La baronessa dell'Olivento
Letteratura italiana
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Creatività al massimo
Ambientato nella seconda metà del XV secolo La baronessa dell’Olivento è ancora una volta l’occasione per dare libero sfogo all’innata corposa creatività dell’autore. Un romanzo d’avventure si potrebbe definire, ma anche un’opera che strizza l’occhio all’epico Orlando furioso, visti i toni ariosteschi e le situazioni profuse in questo suo lavoro da Raffaele Nigro. I due protagonisti sono essi stessi emblemi di un’epoca e di una certa letteratura che vede negli estremi i soggetti adatti a rappresentare una trama, spesso aggrovigliata, ai limiti quasi del parossismo; abbiamo così la storia dei due fratelli Brentano, Stanislao e Vlaika, governatori del castello di Lagopesole edificato da Federico II di Svevia; Stanislao è un cavaliere più desideroso della pace che della guerra, e sua sorella Vlaika è una disabile, che vive in una cesta, perché è nata priva degli arti, inferma di corpo quindi, ma non di mente. In breve ci troviamo di fronte a una saga familiare, ambientata in Schiavonia, in Albania, in Campania, in Basilicata e in Puglia, le zone percorse dai nostri protagonisti in un crescendo di battaglie, di amori, di conflitti non solo politici, ma anche intellettuali, con gli scontri fra cristiani e turchi, le ribellioni dei baroni del Regno di Napoli, le dispute, non sempre pacate, fra platonici e aristotelici, ma soprattutto fra scienziati ed ecclesiastici, con l’Inquisizione che non si limita a guardare. Insomma, Nigro ha messo tanta carne al fuoco, ha scritturato tanti personaggi storici come Scanderbeg, Murad Han, il principe Caracciolo, Ferrante e Alfonso d’Aragona, in un intreccio spumeggiante che se da un lato affascina il lettore, dall’altro lo porta a un certo disorientamento perché tanta è la commistione fra realtà e fantasia che alla fine diventa difficile capire ciò che è storia e ciò che è inventiva. In questo senso La baronessa dell’Olivento mi pare meno riuscito di Santa Maria delle Battaglie, dove è presente un maggiore equilibrio strutturale e c’è più linearità nella narrazione; senza voler andare a cercare a tutti i costi il pelo nell’uovo direi che ciò che nuoce a questo romanzo è proprio l’eccesso di creatività, come se l’autore, immedesimatosi nei panni di Ludovico Ariosto, avesse voluto creare, relativamente a un’epoca successiva, un dramma antico scritto con gli occhi rivolti ai nostri tempi, un’opera senza tempo quindi, ma credo che, se questa era la sua intenzione, non abbia raggiunto lo scopo.
Da leggere, comunque.