La miglior vita
Letteratura italiana
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una matassa imbrogliata da dipanare
LA MIGLIOR VITA di FULVIO TOMIZZA ha vinto nel 1977 il premio Strega e nel 1979 il premio di Stato austriaco per la letteratura europea; io però, se fossi stato l’editore che per primo ha letto il manoscritto di quest’opera, avrei detto all’autore: “Non è male, ci sono molti buoni elementi, ma prenditi un paio di mesi di tempo per studiare di più la materia, rivedi l’espressione e poi me lo riporti”. Ecco, riconosco a Tomizza sia l’originalità del punto di vista che adotta per raccontare le vicende della popolazione istriana dall’inizio del ‘900 agli anni ‘60 (quello del sagrestano di Radovani, borgo vicino alla marittima Umago) sia la presenza di intere pagine e passaggi a margine dei quali ho scritto “bello!” (e anche il titolo è molto suggestivo). Noto però due difetti gravi che spesso mi hanno reso la lettura frustrante, soprattutto man mano che ci si avvia verso la fine del romanzo: 1. un’espressione spesso oscura, involuta, e talora inutilmente verbosa (cui si aggiungono numerosi refusi nell’edizione Mondadori) e 2. una vaghezza che in un romanzo di ricostruzione storica è imperdonabile, soprattutto se ci si rivolge a posteri che magari sanno poco o nulla delle vicende di quella terra di confine. Oltretutto, questo che Tomizza racconta è un confine complicatissimo e mobile: tra l’entroterra delle montagne carsiche e la costa, fra etnie e culture slave ed etnie e culture italiche, fra mondo cristiano e mondo cattolico, tra mondo contadino e mondo cittadino, tra mondo capitalista e mondo socialista dopo la Seconda guerra mondiale e, infine, fra le generazioni che vissero tutto queste tensioni e le generazioni nate dopo l’uniformizzazione e la scristianizzazione di quel mondo così complesso dopo l’insediamento del regime titino. Insomma, la materia è tanta, però tutto resta, come dicevo, abbastanza impreciso e d’altra nessuna nota esplicativa consente di decifrare cenni più o meno allusivi. Nell’articolo comunque lusinghiero di Paolo Milano del ‘77 inserito nell’edizione Mondadori a mo’ di postfazione, si legge infatti: “(…) come mai, noi lettori, quanto più aspri si fanno a Radovani i conflitti fra genti diverse, tanto meno ne cogliamo il filo?” (p. 307). Io rispondo: Perchè non tutti i romanzieri si documentano approfonditamente come uno Zola o un Vassalli o una Alice Zeniter e sanno rendere conto di quanto hanno appreso. Gli unici elementi storici precisi sono quelli a p. 220 e ss., che illustrano un pochino cosa comportò il passaggio al regime socialista. Inoltre, mi sembra che non sia dato di capire perchè in certi momenti quella popolazione reagisca con la solidarietà di una vera comunità e in altri momenti si mostri invece grettamente individualista. Infine, sono rimasta di stucco nel constatare che Martin Crusich, il sagrestano diventato bibliotecario e scrittore che funge da io narrante, dedica alla pur recente morte della moglie sette righe e mezza (p. 283), mentre si dilunga per pagine e pagine in una verbosissima analisi psicologica peraltro abbastanza improbabile e moraleggiante del prete motomunito e innamorato don Miro e dell’antipatica maestra zagrebese.
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La storia di un popolo
Fulvio Tomizza è riuscito con questo libro a dare una visione completa di un popolo spurio, che solo alla fine della prima guerra mondiale si è accorto di essere italiano o slavo, non per scelta individuale, ma in quanto questa suddivisione divenne forzata.
Questa gente, costituita per lo più da poveri contadini e che parlava un dialetto a metà fra l’italiano e il croato, non appena le terre su cui vivevano passarono all’Italia, si trovò improvvisamente, e non autonomamente, italiana. E così la nostra lingua divenne quella unica e ufficiale a tutti gli effetti, tanto che durante le messe al celebrante fu imposto di usarla, al posto del latino; a quelli che italiani non erano fu rivolto un deciso invito ad emigrare, ad andare nel neonato stato jugoslavo.
In forza di ciò quelle popolazioni decisero di essere italiane o croate, con fratture insanabili anche all’interno della stessa famiglia, e fu in quella circostanza che non pochi, magari aggiungendo solo una vocale, italianizzarono il loro nome.
E sarà un’altra guerra a rimescolare le carte, a far perdere definitivamente la propria identità a quella popolazione contadina, a quel mondo arcaico che in seno all’impero asburgico conviveva senza problemi, consapevole solo di essere una comunità.
Di questa tragedia, perché di tragedia si tratta, Fulvio Tomizza parla in La miglior vita, romanzo certamente non facile, da leggere con attenzione per poter comprendere attraverso il racconto di un sagrestano, Martin Crusich, non solo la realtà di questo microcosmo, ma anche, allargandone la visione, gli aspetti cruciali di un secolo.
Così ci narra di due grandi guerre, di cambiamenti di nazionalità, di esodi volontari oppure forzati, di una grande epidemia di vaiolo, di un terremoto, di una rivoluzione socialista, e questo partendo dal particolare, da quel piccolo paese di Radovani in cui Martin Crusich è ombra fidata dei ben sette parroci che si succedono, dalla figura solenne e ieratica di Don Stepe al personaggio tormentato di Don Miro, vittima di una passione, di cui si punirà autodistruggendosi con il vizio del bere e nulla facendo per curarsi dal cancro che lo ha colpito. Dopo di lui, stante il regime socialista, la parrocchia non avrà più il suo prete e nell’abitazione riservata ai sacerdoti si ritirerà Martin, testimone di un’epoca e custode ultimo della memoria.
Scritto così può sembrare poca cosa, ma questo romanzo, non solo è unico nel suo genere che potremmo definire epico di frontiera, ma è anche una storia di uomini complessi e semplici al tempo stesso, di sentimenti, di gioie e di dolori. Al riguardo, le pagine in cui viene descritto il trasporto a casa su un carretto trainato da un asino e alla cui guida c’è Martin del cadavere dell’unico figlio Antonio, partigiano morto combattendo, sono di una bellezza indescrivibile; non c’è il ricorso alla facile commozione, anzi questo viaggio, che è forse una metafora di un popolo così smembrato e che può ritornare alle sue case solo quando non è più in vita, è descritto con uno stile asciutto, senza indulgere a pietismi, ma proprio per questo tocca livelli di alta drammaticità che segnano profondamente l’animo del lettore, apparendo del tutto naturali.
Il romanzo termina con l’ultima annotazione di Martin Crusich, che avverte che la sua ora sta per arrivare, e che scrive: “ Scende sulla terra il vuoto dei cieli o su di noi si spalanca la miglior vita? Questo non sapevo, che il mondo muore a ogni morte di un uomo.” E’ un per chi suona la campana che conclude in modo superbo un romanzo di rara bellezza.