena dei feti in laboratorio, un processo in cui viene accusato un feto mostro, che altro non è che Mussolini, e nel quale forse si legge un pizzico di dispiacere e desiderio di essere perdonato ma l'ambiguità domina anche questa scena e quindi difficile da interpretare ma bello e ingegnoso da leggere. Per me è un'opera d'arte e tanto basta per considerarlo uno dei romanzi migliori mai letti, soprattutto nel panorama italiano.
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Gertrude è innocente?
Mentre penso a cosa scrivere su questo libro di Malaparte, mi torna in mente il me di qualche anno fa alla presa con il più classico dei temi del liceo, “Getrude: colpevole o innocente?”. Sarà che quel “La sventurata rispose” mi aveva colpito più di quanto non avessi intuito, ma io Gertrude l’avevo prosciolta. E allo stesso tempo, qualche anno dopo, avevo difeso la filosofia di Heidegger all’indomani della pubblicazione dei “Quaderni neri”, esplicito documento del suo sostegno al nazionalsocialismo, perché in fondo, mi ero detto, l’architettura del pensiero, la bellezza del linguaggio, la profondità della riflessione non perdono smalto di fronte alla biografia. Eppure con il tempo anche le posizioni cambiano e così quanto siamo o non siamo disposti a perdonare. E oggi mi chiedo: a cosa serve filosofare, a cosa serve scrivere la bellezza, se questa non ci aiuta a scegliere quanto è giusto, a sentire le vibrazioni di quello che accade. Forse può sembrare un discorso fin quasi moralistico, ma non riesco a farne altrimenti.
Venendo al caso specifico, Malaparte ha il dono non comune di una prosa lussureggiante, evocativa, in cui suoni e colori si mescolano e rincorrono in un labirinto di citazioni coltissime, in cui basta un vento nero e feroce a tenere le redini di un capitolo o basta seguire un personaggio che cammina per le strade misteriose di Napoli per dipingere una città memorabile. Dal generale al particolare, dal particolare al generale, Malaparte scrive come dipingerebbe un pittore fiammingo, ma con più luce, con più strazio, con più passione. D’altronde l’enormità della guerra, l’assurdità della fame, della malattia, l’idea inconcepibile, ma pure così frastornante, dell’uomo che annienta un altro uomo richiedono, per poter essere davvero rese, una scrittura tesissima, spasmodica, sull’orlo della rottura. E il rischio che ne segue è che nei punti di massima tensione, una scrittura già esasperata, debba, per rendere l’akmé, quasi negare se stessa. E in effetti i punti di maggior orrore (la vivisezione, l’esposizione della vergine, la cena cannibalesca) non di rado sfiorano la tenerezza. E Nei suoi punti migliori, mi pare, il libro è circonfuso dalla delicatezza improvvisa che si apre nel caos soverchiante della guerra e della distruzione, dal respiro calmo della natura e dal riposo di una notte che profuma di pietà, ma troppo spesso Malaparte indulge nell’orrore che non ha motivo di essere, si compiace dello stupore di una nuova aberrazione e per farlo mistifica fin oltre il consentito la realtà. Non è un caso che nel teatro classico la violenza non venisse rappresentata sulla scena, perché la violenza è preziosa e pericolosa, può sbilanciare completamente una narrazione; perché anche sulla pagina, quando è gratuita, è già un passo oltre il lecito. Malaparte conosce benissimo la letteratura greca e latina, anzi, la fa conoscere, in modo un po’ inverosimile, a un soldato americano, fino a citare i più lontani lirici, Simonide, Pindaro, Anacreonte, ma forse dei classici dimentica una lezione cardine: l’aura mediocritas, il concetto di limite, il senso dell’equilibrio. Questo non significa che la violenza non debba trovare spazio, ma deve essere finalizzata a qualcosa di valido, come accade ad esempio in “Arancia meccanica” di Kubrik. Qui, invece, mi pare che troppo spesso la personalità dell’autore offuschi la bellezza della scrittura e che forse troppo spesso l’esuberanza non sia adeguata allo scopo. Ci sono almeno un paio di capitoli che potrebbero scomparire, qualche scena che si potrebbe tagliare, ma farei torto alla personalità dello scrittore, che dunque valuto così com’è: ammiccante, compiaciuta, vagamente egocentrica. Non a caso Malaparte, che si inserisce come personaggio del libro, quasi sempre esce vittorioso dalle discussioni, quasi sempre fa una bella figura.
Ecco non vorrei che tutto questo faccia dimenticare quanto di bello il libro riserva, l’idea che tutti, vincitori e vinti, escano ugualmente sconfitti dalla devastazione, l’idea che l’uomo può scendere ogni gradino dell’abiezione per salvarsi, gli affreschi meravigliosi del Vesuvio che erutta, della Napoli vivace e quasi mistica che trapela dall’uscii delle porte; la stessa Napoli in cui si perde e vaga Andreuccio da Perugia, in una celebre novella del Decameron, perché è la città, con le sue strade e i suoi buchi d’ombra, a rappresentare il vero centro della narrazione, col suo percorso di dannazione e salvezza, di cateresi e catarsi. Forse la scena più bella del libro è quando dopo l’eruzione del Vesuvio la terra rinasce e pare che quasi si tratti dell’Eden, di uno spazio vergine, del primo passo dell’uomo su un pianeta intoccato. Eppure proprio perché il libro parla di temi tanto delicati, tutto avrebbe meritato più attenzione, più cura e meno circo, meno protagonismo. Perché non bastano le intenzioni a rendere buone le azioni. Nella vita, come nella letteratura.
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Del perché sia un libro bello
Della famigerata lettera di Alessandro Manzoni, iniziatore del romanzo storico in Italia, al marchese D'Azeglio “Sul Romanticismo” (1823) tutti ricorderete le parole: “Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter esser questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo.” La necessità, dunque, per fare letteratura, di un argomento legato al contingente, al reale; di un argomento capace di “scoprire e di esprimere il vero storico e il vero morale”, perché “sorgente del bello”, perché” il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere.”
Dopo aver vissuto sensazioni contrastanti, allontanamenti repentini e riappacificazioni altrettanto estemporanee , tanto da farmi dubitare di un qualsivoglia residuo di giudizio, mio, personale, nel leggere questo controverso testo cardine della nostra letteratura italiana del novecento, mi sento ora di poter affermare che oltre a essere un libro utile , esso sia pure un libro bello. Sì, avete ben compreso, un libro bello, inteso, ricalcando le parole di Manzoni, come un libro capace di esprimere il vero storico e il vero morale. Non sono giunta a questa convinzione facilmente, in maniera netta, pulita; tutt’altro anzi, perché la materia di questo romanzo storico è respingente, su più fronti, nel contenuto, macabro, grottesco, a tratti surreale e orrido come le peggiori visioni infernali; perché il rischio di leggerlo seguendo una qualsivoglia ideologia (basti , per tutti, ma non è l’unico, il binomio fascista/ comunista - partigiano)è molto elevato; perché ancora l’ombra del suo controverso autore è feroce: rischia di oscurare tutto. Leggere questo romanzo, a mio parere, per ben leggerlo, significa entrare in una dimensione asettica, come quella necessaria prima di un intervento chirurgico; leggerlo evitando dunque qualsiasi contaminazione e soprattutto leggerlo con gli occhi di un lettore non del narratario ipotetico che possiamo presumere possa essere stato il primo destinatario dell’opera. Noi non lo stiamo leggendo all’indomani del secondo conflitto mondiale, io personalmente non l’ho nemmeno vissuto, per mia fortuna, anche se ha lasciato viva memoria in mia madre ancora vivente e di conseguenza indirettamente anche in me; noi abbiamo la fortuna di una lettura meno ideologizzata della storia italiana, della stessa lotta partigiana anche se viviamo ancora in un’epoca di forti strumentalizzazioni ideologiche( basti pensare alle vergognose polemiche che hanno annebbiato il 10 febbraio scorso e l’incapacità generale di leggere ancora alcune pagine della nostra storia); noi siamo i lettori dell’oggi che possono solo, a mio modesto parere, ringraziare il dato oggettivo fotografato da Curzio Malaparte. Un Paese sotto una dittatura, un Paese vinto, un Paese infine liberato da un vincitore, un Paese sconfitto, sotto tutti i punti di vista; un Paese infine ammorbato dal male, come tutta l’Europa, ma, a ben vedere come tutto il mondo; perché non c’è distanza alcuna tra vinto e vincitore dove a trionfare è solo il Male. Una storia che non lascia spazio a espiazione o a redenzione alcuna ma che condanna, in una disfatta generale, qualsiasi ideologia, qualsiasi posizione: quella del vinto, quella del vincitore, quella del fascista, del comunista, del partigiano, del cattolico … è il trionfo della morte dell’uomo, del suo umanesimo schiacciato dalla guerra.
Sono dunque convinta assertrice della necessità di recuperare questo libro, di farlo conoscere, perché penso sia un libro profondamente coerente, leale, oggettivo e coraggioso per le posizioni espresse. È vero, non è un libro perfetto, a tratti è ripetitivo e disturbante, ma letto fino in fondo esprime una profonda umanità, un interesse vivo e reale per il bene del nostro popolo, non è un libro “bello” perché racconta l’orrore ma è un libro originale perché lo fa attraverso molteplici moduli stilistici e letterari, senza risparmiare il grottesco e il surreale, è un libro dall’intelligente ironia ma anche un libro doloroso. È l’esperienza di un uomo in un ennesimo viaggio al termine della notte; una notte che spesso è stata metafora della perdita dell’umanità. L’unico tratto peculiare che rende l’essere umano, o dovrebbe, renderlo tale.
Mi dispiace di non aver scritto niente di dettagliato e forse di utile ai fini di una recensione, posso solo sperare che le mie parole permettano ad altri di accostarsi , nella maniera corretta, a questo scritto che annovero, a livello stilistico, tra i più alti e belli, dunque, che mi sia capitato di leggere nella mia esperienza di lettura.
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Il ventre aperto di Napoli
L’opera del toscano Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Suckert) è il racconto crudo e di denuncia dei giorni pieni di miseria e, al tempo stesso, di euforia, della città di Napoli liberata dagli Alleati Americani, durante la seconda guerra mondiale.
“L’onore di esser liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano” dopo anni di fame, stenti , epidemie e bombardamenti. Una città che è quasi un ventre aperto, che mostra tutte le bassezze e tutto il suo inferno.
Napoli è una città distrutta, messa in ginocchio, non solo “fisicamente”, esteriormente, ma anche nell’animo. Sono i giorni della peste di Napoli, il battesimo dell’Europa liberata avviene nel segno dell’epidemia. La miseria ha raggiunto il picco e il morbo ha mandato in cancrena anche l’animo dei napoletani diventando una peste morale, un marciume che attecchisce anche presso un popolo che, dice l’autore, è tra i più generosi al mondo. Mai prima di allora Napoli si era abbassata a tanto, il fondo non era stato ancora toccato. Assistiamo attoniti e inorriditi, al pari dei soldati americani accompagnati in città dall’italian liaison officer Malaparte, al mercimonio dei corpi. Di fronte al benessere degli americani, alla libertà finalmente conseguita, i napoletani mettono in vendita tutto e tutti: bambini, mogli, figlie e madri. Che cosa non si fa per un pacchetto di sigarette e una manciata di caramelle?
“La libertà costa caro. Molto più caro della schiavitù. E non si paga né con l’oro né col sangue, né con i più nobili sacrifici: ma con la vigliaccheria, la prostituzione, il tradimento, con tutto il marciume dell’animo umano”.
Di fronte al degrado, alla corruzione della città, all’esercito internazionale degli invertiti, agli orrori dei bombardamenti prima e all’eruzione del Vesuvio poi, l’atteggiamento dell’autore-narratore non è mai chiaro. C’è pietà e comprensione, ma c’è anche denuncia. Malaparte non dà mai un giudizio netto, gli piace contraddire ed essere contraddetto, il gusto della provocazione campeggia anche in questo intenso romanzo. Malaparte è stato sempre una penna scomoda, che scriveva mirabilmente, ma che centrava la realtà al di fuori di ogni ipocrisia.
L’opera venne pubblicata nel 1949 e nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto intitolarsi “LA PESTE”, ma proprio nel 1947 Camus lo aveva preceduto e quindi la scelta cadde sulla parola “La pelle”. Mai titolo fu più calzante. Quale profeta, l’autore indica nella salvezza della pelle, dei bisogni primari dell’uomo, lontani da ogni antico ideale, la nuova piramide dei valori umani, una piramide capovolta.
“Voi non immaginate neppure di cosa sia capace un uomo, di quali eroismi e di quali infamie sia capace, per salvar la pelle. Questa, questa schifosa pelle, vedete? (…)Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle (…) Tutto il resto non conta”.
Una Napoli distrutta, ma che conserva sempre la sua teatralità evidenziata ed enfatizzata dal meraviglioso artifizio della scrittura di Malaparte che è fatta di immagini. Una prosa sontuosa e ricca, che echeggia Virgilio , Dante e Boccaccio, ma anche Euripide e Sofocle. Un vero parlare attraverso similitudini classiche, termini presi dagli antichi poemi, dalle grandi opere del passato, descrizioni e paragoni con le opere d’arte di tutti i tempi, a testimonianza della grande cultura dell’autore. Indimenticabili le descrizioni del golfo e del paesaggio intorno, i vicoli con i tabernacoli, le scene di coralità tipica del popolo napoletano, la puntualità dei toponimi anche oltre la penisola sorrentina (Malaparte aveva una casa sull’isola di Capri). Una scrittura che dipinge i colori dai più tenui e delicati a quelli più violenti ed accesi, uno stile che riesce a riprodurre anche gli odori, gradevoli o no. Ed eccoci quindi anche noi nei vicoli a godere del profumi dei taralli appena sfornati, delle ginestre e dei fiori che si unisce spesso all’odore del mare, eccoci affacciati al parapetto ad ammirare l’intero golfo e un cielo troppo azzurro su una città che piange.
Una scrittura che coinvolge i sensi simultaneamente e perciò sinestetica. Lascio al lettore la scoperta di una prosa densa, ma scorrevole, magnifica in alcuni passaggi onirici dalle tinte apocalittiche come nel capitolo “ Il vento nero” e quelli paurosi e grandiosi insieme dedicati all’eruzione del Vesuvio, ne “La pioggia di fuoco”.
Le scene cruente e dolorose sono tante, ma sono necessarie anche se talvolta alcune pagine tradiscono un indulgere esagerato e, probabilmente compiaciuto e provocatorio, nella descrizione di autentici orrori che potrebbero infastidire anche il lettore meno impressionabile e paziente.
Un romanzo indimenticabile dimenticato in Italia, profetico ed attuale per certe tematiche.
Vivamente consigliato.
Indicazioni utili
Si avvisano i lettori più sensibili che ci sono molte scene crude, compresa la vivisezione dei cani.
Un capolavoro crudele
E’ molto difficile recensire un capolavoro, e questo sicuramente lo è, ci si sente inadeguati di fronte alla grandezza della letteratura. L’azione del romanzo si svolge indicativamente in un periodo che va dall’ottobre 1943, quando le truppe alleate anglo-americane sbarcarono a Napoli per iniziare la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, fino alla primavera del 1945 quando quelle stesse truppe entrarono a Milano. L’autore è il protagonista stesso del romanzo ed essendo stato nominato Ufficiale di collegamento tra l’Esercito italiano e le forze alleate ha quindi uno sguardo privilegiato sul mondo che lo circonda però lo racconta e lo interpreta a suo modo e nel suo stile. Ed è proprio il modo di raccontare l’estrema alienazione umana senza risparmiare nulla che ha fatto de “La pelle” un libro maledetto e di Malaparte un autore scomodo. Infatti non si può leggere “La pelle” senza prescindere dalla vita del suo autore; in Italia è sempre stato avversato dall’intellighenzia culturale forse per il suo essere un “maledetto toscano” (nel libro c’è tutta la sua toscanità), forse perché fu fascista della prima ora (salvo poi diventare critico verso il regime tanto da essere spedito al confino), fatto sta che la sua fama ancora oggi è all’estero soprattutto in Francia. Questo romanzo è una rappresentazione della verità nel suo aspetto più crudo, scritto da uno scrittore giornalista geniale, lucido, spietato. Da sottolineare l’analogia con la Divina Commedia dove qui Malaparte è un Virgilio poeta che svela al viaggiatore americano suo amico (il colonnello Hamilton) l’inferno nel quale è arrivato. Per la maggior parte il racconto è ambientato a Napoli tranne che per due capitoli, l’XI e il XII, nei quali è narrata l’avanzata delle truppe alleate verso nord e l’arrivo prima a Roma, poi a Firenze (passando per Prato città natale di Malaparte) ed infine a Milano. Con l’arrivo degli americani giunge a Napoli la peste intesa come corruzione, degradazione morale “il morbo…non corrompeva il corpo, ma l’anima”, tutto è in vendita, dignità, onore, corpi, bambini, oggetti, dappertutto c’è orrore, devastazione. Ma Malaparte pur rappresentando l’alienazione fisica e morale del popolo napoletano ha sempre un sentimento di pietas nei confronti dei vinti e dei liberati; Napoli è vista come metafora dell’Europa intera e della disperazione che rende disposti a tutto per sopravvivere. L’autore accettando l’assunto che il male esiste riesce benissimo a contemplare le bruttezze, l’abiezione, senza rifiutarle, sia quando le trova in sé stesso sia quando le vede negli altri, non esimendosi però dal provare vergogna (questo è un tema ricorrente in tutto il romanzo). “ Perché non siete rimasti a casa vostra? Nessuno vi ha chiamati..” l’autore è molto critico nei confronti degli americani che, volendo portare la “civilizzazione” insieme alla liberazione delle popolazioni europee, ritenendosi migliori degli altri, in realtà sono i portatori della peste che pervade tutta l’Europa. Ed ecco l’eruzione del Vesuvio -18 marzo 1944- meravigliosamente descritta nel IX capitolo, vista come forza catartica che lava via la peste, quasi una rinascita dalla distruzione, un segno di speranza. E’ vero, ci sono descrizioni di episodi disturbanti, che sono come colpi nello stomaco ma, prima di ogni crudo racconto, Malaparte ci descrive in modo poetico ed espressionista la natura, la pace, i luoghi, gli stati d’animo mitigando così nel contrasto l’atrocità della storia. Tra tanta magnifica letteratura primeggia il racconto su Febo, il cane dell’autore, ed è una storia traboccante di umanità “L’incontro di un uomo e di un cane, è sempre l’incontro di due liberi spiriti, di due forme di dignità, di due morali gratuite. Il più gratuito, e il più romantico, degli incontri”. Perché “La pelle”? in origine doveva chiamarsi “La peste” ma poiché uscì prima il famoso romanzo di Camus fu cambiato il titolo al libro di Malaparte ma io ritengo che sia stato meglio così; l’autore ci dà in due parti del romanzo un’attinenza al titolo: nella prima parlando col generale Guillaume egli spiega che è la pelle ad averci ridotto così, di che cosa sia capace un uomo per salvare la pelle “Non ci si batte più per l’onore, per la libertà, per la giustizia. Ci si batte per la pelle, per questa schifosa pelle”; nella seconda racconta di un uomo finito sotto i cingoli di un carro armato che viene portato sollevato su una vanga a mo’ di bandiera “ …c’è scritto che quella è la bandiera della nostra patria, della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle”. Il romanzo non è un unicum temporale: essendo uscito a puntate, vi si nota la differenza di visione della realtà negli ultimi tre capitoli, scritti più tardi, contenenti sentimenti di umanità che poco si riscontrano nella prima parte del libro ma anche giudizi più politici e personali (contro il regime, i politici e i cosiddetti “falsi resistenti” gli eroi di domani che erano nascosti nelle cantine ). Mi ha colpito molto anche la previsione contenuta in un dialogo tra Malaparte e Jeanlouis che ci riguarda molto da vicino:” E crederanno d’essere uomini liberi. L’Europa sarà un paese d’uomini liberi: ecco quel che sarà l’Europa” e pensare che è stata scritta sulle macerie delle nazioni settant’anni fa! Questa è la grandezza di Malaparte che con “La pelle” è stato anche un precursore di quella che oggi si chiamerebbe docu-fiction. Ci si chiede se quello che Malaparte racconta sia vero (io penso che sia verosimile): la risposta ce la dà l’autore stesso nel libro “Non ha alcuna importanza se quel che Malaparte racconta è vero o falso. La questione da porsi è un’altra: se quel ch’egli fa è arte o no”. A mio avviso sicuramente si.
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Un libro allucinante
Se Kaputt può essere definito un libro crudele, La pelle invece può essere considerata un’opera allucinante, tanto è spinto all’estremo il desiderio di Malaparte di descrivere, in una Napoli prostrata e affamata dalla guerra, la prepotenza dei liberatori che come una peste divora gli abitanti spingendoli, per sopravvivere, a barattare l’unico bene che possiedono, il loro corpo. Certo nello scrittore toscano, che ricordiamo fascista della prima ora e poi, con il trasformismo che quasi sempre ci caratterizza, diventato ufficiale di collegamento con le truppe alleate, alberga un fondo di risentimento per gli antichi nemici che lo porta anche a eccedere nel descrivere le loro nefandezze, sovente estremizzate da una fantasia che intende rappresentare, attraverso il surreale, una realtà oggettiva di autentico e disperato squallore. Nel libro, infatti, incontriamo episodi di pedofilia, di orge sfrenate omosessuali e, poiché al peggio non c’è mai limite, anche di cannibalismo. Ma se nel comportamento della popolazione, in questo loro cedere a un ricatto che toglie ogni dignità, c’è la giustificazione del bisogno primario di riempire stomaci vuoti, nei vincitori invece c’è la frenesia di dimostrate la loro potenza economica, tale da soddisfare anche necessità che in altre occasioni e in altri luoghi non sarebbero emerse; anche loro annullano la propria dignità, ma in fin dei conti sono i peggiori, poiché non rispondono in questo alla necessità di soddisfare esigenze inderogabili; i vincitori appaiono così come degli dei a cui tutto è possibile e a cui tutto è concesso.
Aleggia uno spirito di morte, ma non di morte del corpo, bensì dell’anima, un senso di putrefazione dei sentimenti e della dignità reso in modo splendido, e pur tuttavia Malaparte, forse conscio che alla lunga il lettore, dapprima stupito e poi annichilito, potrebbe arrivare a chiudere il libro schifato da tante oscenità, ha il pregio di alternare passi che oserei definire di autentica poesia, come quello che segue e che parla di quella che una caratteristica nota in tutto il mondo della città partenopea: “Simile a un osso antico, scarnito e levigato dalla pioggia e dal vento, stava il Vesuvio solitario e nudo nell’immenso cielo senza nubi, a poco a poco illuminandosi di un roseo lume segreto, come se l’intimo fuoco del suo grembo trasparisse fuor della sua dura crosta di lava, pallida e lucente come avorio: finché la luna ruppe l’orlo del cratere come guscio d’uovo, e si levò estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera. Salivano dall’estremo orizzonte, quasi portate dal vento, le prime ombre della notte. E fosse per la magica trasparenza lunare, o per la fredda crudeltà di quell’astratto, spettrale paesaggio, una delicata e labile tristezza era nell’ora, quasi il sospetto di una morte felice.”
Mentre leggevo il libro mi sono ricordato di una pellicola di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, che per certe scene richiama La pelle; ebbene il film è un macabro apologo del potere che dilania se stesso e forse Malaparte è quello che ha inteso dimostrare, cogliendo nei vincitori, e quindi nei detentori del potere, quel senso di immaturità che è propria degli uomini che, beneficiati da successi, si credono capaci di tutto, scandendo quasi a rotta di collo nella scala dell’abiezione e finendo così con l’essere i perdenti di se stessi.
Nella pellicola sono rappresentati gli ultimi bagliori di un potere agonizzante, nel libro invece sono descritti i deliri di un potere trionfante, ma è questa l’unica differenza, poiché il potere in entrambi i casi corrode gli uomini che lo detengono e quindi una società è sana e salva solo se non c’è chi ha più potere degli altri, o comunque se a chi comanda sono delegati poteri ben limitati che fa sentire i detentori servi al servizio della comunità e non padroni.
Pur con qualche riserva, in particolare per chi non sopporta scene sgradevoli, che tuttavia sono funzionali all’opera, La pelle è un libro senz’altro consigliato, perché è unico sotto tutti gli aspetti e a patto di tener conto del fine per cui è stato scritto.