L'isola di Rab
Letteratura italiana
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Italiani brava gente?
Ritengo doveroso effettuare due premesse e cioè che questo breve romanzo non è stato scritto per gli adulti, bensì per i ragazzi (dai 10 ai 13 anni come indica l’editore); di conseguenza lo stile è abbastanza semplice e anche gli approfondimenti sono limitati, ma ciò non toglie che per l’argomento trattato possa essere letto e apprezzato da individui più maturi. La seconda premessa riguarda un mito (Italiani brava gente) che deve essere rivisto radicalmente, perché se è vero che nella disgraziata campagna di Russia ci comportammo in genere civilmente, tanto da riscuotere anche simpatie nella popolazione locale, su altri teatri di guerra, purtroppo, almeno una parte dei nostri soldati si abbandonò a violenze e a massacri non dissimili da quelli dei militari nazisti. Nella nostra storia, del resto, ci sono analoghi precedenti: dalla eliminazione sistematica della popolazione libica alle stragi con i gas nel corso della guerra in Etiopia, e infine i rastrellamenti, le deportazioni, le esecuzioni sommarie in Slovenia dove il generale Mario Roatta, comandante del nostro esercito nella zona di Lubiana e poi in Croazia, era uno zelante massacratore, mai soddisfatto comunque, al punto da impartire ordini come questo:” Se necessario, non rifuggire da usare crudeltà. Deve essere una pulizia completa. Abbiamo bisogno di internare tutti gli abitanti e mettere le famiglie italiane al loro posto"[8], ‘’(…)l’internamento può essere esteso… sino allo sgombero di intere regioni, come ad esempio la Slovenia. In questo caso si tratterebbe di trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione… e di sostituirle in loco con popolazioni italiane’.
Ed è di un campo di concentramento che questo libro parla, quello di Arbe, nome italianizzato dell’Isola di Rab, un lager in cui la mortalità era addirittura superiore a quella del tristemente famoso lager di Buchenwald.
La vicenda è necessariamente semplice e si sviluppa sull’arrivo ad Arbe del figlio di un ufficiale italiano che si trova là con responsabilità di alto livello nel comparto degli equipaggiamenti e del vettovagliamento. Questo ragazzo, che ha quasi tredici anni, di nome Benito a riprova della fede fascista della famiglia, giunge al campo ancora in costruzione scosso per le scene di violenza a cui si sono abbandonati i militi che lo scortano. Educato alla scuola dell’epoca, permeato dal mito del fascismo, stenta a credere a quello che ha visto, ma con il tempo si accorgerà che non si è trattato di un fenomeno isolato e così piano piano cambia opinione, diventa un antifascista. Quanto al padre, con l’opportunismo tipicamente nostrano, dopo l’8 settembre 1943 sale in montagna con i partigiani. E’ un libro che scuote, ma che è anche piacevole da leggere, lasciando perfino lo spazio per un tenero e platonico amore fra Benito e Sonia, una ragazzina muta internata. Se devo trovare un difetto questo sta forse nel fatto che gli aguzzini sono il comandante del campo e i carabinieri ai suoi ordini, mentre l’altro personale italiano, fra cui i medici, appare caritatevole e pronto ad aiutare gli internati. Nessuno, però, si ribella apertamente, ma qui sta forse il significato del libro: tutti avevano gli stessi ordini, ma c’erano i fin troppo zelanti nell’eseguirli e altri che invece non avevano ancora sepolto la loro coscienza. La discrasia fra chi è solo soldato e fra chi prima è uomo e poi è soldato è quella che salva l’umanità, perché è grazie ai secondi che l’orrore di una guerra può essere mitigato, può portare alla tanto agognata pace.
In calce al libro vi è una interessante scheda tecnica di Luciano Tas che riporta cronologicamente in modo sintetico ma esauriente la storia della nostra presenza nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale. Non si tratta di opinioni, ma di fatti di cui esistono prove inconfutabili, ed è quanto mai opportuno questo excursus, anche per dimostrare che la creatività espressa nel romanzo parte da basi purtroppo reali.
Da leggere, quindi.