L'inverno dei Leoni. La saga dei Florio
Letteratura italiana
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Recensione della Redazione QLibri
La parabola discendente dei Florio
«All’inizio è un sussurro, un mormorio portato da una bava di vento. Nasce nel cuore dell’Olivuzza, al riparo di tende tirate, in stanze immerse nella penombra. Il vento afferra la voce e questa sale d’intensità, si mescola al pianto e ai singhiozzi di una donna anziana che stringe una mano fredda.»
Con “L’inverno dei leoni” giunge a conclusione la saga dei Florio iniziata con “I leoni di Sicilia” classe 2019. Torniamo dunque tra i membri della famiglia Florio, tra anime che si sono allontanate dalla terra natia per farvi ritorno, perché a quel mare è impossibile sottrarsi così come alle origini che segnano ciascuna esistenza, e altrettante che in questa terra siciliana sono riusciti a fare fortuna.
È Ignazio a dover portare avanti la storia di Casa Florio. Vincenzo Florio, senatore del Regno d’Italia e patriarca della dinastia muore nel 1868 mentre il figlio, trentenne e unico maschio, si è sposato nel 1866 con la baronessa Giovanna d’Ondes Trigona. Questo si traduce nel traguardo di aver portato sangue nobile nella famiglia. Ma Ignazio non dimentica le sue origini e quel lavoro che da sempre è stato radicato in lui come culto. Non dobbiamo mai dimenticare, leggendo queste pagine, che alla base dei Florio vi è il desiderio di riscatto sociale e di raggiungere sempre quel traguardo in più. Ecco perché se nel 1799 i fratelli Paolo e Ignazio sbarcando a Palermo sognano di fare fortuna prima come commercianti di spezie, poi con il commercio di zolfo e ancora acquistato terreni e abitazioni, mai si fermano nel loro desiderio di ascesa e conquista. Questa costante ambizione segna il loro divenire e la loro discendenza nel bene e nel male, con scelte giuste e altrettante errate che non risparmiano nemmeno i volti femminili che abitano la saga.
«Allora, solo per loro, lì, nello specchio, Franca è di nuovo giovane e bellissima. È nella sua stanza, quella con il pavimento coperto di petali di rosa e i puttini sul soffitto. Gli occhi verdi sono limpidi, la bocca è aperta in un sorriso sereno. Indossa un leggero abito bianco e le sue perle. E in quel momento, tanto perfetto quanto impossibile, è davvero felice. Come non è mai stata davvero.»
Ma è sufficiente un nome per portare avanti una dinastia e mantenere il successo e la fortuna di chi è partito dal nulla per giungere al tutto e all’ammirazione – e invidia – generale? Come gestire quella articolata ed estesa rete d’affari che va oltre il pensato? E quanto ancora può costare davvero il rinunciare a quell’amore per un destino segnato da responsabilità e un desiderio di ascesa inarrestabile? Come fronteggiare, ancora, quella parabola discendente che sembra voler porre una fine a quel divenire senza confini?
Tanti i presupposti di partenza per questo secondo e conclusivo capitolo delle avventure della famiglia di imprenditori siciliani. Se da un lato il lettore è incuriosito dall’evoluzione che le vicende prenderanno, è affascinato dall’idea di rivivere ambientazioni già note, dall’altro sin dalle prime pagine l’opera trasmette un senso di respingimento. I personaggi sono sì ben caratterizzati e non mancano le descrizioni degli orpelli e oggetti vari dei Florio così come dei luoghi ma è innegabile una sproporzione rispetto al narrato tanto che l’attenzione si affievolisce, l’intensità perde di forza e vigore, il conoscitore è rallentato nel suo interesse tanto che a più riprese si chiede anche dove effettivamente si arriverà con l’evoluzione della narrazione. Seppur questo conosca il dato relativo al fatto che ne “I leoni di Sicilia” a esser narrati erano prevalentemente i fatti relativi all’ascesa dei Florio e che qui al contrario quel che viene delineato è la caduta di questi, il rovinare dal più alto dei piedistalli, la lettura tende a essere farraginosa e non funzionante, macchinosa ed eccessivamente prolissa. Che si sia voluto far troppo e mettere troppa “carne sulla brace”? Che sia una conseguenza data da una responsabilità troppo grande per un pubblico esigente? Può darsi, tuttavia, tanto il lavoro di documentazione storica è inciso e meticoloso, tanto manca quel coinvolgimento emotivo proprio di quel filone narrativo cui appartiene il narrato.
“L’inverno dei leoni” è uno scritto da leggere se si è letto il precedente episodio per dare una conclusione a un qualcosa di già cominciato, è un romanzo strutturato per un pubblico specifico di lettori, è un elaborato che risente di una impostazione rigida e che non è riuscito ad andare oltre a quel meccanismo preimpostato che lo accompagna. È uno scritto che sembra aver imbrigliato tra le sue maglie l’autrice stessa quasi come se la medesima avesse avuto difficoltà nel romanzare tanto da essere la prima “prigioniera” di quel congegno innescato con i Leoni. È dunque un titolo che convince solo in parte e a cui si riconosce l’impegno e il lavoro di ricostruzione e documentazione senza però poter gridare al capolavoro letterario.
«Se ci ripensa, prova un vago fastidio, ma non dolore. Persino dipendere dalle figlie e dal fratello lo lascia indifferente. Non ha più neanche un soldo, lui, anche se, almeno formalmente, Casa Florio non è mai fallita. Quello che gli strappa l’anima è l’idea che con lui si perda… un nome. Una storia. La loro storia, racchiusa in quel piccolo cerchio d’oro reso sottile dagli anni. […] “Vero è.” Si gira e sorride alla bambina e al vecchio. “Gli altri sono gli altri. Noi siamo i Florio”.»
Indicazioni utili
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- no
No = a chi non ama il genere e cerca un altro tipo di romanzo storico.
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«Un vago rumore»
È con un lieve scricchiolio che inizia la fine di Casa Florio. Un lento insinuarsi di crepe appena percettibili nel cuore di una costruzione che sembra ancora solidissima, «un vago rumore» simile all'inizio lontano del rombo cupo e raggelante che precede un terremoto. Ignazio Florio Junior, figlio di un Ignazio e nipote di un Vincenzo, erede di una delle più grandi fortune del suo tempo, siede nel suo ufficio, che prima di lui ha accolto suo padre e suo nonno, e sente quei cigolii diventare sempre più forti e insistenti fino a trasformarsi in una valanga rovinosa che spazzerà via senza speranza tutta la sua ricchezza, tutta la sua vita fatta di divertimenti, amanti, sperpero e fallimentari tentativi di essere all'altezza dei suoi predecessori. Neanche questo romanzo, purtroppo, è all'altezza di quello che lo precede. Non che "I leoni di Sicilia" fosse un capolavoro, ma è una lettura più godibile e piacevole di questa, che eredita i problemi principali del primo romanzo (stile telegrafico e insignificante, scarsa caratterizzazione dei personaggi, tendenza a raccontare più che a mostrare) e in più ne aggiunge di nuovi.
"L'inverno dei leoni" paga forse uno scotto in partenza: leggere dell'ascesa dei Florio, scoprire come abbiano potuto trasformarsi da bottegai a principi della navigazione e del commercio, è più interessante e appassionante che leggere della loro caduta. Anche perché, non appena si introduce il personaggio di Ignazio Junior, si capisce immediatamente come andranno le cose. Rispetto al volume precedente si ha una cura maggiore del contesto storico-sociale ed è chiaro che l’autrice ha condotto un lavoro di ricerca notevole sulle vicende dei Florio, gli affari, le questioni private, le persone che hanno frequentato, i luoghi che hanno visitato, le case che hanno abitato, perfino i gioielli che hanno posseduto e le strade di Palermo che hanno percorso. Tutto questo è senz’altro lodevole, ma purtroppo non è sufficiente a produrre un buon romanzo. Catturare e tenere viva l'attenzione è essenziale, soprattutto quando si scrivono così tante pagine.
E così si arriva al secondo, evidente problema di questo libro: la lunghezza eccessiva. A meno che un autore non sia Tolstoj, deve avere qualcosa di davvero importante o interessante da dire per poter scrivere ben 688 pagine. Il contenuto, poi, non migliora la situazione: lutti, mariti "sciupafemmine", tradimenti, figli morti in tenera età e tragedie varie degne di una fiction di Rai 1. Il sottotitolo di questo romanzo potrebbe essere "Anche i Florio piangono", ispirato a una celebre telenovela che negli anni 80-90 spopolava tra le nonne italiane. Insomma, è un vero polpettone e per giunta prolisso fino all'inverosimile, infarcito di dettagli perlopiù superflui e ripetitivi dei quali si potrebbe fare a meno senza problemi. Lo stile, sebbene molto semplice e adatto alla capacità di lettura di chiunque, non riesce a essere scorrevole, anzi: questo libro è una sorta di enorme matassa sulla quale si inciampa continuamente, una lettura di una pesantezza e di una lentezza assolute che si trascina una pagina dopo l'altra senza alcun piacere solo per arrivare alla conclusione e tirare un respiro di sollievo perché si è scalata la montagna. "L'inverno dei leoni" è una (fin troppo) minuziosa cronaca degli eventi privati e pubblici che colpiscono la famiglia Florio, del tutto priva di quel gusto del racconto che dovrebbe distinguere un saggio da un romanzo.
Molti eventi potenzialmente interessanti, poi, non sono mostrati, ma raccontati. Ad esempio, la liaison francese di Ignazio: si sprecano moltissime parole e altrettanti sospiri per ribadire quanto la perdita della ragazza che amava, sacrificio compiuto nel nome di Casa Florio, sia stata dolorosa per lui, su quanto senta la mancanza di lei e su quanto sia stato felice quando erano insieme. Di tutto questo, però, noi non vediamo nulla, abbiamo solo un resoconto a posteriori. Di conseguenza, è una vicenda che non prende vita, non emoziona e non coinvolge, ma resta inerte sulla carta. In poche parole, Stefania Auci dovrebbe decisamente lavorare sullo "show, don't tell".
Il primo libro della dilogia può essere una proposta valida per chi vuole leggere un romanzo storico discreto, senza doversi impegnare troppo e senza scossoni di nessun genere. Il secondo si potrebbe tranquillamente saltare, ma è chiaro che chi ha letto e apprezzato "I leoni di Sicilia" sarà propenso a leggere anche "L'inverno dei leoni". In tal caso, che la pazienza sia con voi.
Indicazioni utili
Decadenza fisiologica
Questo è il sequel de “I leoni di Sicilia” della stessa autrice, l’epopea romanzata di una vicenda reale, documentata storicamente, con una ricerca minuziosa e accurata: solo per questo si deve porgere tanto di doveroso omaggio all’autrice, che ha confezionato in ogni caso un lavoro ben edificato e congegnato, impegnativo e realizzato con dedizione.
Però stavolta l’impressione d’acchito, comune a molti romanzi “parte seconda”, è che il racconto si configuri qualitativamente su un livello più basso, certo non perché difetti di impegno e di qualità, tuttavia l’idea generale emergente è che, una volta sfumato l’effetto sorpresa, la storia perda di verve, di novità, di estro, lascia il sapore ridondante di un “già visto”, di carta conosciuta ripetuta.
In effetti, è quasi un effetto collaterale, nella logica di questo tipo di novelle: la storia principale concerne l’ascesa economica, sociale e di potere della stirpe della Famiglia Florio.
Una scalata al vertice possiede di per sé un pathos affascinante, attraente ed avvincente, del tutto differente dal racconto del successivo consolidarsi dell’egemonia raggiunta; la suspense tende gradualmente a diminuire allorché, per una naturale erosione degli ambiti raggiunti, l’interesse scema, insieme ad una perdita di tensione narrativa.
Come dire, gli anni passano, una decadenza fisiologica è nell’ordine delle cose, e non attrae.
I fratelli primogeniti Paolo ed Ignazio, che abbiamo conosciuto nella “puntata precedente”, armati solo di cieca determinazione e sfrenata ambizione, insieme a tenacia, cocciutaggine, braccia volenterose ed una buona dose di disperazione, come dire il peperoncino sulla pietanza, all’inizio dell’800 sbarcarono in Sicilia provenienti dalla vicina Calabria, e con fatica, sacrifici, dolori sofferenze e violenze indicibili, come d’uso in simili tragitti esistenziali partendo dal niente assoluto, diedero inizio alla costruzione di una immensa fortuna, dapprima con il commercio di spezie, poi di zolfo, poi con vere e proprie immobiliari, erano gli spregiudicati palazzinari dell’epoca, e stiamo parlando dell’800. Ancora, dilatarono le loro fortune con il commercio espanso di un locale vino prelibato, ma ancora misconosciuto, come il Marsala, e poi con le tonnare, da cui proventi ricavarono tanto da acquisire non solo intere flotte adibite alla pesca, quanto addirittura isole e arcipelaghi.
In sintesi, divennero i padroni assoluti della Sicilia, di quella terra per tanti versi una savana, ne diventano i dominus, i cesari, i sovrani, i re leoni.
Spinti a ciò dalla motivazione migliore o peggiore, secondo i punti di vista, cioè da un’ambizione sfrenata, senza scrupoli, dal desiderio ossessivo di emergere a qualsiasi costo.
Caratteri che possono considerarsi sia pregi che difetti.
In questo racconto, generazione passata e futura dei Florio hanno lo stesso nome, Ignazio, quasi a rappresentare due facce della stessa medaglia.
Come tutte le cose della vita, i Florio iniziano in un modo e nel tempo cambiano necessariamente per mutazione spontanea, per ricombinazione di geni.
Dapprima persistono, e pure a lungo, i valori fondanti dei capostipiti; e però, inevitabilmente, per il naturale evolversi dell’esistenza, al vecchio si sostituisce fatalmente il nuovo, al vecchio Ignazio subentra, deve subentrare per forza di cose il nuovo Ignazio.
Ai capostipiti succedono le generazioni future, qui ritroviamo quindi l’ultimo Ignazio, per indole e giovane età macerato dai dubbi sull’effettiva capacità sua e delle generazioni successive di garantire il mantenimento del vertice, con conseguente abile gestione del potere.
Soprattutto, è tipico dei giovani, non tormentati dal bisogno, incantarsi con gli ideali, il lusso gli permette di chiedersi di quanto e di cosa si è disposti a rinunciare in sentimenti, in cambio del potere concreto. Il cuore caldo è dei giovani, la mente fredda è degli anziani mai stati giovani.
Perché è una legge di natura, a cui anche i leoni devono assoggettarsi, l’agire energico prevede la motivazione potente, la rinuncia agli affetti e agli amori non produttivi, anzi distoglienti dagli obiettivi prefissi, l’ ascensione ai vertici prevede unici sentimenti, quelli di puro sacrificio e abnegazione anche di sé stessi, quelli appunti che furono propulsivi nei capostipiti nella loro scalata al successo, ma non sono però necessariamente trasmissibili alla progenie, ereditabili con il resto dei beni.
Beni di quella misura, una simile ricchezza che si accompagna ad un potere anche politico che si spinge non solo fino alla capitale, ma ben oltre i confini non solo della Sicilia ma del Paese intero, necessitano per essere conservati intatti di pugno fermo. E di cuore freddo, malgrado il sangue caldo.
Valori che sono essenziali per le conquiste, poi scemano una volta pervenuti al vertice, i giovani leoni si trovano assisi in alto senza sforzo, perciò danno per scontato di possedere quanto non conquistato in proprio.
Una volta terminati i furori iniziali, quelli incisivi nello sprone all’accumulo e alla corsa sfrenata al successo, inevitabilmente gli stessi successi e gli agi perseguiti e finalmente conseguiti, iniziano a seminare crepe sul cammino della famiglia Florio.
Il racconto, inevitabilmente, scivola in discesa, non è tanto una caduta fatale o inesorabile, è davvero un evolversi, non è più la storia avvincente, a tratti lieta e più spesso crudele, di un’ascesa, come nel precedente romanzo, ma del suo fisiologico divenire, e deteriorarsi.
Per una legge elementare di natura, una volta raggiunta una vetta, poi non si può fare altro che restarvi il più possibile ancorati con le unghie e con i denti fin quando dura la bella stagione, anche il cielo ha un limite. Prima o poi, però, il tempo cambia, la discesa deve avvenire per forza.
L’inverno arriva, con lui la neve, bisogna sloggiare a forza dai vecchi domini.
Questo non è più un racconto di ascesa, allora, ma di discesa, dopo che la primavera arride, l’inverno arriva, ed i leoni non tollerano il gelo, nemmeno se si chiamano Florio.
I leoni si vedono persi, ma anche stavolta in loro soccorso arrivano le leonesse, esattamente come avviene in Natura.
Il Re Leone nella savana spesso fa scena, vive sui ruggiti, sul millantato credito, in realtà è pigro, lascia condurre l’esistenza alle leonesse, le travi portanti del gruppo familiare, anche se neanche lui lo sa, o ne è in qualche modo consapevole, o finge di non sapere.
Anche i Florio contano sulle leonesse, per fortuna loro, la scrittrice ancora una volta, come già nel primo volume, omaggia tra le righe le vere protagoniste della saga familiare, di qualunque epopea di famiglie, che qui rispondono ai nomi delle figure sublimi della famiglia Florio: Giovanna d’Ondes e Franca Jacona di San Giuliano.
Anche stavolta la Auci si cimenta certamente in un buon lavoro di documentazione storica, preciso, accurato, ricercato, particolareggiato, reso in forma letteraria: e però non dimentica di sottolineare, quasi senza parere, che sì, gli uomini scrivono la storia, ma a renderla un’epopea sono le donne.
Un buon libro, che soddisferà in particolare quanti desiderano sapere “come va a finire”, quelli che intuiscono d’istinto che, come dire, Stefana Auci non scrive solo di storia, fa romanzo dei Florio, e per inciso, delle loro donne.