Narrativa italiana Romanzi storici La mossa del cavallo
 

La mossa del cavallo La mossa del cavallo

La mossa del cavallo

Letteratura italiana

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Un coinvolgente romanzo storico-politico che trae spunto da un reale fatto di cronaca: l’assassinio di un prete corrotto. Siamo nella Vigàta di fine Ottocento: il protagonista, un “siciliano che parla genovese”, testimone dell’uccisione del prete, poche ore dopo aver reso la sua deposizione viene arrestato e accusato proprio dell’omicidio denunciato. Questo drammatico rovesciamento dei ruoli lo costringe a combattere per affermare la propria innocenza; e ci riuscirà, recuperando il suo dialetto, il siciliano, e con esso il modo di pensare dei suoi padri.



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La mossa del cavallo 2017-03-24 14:31:50 lapis
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lapis Opinione inserita da lapis    24 Marzo, 2017
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“Penserò e parlerò accussì”

Settembre 1877. In qualità di nuovo Ispettore Capo dei Mulini arriva a Vigata il ragionier Giovanni Bovara, un siciliano cresciuto ed educato a Genova, con l’incarico di sostituire i suoi due predecessori, morti in circostanze non propriamente naturali. Dal Nord porta i suoi pensieri in dialetto ligure, un incorruttibile senso del dovere e un’apparente ingenuità che lo induce immediatamente a mettere il naso in una rete di loschi traffici mafiosi e a farne candida denuncia. Ed è così che Giovanni, trovatosi per caso testimone di un omicidio, finirà intrappolato in una ragnatela di furbizia e omertà, tessuta ad arte per incastrarlo. Per provare a salvarsi, non rimane che una possibilità: cominciare a pensare e parlare in siciliano.

Andrea Camilleri prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, citato da Leopoldo Franchetti in “Politica e mafia in Sicilia” del 1876, e attorno a questo episodio costruisce una serie di personaggi e storie parallele che vanno a comporre una trama ricca e di piacevolissima lettura. Sfilano davanti a noi funzionari opportunisti e corrotti, una bellissima donna dal fascino ambiguo, un parroco usuraio e donnaiolo e tanti paesani con la bocca cucita. Il tutto per mettere in scena ancora una volta l’anima della Sicilia con le sue sfaccettature, i suoi comportamenti e i suoi implacabili meccanismi.

Lo stile è quello inconfondibile dello scrittore siciliano, capace di parlare con leggerezza e ironia di un argomento come la corruzione e l’assenza di giustizia, purtroppo così tristemente attuale ancor oggi. Questa volta il tipico linguaggio siculo-italiano di Camilleri, però, si sfaccetta ancor di più perché la lingua qui non è solo uno strumento per raccontare ma si fa simbolo di un universo di mentalità e valori apparentemente inconciliabili. Il dialetto ligure dell’eroe con il suo romantico senso di giustizia si alterna così all’italiano pomposo e volutamente incomprensibile dei carteggi ufficiali, a rappresentare quella rete di soprusi e protezioni che sembra impossibile da scalfire, e alla parlata siciliana, che sa di paura, di rassegnazione ma anche di furba astuzia. E per provare a vincere serve proprio tentare una mossa astuta, la mossa del cavallo, l'unico pezzo della scacchiera che può scavalcare tutti gli altri. Per scoprire se sarà sufficiente per salvarsi non rimane che leggere il romanzo. E, una volta iniziato, sarà di certo impossibile non finirlo in poche ore.

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La mossa del cavallo 2015-12-25 20:54:37 FrancescoMirone
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FrancescoMirone Opinione inserita da FrancescoMirone    25 Dicembre, 2015
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NOMI PARLANTI

Il romanzo tratta delle vicende di Giovanni Bovara,ispettore di polizia nato a Vigata(Sicilia) ma cresciuto a Genova,che ha prestato servizio già a Reggio Emilia,ma viene poi spedito a Vigata,nel cuore della Sicilia,per prendere il posto di un ispettore che è passato a miglior vita.
Partiamo dal titolo,che parla già da sé,la mossa del cavallo è ovviamente riferito al movimento a ''L'' che la figura del cavallo può compiere nel gioco degli scacchi,anche scavalcando altre pedine,è proprio ciò che il Bovara sarà costretto a fare per tirarsi fuori dalla congiura pianificata contro di lui.I nomi dei personaggi parlano da sé,il prete,che tutto è tranne che un prete,viene chiamato Padre Carnazza(inevitabile il riferimento ai piaceri della carne).Ma il vero protagonista del romanzo sembra essere,contro ogni previsione, il linguaggio.Il romanzo è scritto in tre lingue differenti: genovese,siciliano e italiano. All'inizio del romanzo il Bovara alterna italiano e genovese,ma la svolta dell'intreccio sembra coincidere con il recupero del dialetto siciliano da parte del protagonista,che decide di abbandonare l'italiano e il genovese per parlare solo siciliano,al fine di evitare fraintendimenti.Stupefacente è il fatto che il Bovara cambi anche la lingua che utilizza per pensare,egli passa dal genovese al siciliano,in questo caso è possibile parlare di 'ritorno alle origini'.Camilleri si è sicuramente cimentato in un'impresa più che titanica,sfido chiunque a utilizzare genovese,siciliano e italiano nello stesso romanzo.Camilleri immortala lo scenario dell' Italia postunitaria,paradossalmente,sembra non essere cambiato nulla fino ai giorni nostri,si tratta del solito gioco delle parti,grazie al quale il testimone diventa il colpevole,scenario che si ripete e si è ripetuto più volte anche nell'età contemporanea,un gioco basato sull'omertà,anche chi sa,non parla,fa finta di non sapere. Degno di nota è lo scambio epistolare tra i vari funzionari statali,simbolo di una burocratizzazione eccessiva che non porta a nulla,al contrario,danneggia solo il diretto interessato. Ci tengo inoltre a precisare che tale romanzo sembra appartenere alla classe dei romanzi '' a chiave'',i quali descrivono la realtà dietro una facciata di finzione,in questo caso la storia del Bovara sembra essere il simbolo dell'Italia postunitaria,un'Italia che ha ancora tanti passi da fare,ancora oggi.

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La mossa del cavallo 2014-07-18 20:41:56 pierpaolo valfrè
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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    18 Luglio, 2014
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Camilleri....che altro?

Vigata, 1877. In Italia governa da un anno la Sinistra di Agostino Depretis, che poco dopo avvierà insieme a Marco Minghetti, esponente dell’ala liberale della Destra Storica, la pratica del trasformismo.
E’ ancora in vigore la tassa sul macinato, introdotta nel 1868, che tante rivolte produsse nel nord del Paese, soffocate militarmente con migliaia di arresti e centinaia di morti e feriti. Anche nella siciliana Vigata e nella vicina Montelusa, sede della Prefettura, c’erano state rivolte soffocate nel sangue. Nulla da stupirsi dunque se due funzionari dello Stato affamatore, due ispettori dei mulini, erano stati assassinati nel giro di pochi anni.
Il loro successore si chiama Giovanni Bovara, nativo di Vigata, poi trasferito quando era ancora piccolo a Genova. Ritornato nei luoghi d’origine, in lui convivono l’ordine e la disciplina del funzionario con molti anni di servizio nell’amministrazione sabauda, il dialetto genovese che gli sgorga spontaneo nei momenti di abbandono e di emozione (come quando “da giovane si confondeva per le donne”) e la natia arguzia e parlata siciliana, nascoste da qualche parte dentro di lui, ma pronte a uscire fuori al momento opportuno, per trarlo dagli impicci e dare scacco matto agli avversari.
Ci sono parecchie cose strane all’Intendenza di Finanza di Montelusa riguardo l’attività dei mulini, a cominciare da quella vera e propria “corte dei miracoli” costituita dal nutrito gruppetto di “sottoispettori” che avrebbero dovuto vigilare ognuno sulla sua porzione di territorio. Tutti erano stati “segnalati” per l’incarico dall’avvocato Fasulo, un uomo molto pio e gran benefattore e soprattutto buon amico di Don Cocò Afflitto, proprietario di mulini e terre nella zona, che come tutti i veri potenti non entra mai nella storia, ma se ne sta piuttosto sullo sfondo e nell’ombra. A muoversi, tramare, sudare, affannarsi sono sufficienti l’avvocato Fasulo, il delegato di pubblica sicurezza Spampinato e suo fratello Gnazio, l’intendente di Finanza Felice La Pergola, detto “lo scrafaglio merdarolo” e poi politici, ministri, vescovi: sono in tanti a dover qualcosa a don Cocò.
In parellelo si svolge la gustosa vicenda di un prete donnaiolo, padre Artemio Carnazza. La sua porta era sempre aperta per le devote parrocchiane che, dopo la messa del mattino, salivano le scale di legno che dalla sagrestia conducevano all’abitazione del “parrino”. Perché “patre Carnazza amava la natura. Non quella degli aciddruzzi, delle picorelle, degli àrboli, delle arbe e dei tramonti, anzi di quel tipo di natura egli altissimamente se ne stracafotteva. Quella che a lui lo faceva nèsciri pazzo era la natura della fìmmina che, nella sua infinita varietà, stava a cantare le lodi della fantasia del Criatore: ora nìvura come l’inca, ora rossa come il foco, ora bionda come la spica del frumento, ma sempre con sfumature di colore diverse, con l’erbuzza una volta alta che sontuosamente oscillava al soffio del suo fiato, un’altra volta corta corta come appena falciata, un’altra volta ancora fitta e intrecciata come un cespuglio spinoso e sarvagio. Sempre si meravigliava quanno che ne vedeva una nova, perché nova novissima era veramente con tutto il suo particolare da scoprire…”.
L’ultima scoperta di patre Carnazza è donna Trisìna Cìcero, una “trentina mora, con gli occhi verdi sparluccicanti e due labbra rosse come le fiamme dell’inferno. Mischineddra, era rimasta vedova da tre anni. Da allora si vestiva tutta di nìvuro, a lutto stretto, lo stesso però gli òmini quando che la vedevano passare facevano cattivi pinsèri, tanta grazia di Dio senza che ci fosse un màsculo a governarla”.
In realtà Donna Cìcero, “grandissima buttana”, si governava benissimo da sola e a padre Carnazza aveva imposto anche un minuzioso tariffario: “la taliata di tutt’e due le minne nude, trecento grammi di zùccaro; una vasata senza lingua, mezzo chilo di farina; una vasata con la lingua, un chilo di pasta fina di Napoli; una vasata con la lingua e le due minne nude, tre tazzine di porcellana e relative sottotazze…”
Don Carnazza si era fatto molti nemici: gli invidiosi, i mariti cornuti, le amanti rimpiazzate, ma anche i poveri diavoli che lui strozzinava con prestiti da usura e i parenti defraudati in questioni di eredità.
Succede che l’ispettore Giovanni Bovara inciampa, fisicamente e metaforicamente, in patre Carnazza e da quel momento le due vicende si annodano si avviluppano, cacciando il Bovara in un mare di guai da cui abilmente riesce ad uscire riflettendo sulle differenze linguistiche tra italiano e sicilano, imparando bene una certa lezione con cui i suoi nemici volevano incastrarlo: “Quello la lezione se l’imparò e ce la sta mettendo nel culu para para!”
Interessanti anche gli scambi epistolari tra le diverse autorità, gli avvocati, i politici, scritte nell’italiano ampolloso e burocratico di fine ottocento, che si caratterizza come una terza curiosità linguistica, dopo il genovese (praticamente incomprensibile) e la parlata della Vigata di Camilleri.
Nell’ultimo capitolo i personaggi del romanzo fanno dei sogni, che Camilleri racconta ispirandosi, fra gli altri a Kafka, Faulkner, Sciascia (qualche analogia tra il capitano Bellodi, il generale Dalla Chiesa e il ragionier Bovara ), Hemingway, Joyce, Proust.
Duecento pagine che volano via anche troppo in fretta.

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a chi ha già letto altri libri di Camilleri e anche a chi non li ha letti (cosa aspettate ad iniziare?)
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La mossa del cavallo 2014-02-09 16:01:36 Cristina72
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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    09 Febbraio, 2014
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Quattro triglie di scoglio in brodetto

“Dominivobisco”.
“Etticummi spiri totò”.
“Itivìnni, la missa è”.
Vigata, 1877: termina la messa in latino maccheronico e inizia il romanzo, con la figura di padre Artemio Carnazza che si affretta a ritirarsi in sacrestia.
Donnaiolo e usuraio, esponente minore di un clero corrotto, don Carnazza morirà presto “sparato”, e non si può certo dire che non se la sia andata a cercare, tra mariti cornuti, amanti gelose, debitori strozzati e parenti derubati ai sensi di legge.
Alla sua morte le voci di paese si rincorrono e la verità è sulla bocca di tutti, che badano però a tenerla ben chiusa.
L'ultima sua amante è la donna più bella del paese, la vedova Trisìna Cìcero (“indubbiamente una grandissima buttana”), che si concede al prete un tanto al centimetro in base ad accordi prestabiliti:
“Una vasata senza lingua, mezzo chilo di farina; una vasata con la lingua, un chilo di pasta fina di Napoli; una vasata con la lingua e le due minne nude, tre tazzine di porcellana...”.
Trattative estenuanti, ma la carne di padre Carnazza è notoriamente debole e anche il suo spirito a dire il vero lascia abbastanza a desiderare.
Sono molte le autorità temute e disprezzate a Vigata, e questo indegno ministro di Dio non fa eccezione: le pagine che Camilleri gli costruisce attorno (spassosissime tra l'altro) sembrano la versione viziosa del don Abbondio di manzoniana memoria.
Nel suo cadavere inciamperà in senso proprio e figurato Giovanni Bovara, genovese d'adozione nato a Vigata, che in qualità di ispettore capo ai mulini della zona si ritrova in un ambiente destabilizzante e arretrato, dove gli viene riservata un'accoglienza particolare.
Le acrobazie stilistiche di Camilleri in questo libro arrivano al virtuosismo: siciliano, genovese, italiano, italiano sicilianizzato... Per non parlare dei documenti ufficiali redatti con linguaggio ottocentesco dotto o popolare, a seconda dei casi.
La narrazione è comunque scorrevole grazie all'ironia e ai dialoghi arguti tra i personaggi, e il lettore viene coinvolto in una storia intrigante, spettatore di una sfida dove si vince d'astuzia, anticipando le mosse del nemico.
Le lusinghe del capomafia locale, innanzitutto, il cui nome nessuno pronuncia senza timore reverenziale, e poi le minacce velate, le mezze frasi, le metafore che nella sua inesperienza il nuovo ispettore non riesce ad afferrare.
Del resto lui, incurante di tutto, compie con solerzia il suo dovere, turbando un consolidato sistema di corruzione che arriva ai piani alti della politica.
“Questo Bovara è uno strunzo ed uno strunzo che fa il furbo”, è l'opinione generale dei suoi diretti superiori.
Lo incastrano, ovviamente, e in maniera abbastanza approssimativa, ma poco importa visto che tutti fanno finta di crederci: peggio per chi non sa difendersi e non si adatta a certe dinamiche.
Bovara capirà per istinto che l'unico modo per stendere chi lo ha messo al tappeto è imitare la sua strategia, ed è così che dimentica il genovese e comincia a parlare e pensare in siciliano, raccontando una versione dei fatti riveduta e corretta.
E' la mossa del cavallo, l'unico pezzo della scacchiera che può scavalcare tutti gli altri.
“Quello la lezione se l'imparò e ce la sta mettendo nel culu para para”.
Vivido affresco di un'epoca lontana ma per molti versi straordinariamente attuale (emblematiche le parole del capomafia, che accusa la magistratura di asservimento al potere della sinistra), questo romanzo mette realisticamente in luce forze avverse alla giustizia e impossibili da sradicare.
E' già tanto se si riesce ad aver salva la pelle, accontentandosi di mezze verità:
“Si consolò, al ristorante, con quattro triglie di scoglio in brodetto”.

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