La città nel golfo
Letteratura italiana
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Ciò per cui vale la pena di combattere
Conoscevo di fama Boris Pahor, questo centenario autore (ha 102 anni), nato a Trieste quando la città e tutto il territorio alle sue spalle faceva parte dell’impero austriaco, di nazionalità slovena, tanto che scrive indifferentemente, a seconda dell’estro, nella sua lingua originale o in quella italiana. Lo conoscevo di fama, ma non avevo mai letto nulla di suo, così ho deciso di ovviare a questa lacuna con un romanzo che, differenza di molti altri suoi, non parlasse dell’orrore dei lager, ma potesse rappresentare altre esperienze. È così che ho scelto La città nel golfo, dove la città è Trieste-
Il libro narra di un giovane militare sfuggito dopo l’8 settembre 1943 alle retate tedesche e ritornato fortunosamente alla sua terra natia (il Carso); arrivato alla meta, evitando per un pelo la cattura, entrerà a far parte della resistenza armata, l’unico modo possibile per ambire alla libertà, che è l’unico valore per cui vale la pena di lottare. In parte autobiografico, in parte frutto di fantasia il romanzo di per sé si presenta di notevole interesse, perché riesce a esprimere i sentimenti di una nazionalità (quella slovena) prima oppressa dai fascisti e poi negata dai nazisti. Ci sono alcune pagine in cui è ben resa la condizione di sudditanza di un’etnia a un’altra etnia, e questo indubbiamente, insieme con òe pregevoli descrizioni del territorio, in cui l’osmosi con la natura raggiunge anche vertici poetici, sono per me sono le parti migliori del libro, che tuttavia presenta non pochi chiaroscuri, o come si usa dire luci e ombre. Fino a ora ho detto delle luci e ora veniamo alle ombre, che non sono poche. Innanzitutto la particolare lentezza del romanzo, un ritmo blando e quieto che talvolta cozza con certi eventi descritti che richiederebbero una velocizzazione, come se l’autore fosse incapace di una benché minima accelerazione; i dialoghi sono frequenti, ma non disturbano, anzi sono di particolare rilievo per i contenuti, ma non si può non osservare che certi concetti, peraltro condivisibili, sono propri più di persone mature e avanti con l’età e non di una ragazza diciottenne e di questo soldato fuggiasco, che studia sì Giurisprudenza all’Università, ma che con i suoi 24-25 anni non può aver maturato capacità di ponderazione ed esperienze che sono proprie (e non di tutti) di uomini molto più anziani. Quest’ultimo errore mi ha sorpreso e, se devo essere sincero, anche un po’ infastidito, perchè è imperdonabile per uno scrittore esperto e affermato come Pahor. Mi trova in accordo il desiderio di libertà e pure condivido la necessità di non negare e non soffocare la nazionalità, ma, pensandoci bene, mi è venuto il dubbio che Pahor sia un nazionalista, cioè un individuo che vede in testa a tutto e a tutti la propria etnia. Non è che nel romanzo sia espresso a chiare lettere, ma una parola qua, un’altra là mi hanno lasciato più che perplesso, e purtroppo ho appurato, per caso, che nella vita dell’autore c’è un episodio ben poco edificante: la vigilia del Natale 2010 lo scrittore, nel corso di un’intervista di un giornale sloveno, dichiarò che l’elezione a sindaco di Pirano di un medico di colore originario dell’Africa era un brutto segno, era la mancanza di una coscienza nazionale. In seguito, per controbattere le accuse di razzismo, rettificò, ma resta questa macchia. Certo, sono frasi dette da un uomo assai anziano, che in quanto tale tende sempre a radicalizzare, ma La città nel golfo è stato scritto una cinquantina di anni fa e questo mi lascia l’amaro in bocca, perché temo che Pahor, che in quanto sloveno ha subito una violenta, becera e insana opera di distruzione della sua cultura da parte del fascismo, nel riaffermare il suo diritto di rivendicare la sua nazionalità sia andato oltre, confondendo il sentimento nazionale con la superiorità nazionale in quanto tale.
Il romanzo, comunque, merita di essere letto, tenendo conto però delle sue luci, ma anche e soprattutto delle sue ombre,