La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956
Letteratura italiana
Editore
Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, inviato del "Corriere della Sera" è stato capo delle pagine culturali. Laureato con Cesare Segre all'Università di Pavia, ha debuttato nel giornalismo come responsabile del ‟Corriere del Ticino” di Lugano. Ha lavorato per l'Einaudi, e per il quotidiano ‟La Repubblica”. Attualmente è giornalista culturale del "Corriere della Sera". Ha scritto, fra l’altro: Minuti contati (Scheiwiller, Milano 1990, Premio Sinisgalli), Baci da non ripetere (Feltrinelli 1994, Premio Comisso); Azzurro troppo azzurro (Feltrinelli 1996, Premio Grinzane Cavour); Tutti contenti (Feltrinelli 2003, Superpremio Vittorini, Superpremio Flaiano, Premio Letterario Chianti), Aiutami tu (Feltrinelli 2005, SuperMondello), Nel cuore che ti cerca (Rizzoli 2008, Premio Campiello e Premio Brancati), Per più amore (Manni Editore), La catastròfa (Sellerio 2011, Premio Volponi), Giallo d'Avola (Sellerio 2013, Premio Viareggio-Rèpaci 2013).
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Una tragedia da non dimenticare
«Ma alla fine abbiamo mandato giù papà al cimitero, mentre noi abbiamo rimasto qui in Belgio e non ce l'ho mai domandato alla mamma, che ora ha novantasei anni, perché ha voluto prendere questa decisione di non muoversi più dal Belgio».
È l’8 agosto 1956 a Marcinelle, nei pressi di Charleroi, il turno di giorno è da poco iniziato alla miniera di carbone del Bois du Cazier; in profondità c’è poca luce che stranamente invece non manca in superficie, perché la giornata non è, come quasi sempre, grigia, ma c’è un bel cielo azzurro. All’improvviso dense volute di fumo si sprigionano all’uscita del pozzo numero 1: è da poco iniziato un disastro che condurrà alla morte 262 dei 274 uomini impegnati al lavoro e di questi 262 ben 136 sono immigrati italiani. È la catastròfa, una parola metà dialetto e metà francese, con cui verrà ricordata questa tragedia e di essa parla Paolo Di Stefano in questo libro, frutto di ricerche, di interviste ad alcuni dei pochi superstiti e ai familiari delle vittime, un coro di voci che, se non reclama più giustizia, però si leva affinché non si dimentichi, non cada nell’oblio, come del resto stava accadendo, a tanti altri fatti luttuosi accaduti e che hanno riguardato nostri connazionali all’estero e in patria.
Non dimentichiamo questi poveri emigranti, partiti dai loro paesi dove facevano la fame, per avere un futuro meno nero e che invece non ebbero futuro.
Fra l’altro, non andarono all’avventura, ma in base a un accordo italo-belga che prevedeva l’invio di lavoratori in cambio di carbone, di braccia, di cui il Belgio aveva disperatamente bisogno, contro una fonte di energia indispensabile a un‘Italia che cercava di risorgere dalle rovine della guerra.
Come sempre accade in caso di disastri in ambienti di lavoro le cause non furono mai esattamente determinate, anzi quasi tutto venne messo a tacere, con un processo farsa che punì, moderatamente, forse il meno colpevole. Sta di fatto che, indipendentemente da chi e come provocò l’incidente, questo avvenne in una miniera vecchia, dotata di scarse misure di sicurezza, e per di più ci fu anche disorganizzazione nei soccorsi, insomma un insieme di concause che si tradusse in una vera e propria strage. Le interviste sono state semplicemente trascritte da Di Stefano, salvo una sua breve introduzione, e nel loro italiano scorretto e stentato hanno la forza della verità, trasmettono al lettore un senso di dolore che a distanza di tanti anni non si è placato. Sono donne ormai anziane, quelle stesse che hanno affollato per giorni e giorni l’area antistante la miniera, chiusa da cancelli, che hanno pianto, che si sono disperate, che a volte si sono rifugiate in una temporanea speranza, che hanno vissuto la tragedia con l’angoscia di non poter rivedere, come poi accadde, i propri cari.
Ma ci sono anche uomini, alcuni superstiti, minati spesso dalla silicosi, che con un filo di voce gridano la loro tristezza per gli amici scomparsi e per una verità che non è venuta e non arriverà mai.
E poi ci sono gli orfani e tutti in pratica lo divennero, anche le mogli e i pochi superstiti, orfani di uno stato, quello italiano, che si disinteressò completamente della loro sorte, che non fu mai presente, nemmeno con un ministro, nei giorni angosciosi che seguirono l’incidente. Lo stato fu loro distante come lo fu sempre, anche quando quasi benedisse che il numero dei nostri emigranti era in crescita. Non una grande e affiatata famiglia, quindi, bensì un padre dispotico pronto sempre a fuggire dai propri doveri, allora come anche oggi.
A fronte di questa umanità dolente troviamo i freddi verbali, le perizie, le parole vuote, pregne di retorica, dei nostri politici, fra i quali Giuseppe Saragat e Giovanni Leone.
Braccia contro carbone, schiavi contro l’energia per le fabbriche dei nostri industriali, gente che partiva dal paese senza aver nemmeno nulla da mangiare durante il viaggio, in fuga dalla miseria verso le fauci della miniera.
Dobbiamo ricordarci di questi nostri emigranti, l’Italia deve a loro molto di più di quanto - in pratica nulla -ha fino ad ora loro dato; con il loro duro lavoro, con il loro sacrificio, hanno fatto ritrovare alla loro nazione quella dignità che una guerra insensata aveva cancellato.
Da leggere, per riflettere, ma soprattutto per non dimenticare.