L'Agnese va a morire
Letteratura italiana
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La guerra partigiana
Erano già alcuni anni che volevo leggere questo romanzo ma, per un motivo o per un altro, continuavo a rimandare. Adesso, a lettura ultimata, posso dire: finalmente! Finalmente l’ho letto.
Sì, perché è sicuramente il romanzo sulla Resistenza che mi è piaciuto di più fra quelli letti finora.
Agnese è una donna semplice, ha lavorato sempre nella sua vita, si è presa cura del marito Palita, che da giovane era stato malato di tubercolosi. La guerra, le violenze, i soprusi, la morte irrompono improvvisamente nello scorrere consueto delle sue giornate. Le portano via gli affetti più cari. Allo stesso tempo le rendono chiaro il concetto che non si può continuare a subire in silenzio, che è sbagliato accettare le prevaricazioni e le violenze in modo passivo, che è necessario reagire. Così Agnese diventa una partigiana e partecipa alla guerra di liberazione.
«Lei allungò una mano e toccò l’arma fredda, con l’altra afferrò il caricatore. Ma non era pratica e non ci vedeva. Lo mise a rovescio, non fu buona a infilarlo nell’incavo. Allora prese fortemente il mitra per la canna, lo sollevò, lo calò di colpo sulla testa di Kurt, come quando sbatteva sull’asse del lavatoio i pesanti lenzuoli matrimoniali, carichi d’acqua.»
Il romanzo mi è piaciuto così tanto perché ci permette di entrare, con l’Agnese, nelle formazioni di combattenti partigiani nelle valli di Comacchio. Ci fa rivivere, nel magico tempo della lettura, le loro azioni, ci fa capire come si svolgeva la loro vita, chi erano quelle persone, di diversa classe sociale, genere, formazione e anche nazionalità che decisero di armarsi e partecipare a una guerra odiata ma ritenuta, a un certo punto, inevitabile, da dover assolutamente combattere.
Si tratta di un testo realistico, meno filtrato dalla lente letteraria rispetto a altre opere e quindi forse meno artistico ma più vero e autentico. Più storico. Avventuroso. Emozionante. Commovente.
Il personaggio di Agnese poi è indimenticabile, grandissimo nella sua umiltà, determinato, forte, coraggioso, rimarrà per sempre impresso nell’immaginario letterario di chiunque abbia letto questo romanzo.
Renata Viganò partecipò alla Resistenza e conobbe una donna a cui si ispirò per dare vita all’Agnese letteraria. Scrisse questo romanzo per ricordare quei mesi terribili ma necessari. Per ricordare tutti i compagni morti, come l’Agnese, mentre combattevano nella guerra partigiana di liberazione.
Indicazioni utili
A chi vuole approfondire la Resistenza anche da un punto di vista storico.
Resistenza sempre
Questo è un libro celebrato da sempre come uno dei più emblematici e significativi sulla Resistenza, ed in effetti lo è a pieno titolo. Per più di un motivo, ma essenzialmente perché è in primo luogo una precisa testimonianza diretta di quei fatti, quasi una cronaca in presa reale, anziché una storia romanzata. La prima edizione compare subito, nell’immediato dopoguerra, quando ancora erano vivi nei contemporanei i ricordi di quei tempi tragici ed eroici ad un tempo; perciò, era facile per tanti riconoscersi nei tipi, nelle vicende, nelle paure, nelle speranze e nelle difficoltà comuni e diffuse.
La stessa autrice Renata Viganò, anche se non vive di persona la specifica epopea di questa sua protagonista, non è quindi un racconto strettamente autobiografico, ne è però di sicuro attrice coinvolta ed interessata, seppure per interposta persona, la scrittrice sa perfettamente di cosa parla, partecipò attivamente alla Resistenza con il nome di battaglia “Contessa”.
Tutto quanto sa la scrittrice è brava a renderlo al meglio, con uno stile autentico ed effettivo, talora agile, tal altra scivolosa, spazia con noncuranza dalle aie indiscrete e linguacciute di poderi e fattorie all’umidore e acquosità di paludi, acquitrini ed argini dove si snoda l’intera vicenda.
La scrittrice racconta bene, ma il suo più che altro è un attento riportare, mettendo in ordine un racconto franco, schietto, spontaneo, anche timido e discreto; i fatti che narra sono il risultato di un fortuito incontro con l’Agnese del titolo, che in un certo qual modo le presenta un rapporto di quanto fatto militando nella lotta clandestina. In particolare, nella zona del Ravennate e delle valli di Comacchio, sotto il crudele controllo dei nazifascisti. L’Agnese cosiddetta è una comune donna del popolo, una contadina semplice più che rozza, dotata di buon senso pratico e di una sana e corretta etica elementare, basata su semplici regole di rispetto e solidarietà tra pari, molto più che su cultura ed intelligenza. Non è un’eroina, non ha militato nelle file dei partigiani come attiva forza di fuoco della lotta armata, ha per lo più ricoperto incarichi logistici, non meno rischiosi e passabili di fucilazione, di fiancheggiatrice, di vivandiera, di staffetta, di portaordini segreti, facendo sempre al meglio e più delle sue possibilità. Ed è, oltretutto, una donna anziana, una rarità di operativi in questo tipo di racconti bellici, che nemmeno si rende conto di quanto ha fatto, dell’importanza che rivestono le sue azioni. Non si tratta di un “Uomini e no” alla Elio Vittorini, nemmeno di donne retrograde, ignare, pie e caritatevoli o all’inverso emancipate, una rarità per l’epoca, informate politicamente e dotate di una ben precisa coscienza civica. Qui ad agire non è una giovane emblema della nuova Italia in cerca di riscatto e che sfata luoghi comuni di azioni compiute brutali inadatte al sesso debole, è una donna avanti con gli anni, per nulla ingenua per quanto invisibile, ignara di politica e questioni sociali, sa solo che giocoforza, lo si voglia o meno, non può più stare ai margini di quanto accade.
Non lo può fare più nessuno, sono i tempi ad esigerlo, serve schierarsi, e farlo in fondo e fino in fondo. Nutre più di un dubbio sulla sua effettiva utilità d’agire, se abbia eseguito per bene quanto a lei richiesto dai capi partigiani, come dimostra il suo intercalare allorché la incaricano di svolgere certe azioni rischiose, risponde inevitabilmente con un “…se sono buona”.
Vale a dire se ho ben capito, se ne sono in grado, se non combino pasticci, non si tira mai indietro e però dubita sempre di essere all’altezza di quanto le richiedono, malgrado l’evidente stima e soddisfazione dei suoi compagni di lotta. Per loro è una mamma, più che una compagna: in verità, anche il loro è ancora un retaggio di un antico stereotipo, Agnese neanche ha figli suoi.
È stata dapprima una moglie, a cui i nazisti hanno deportato ed ucciso il marito, lui sì vecchio militante comunista nella guerra partigiana dagli inizi, ma non è entrata in clandestinità per spirito di vendetta. L’adesione, la spinta ad operare fattivamente in quello che solo la sua coscienza, spontaneamente e non per riflessione politica, le suggerisce, è avvenuta dopo qualche tempo quando, ferita, amareggiata ed oltraggiata dalla disumana violenza e cattiveria gratuita dei nazisti, ne fa fuori uno, dovendo poi sfuggire all’inevitabile rappresaglia.
Restando al fianco dei suoi ragazzi fino all’estremo sacrificio, di lei resterà solo un mucchio di stracci nella neve sporca: e però verrà pure il disgelo, e quei cenci avranno contribuito anche loro a tessere lo stendardo delle persone libere. Senza, sarebbe un vessillo lacerato in qualche punto.
L’originalità del racconto sta in questo, la protagonista non è una classica eroina romanzata, una ragazza bella brava e buona, abile e audace, che arrischia la vita in tribolanti avventure per un’idea di uomini liberi da ogni dittatura, è invece una persona comune, banale, anche paziente, fin troppo, che infine ha detto basta, senza se e senza ma. Non è né un’abile combattente, e nemmeno una decisa e determinata resiliente, è invece un qualunque esponente di una certa umanità.
Il cardine, il fulcro, la vivandiera di quel movimento che spontaneamente, formatosi almeno all’inizio motu proprio, da tanti, di ogni ordine e censo, età, genere, oltre qualsiasi differenza, inizia a muoversi, ad agire. E fa quel che può perché sente da sé quello che deve fare, senza che glielo dica nessuno se non il proprio cuore, mette a disposizione volontariamente le proprie abilità, quello che sa fare meglio, non è una madre ma partecipa, non ha ragazzi propri ma accudisce i giovani, non gli appartengono quei giovanotti imberbi o con le barbe scure, ma per loro si sacrifica, senza esitare.
Perciò resiste, perché non la sua non è insistenza, ma convinzione di essere nel giusto.
Ed è quanto rese vincente la Resistenza, riscattando l’onore svilito del Paese.
Renato Viganò ha reso racconto delle cronache normali dell’epoca, dell’agire eccezionale di quei tempi da parte di tanti, i più, che eccezionali non erano ma furono straordinari, più di tanti saggi fa capire le nostre origini, la nostra storia recente, chi siamo stati, da dove e da chi veniamo.
Certo, è un racconto di neorealismo un po' ingenuo, se vogliamo, molto di parte, distingue nettamente buoni e cattivi, cosa che altri testi dell’epoca, compreso quello citato di Vittorini, evitano, perché la realtà non è mai a colori netti, ma sempre sfumata, rarissimi i bianchi o i neri, molto di più i grigi.
E però, ” L’Agnese va a morire” è un testo importante, è un simbolo, è memoria, è monito, è grazie a lei e quelli come lei se oggi stiamo qui a scrivere, nessuno bussa furiosamente alla nostra porta con i calci dei fucili, costringendoci per sfuggirgli ad andare malvolentieri tra la neve, con le scarpe rotte, eppure bisogna andare. Si deve. Lo capiva Agnese, lo capivano i suoi compagni. E noi.
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Mamma Agnese, l’infaticabile
Che cos’è l’Agnese? Questa è la domanda che pone al termine della propria introduzione al volume L’Agnese va a morire di Renata Viganò lo scrittore e saggista Sebastiano Vassalli. Egli aggiunge: «Ebbene, che a questa domanda ognuno cerchi di rispondere come può e come vuole». Personalmente ho provato a farlo.
Innanzitutto l’Agnese di Renata Viganò è uno dei personaggi femminili meglio riusciti della nostra letteratura resistenziale. È un personaggio che prende forma da una donna realmente esistita e realmente conosciuta dalla Vigano, come racconta la stessa autrice nell’articolo La storia di Agnese non è una fantasia, apparso su «l’Unità» nel novembre 1949, poche settimane dopo la pubblicazione del romanzo. Questo aspetto dona maggiore forza alla protagonista indiscussa del volume. Nella Resistenza Agnese nasce staffettista ma diventa con l’incedere della narrazione il centro focale della lotta nelle valli del Comacchio e nella Romagna, tanto da essere responsabilizzata nella propria azione. Penso che l’aggettivo che meglio la personifichi sia infaticabile. È uno straordinario esempio di persona che non conosce la fatica e si adopera ogni qualvolta bisogna farlo. Si impegna senza porre troppe domande perché è donna del fare e dell’agire, non del pensare («io non capisco niente ma quello che c’è da fare, si fa»); del resto, risponde sempre «se sono buona». E lei è buona a fare tante cose ed è soprattutto preziosa perché non si tira mai indietro. Assolve completamente gli oneri del partito, è compagna a tutti gli effetti. Nasce in lei questa esigenza così impellente di mettersi al servizio dei partigiani nel momento in cui le forze nazifasciste catturano suo marito Palita, lo deportano e lo fanno morire di stenti su uno di quei tanti treni verso la Germania. Palita è già lettera morta e riecheggia per tutto il romanzo come un ricordo del passato, di quel periodo antecedente lo scoppio della guerra civile in Italia. Lo sradicamento da casa di Palita rende più evidente l’odio di Agnese verso il nazismo e il fascismo e la spingono a occuparsi di quelle cose di partito che prima di allora erano state di competenza del defunto marito. Il fatto che la costringe a darsi alla macchia è presto trovato: il soldato tedesco Kurt, per giocare, spara al suo gatto nero e lo uccide, lei per vendicarsi uccide lo stesso militare e si dà alla fuga (qui termina la prima di tre parti).
Come aiutare i compagni? Agnese sceglie l’unica via che conosce, quella del lavoro. Prende ordini e svolge ordini, ignara del pericolo. Ha anche una profonda riverenza nei confronti dell’autorità: la parola del Comandante di brigata è una fonte alla quale non può mai venire meno; avere la sua approvazione è benzina nelle membra stanche e provate di Agnese, mentre subire un rimprovero è motivo di profonda delusione (le succederà una sola volta nel finale del romanzo quando sarà costretta a lasciare la base dove si era stabilita per lungo tempo a causa di un aiuto improprio offerto ai pochi compagni della brigata sopravvissuti a una fuga disastrosa). Se la prima fase della sua vita, quella antecedente l’uccisione del soldato tedesco, era stata la più semplice, la più lunga (quasi cinquant’anni), la più comprensibile (con il marito Palita al fianco), la seconda era inevitabilmente la più breve perché era consapevole «che questa vita non era fatta per durare». Non lo era nel piccolo villaggio nascosto tra le canne della valle, dove si era stabilita in un primo momento insieme alla brigata, e non lo sarebbe stata nemmeno dopo a casa di Walter o in un’altra abitazione sulla strada provinciale, a stretto contatto con i nazisti, o ancora da Magon. Era la precarietà la nuova certezza della sua esistenza da combattere con l’abitudine della sua attività da staffettista e da donna di casa per l’intera brigata. Non è un caso che assumerà per tutti il soprannome di «Mamma Agnese», anche se lei madre non lo è mai diventata. Forse, anche per questo, è una mamma severa e dura; in prossimità del nemico tedesco si presenta «con la grossa faccia come di pietra» ma anche con i compagni non la percepiamo mai sorridente e distesa: in scena è sempre silenziosa e rigida.
Tutti noi sappiamo fin dalla prima pagina che Agnese morirà. L’autrice ha voluto dircelo attraverso il titolo. In realtà, con l’avanzare della vicenda il lettore rischia di illudersi e rischia di sperare nella sopravvivenza di questa donna anziana, malconcia e grassa. Supera a più riprese ostacoli di difficoltà sempre crescente, non capitola una, due, tre e quattro volte. La sua fine sembra prossima già al termine della prima delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo e invece la sua Resistenza si prolunga per un tempo che appare illimitato, come illimitati sono i giorni di attesa dell’Agnese a completo servizio delle brigate partigiane (giorni grigi, tormentati giorni clandestini). La scrittrice ci preannuncia la fine di Agnese e anche la protagonista sa fin dal principio che dopo il luglio 1943 i guai sono destinati a peggiorare, ma li affronta uno dopo l’altro perché inizia a sapere sempre di più, inizia a capire quelle che allora chiamava «cosa da uomini», il partito, l’amore per il partito; il narratore rileva nel quarto capitolo della terza parte che ormai era consapevole che «ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri». Ecco perché da semplice moglie del compagno Palita diventa dapprima staffettista e poi punto di riferimento per tutti nella valle del Comacchio e in Romagna, tanto che, verso la fine del romanzo, un compagno di nome «La Disperata», in un momento di scoramento, sente la voglia di vedere l’Agnese, la sua faccia dura, di udire la sua voce dura quando diceva: «Questa cosa, quest’altra posso farla io se sono buona» ed erano sempre cose pericolose, rischiava la vita tutti i giorni, lei grassa, malata e anziana. L’Agnese si trova a un tratto immensamente cresciuta, importante, «responsabile» davvero di azioni incomprensibili e di prevedute decisioni. Il narratore ci dice che «il suo cervello lavorava da solo, imparava quanto fosse grande la fatica di pensare anche agli altri».
La Viganò, da ex partigiana, mette nero su bianco quelle che sono le sue considerazioni sull’intervento delle forze Alleate nel Nord Italia e sulla psicologia che avvolgeva l’esercizio tedesco ormai consapevole dell’imminente sconfitta. Non risparmia critiche alle mosse degli Alleati, come nel caso del bombardamento alla casa di Walter, dove si era da poco stabilita Agnese. La scrittrice bolognese ricostruisce quelle che possono essere state le motivazioni che hanno spinto gli aviatori a distruggere una casa bianca fra l’orto e il frutteto che non può mai essere un obiettivo miliare. Scrive: «Forse un aviatore, di buon umore perché rientrava al campo, disse al compagno di volo: - Scommetto che ci prendo in quella casa là - (agli anglo-americani piacciono le scommesse), - e il collega rispose: - scommetto di no. - Allora proviamo? - Proviamo». L’autrice fa percepire tutto il risentimento delle bande partigiane nei confronti degli Alleati, il cui intervento era lento e il più delle volte improduttivo. Nello stesso tempo la Viganò è brava a evidenziare la psicologia perversa dei nazisti, i quali sapendo di essere sull’orlo del baratro decidono di rendere ancor più dura la vita di tutti in quelle campagne, tagliando gli argini e allagando tutte le aree bonificate; decidono deliberatamente di ammazzare campi e vigne, lavoro di anni per ritardare di un giorno, di un mese, di una stagione l’inevitabile disfatta (questo atto segna la fine della seconda parte del romanzo). I nazisti vengono presentati anche per un loro ulteriore difetto: non essere mai riusciti a comprendere fino in fondo l’organizzazione partigiana perché essa sapeva «essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche». Era, e la Viganò ce lo dice benissimo, «un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. I tedeschi e i fascisti ci mettevano i piedi sopra se ne accorgevano quando si bruciavano». L’autrice bolognese non manca, inoltre, di porre l’accento sui tanti altri civili italiani che, pur di non aver problemi con i nazisti, gli si prostrano fino a vendere il loro corpo e la loro anima (vedi le figlie della Minghina, la vicina di casa di Agnese a inizio romanzo). E per restare lontano dai guai chiudono gli occhi e non percepiscono la presenza partigiana, tanto da considerare quei combattenti strani, forestieri, astratti, leggendari.
Infine, un’ultima nota la meritano i compagni della brigata quasi tutti morti nel tentativo di fuggire dalla prigionia di quella caserma che l’acqua prima, il ghiaccio poi avevano reso invivibile. Il loro tentativo di passare nel territorio degli Alleati, previa autorizzazione del Comandante, è straziante. Per un paio di capitoli il punto di vista si sposta completamente da Agnese a questo variopinto gruppo di uomini di tante nazionalità differenti. Il quartultimo e il terzultimo capitolo sono quelli della perdizione di chi è stato uomo. Sono due capitoli intensi, avvolgenti, cupi. La maggioranza di questi compagni cade sotto i fucili tedeschi e si va a conformare a tutte quelle figure uguali incontrate qua e là in ogni guerra, figure di «corpi fermi e distesi, di scarpe con le punte in alto e i chiodi scoperti». Nemmeno l’Agnese, di lì a poche settimane, verrà risparmiata e quel titolo tanto rivelatorio si dimostra così dannatamente reale. L’infaticabile Agnese la lasciamo «sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve».
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MAMMA AGNESE
Un libro meraviglioso, un documento sospeso tra pagine di incredibile bellezza letteraria miste ad altre di umano sconforto, sofferenza e agghiacciante paura. Ovunque la sospensione del pacifico consorzio umano fatto di quotidianità, certo anche quella talvolta risentita e conflittuale come tra l’umana gente, duro lavoro nei campi e un avvenire di miseria e stenti. É la guerra, quella tra alleati e nazisti, è la guerra, quella tra partigiani e fascisti. Anche la più pacifica e innocua esistenza può celare uno spirito combattivo, ideologicamente schierato, insospettabile, perché così devi essere se vuoi salvarti la pelle e concorrere alla salvezza della tua terra, riacquistare la libertà perduta, scacciare lo straniero e liberarti per sempre dei fascisti. Devi scegliere da che parte stare. Questo ha fatto Palita, il marito di Agnese e lei non se ne è mai accorta; lo hanno preso i tedeschi perché Agnese ha portato un soldato a casa, un disertore, e lo ha rifocillato e nascosto. Una sporca delazione, i tedeschi in casa, il rastrellamento, Palita è prigioniero, seguono l’attesa del suo ritorno e la certezza della sua morte. La vita di Agnese subisce una svolta con la vedovanza, con l’ennesimo sopruso fascista, con la ribellione: uccide volontariamente un tedesco, diventa partigiana. Insospettabile, quasi vecchia, in realtà è una cinquantenne obesa e disfatta , si dà da fare per i compagni, diventa una compagna, lei senza colore, e agisce perennemente: è la protagonista indiscussa e mesta di buona parte della narrazione, quella nella quale i partigiani non sbagliano un colpo, maestri nella loro terra, le valli della Bassa, tra argini e rivi, a confondersi, mimetizzarsi, tendere agguati. Sempre vincenti. Progressivamente però il loro operare vacilla, la stanchezza della resistenza ha la meglio, subiscono duri colpi, protagonista è ora l’inverno, duro, rabbioso, vento, neve, gelo; tutto è perduto ma lei va con la bicicletta per una nuova missione, va, come anticipato dal titolo, per non tornare.
Renata Viganò rimpiange da partigiana la partigiana Agnese che ha conosciuto di persona e le cui ceneri sono disperse come quelle di tanti, di molti, di troppi, vittime della guerra; lo fa nella speranza che il ricordo della lotta partigiana rimanga vivo nella memoria di tutti noi, senza retorica.
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Gente come l'Agnese
"La pioggia e la nebbia si cambiarono in neve, il rumore dell’acqua morì in un grande silenzio. La neve veniva giù dal cielo bianco, si fermava sugli alberi, sui tetti, si scioglieva nei canali, cancellava le cavedagne, era una cosa pesante, monotona, infingarda, una scusa offerta a chi non aveva voglia di muoversi. I tedeschi stavano intorno ai fuochi delle cucine, scherzavano con le ragazze, si ubriacavano e dormivano. Un ordine li faceva balzare in piedi infilavano i lunghi cappotti di panno, quando erano fuori in quel bagliore bianco e gelido diventavano più cattivi avevano desiderio di ammazzare per scaldarsi. Ma per le strade non c’era quasi nessuno. Qualche donna con la testa fasciata dallo scialle, degli uomini rari, con l’aspetto affaticato ed innocuo. I tedeschi non sapevano che fra quegli uomini e quelle donne, in giro fra la neve, molti, quasi tutti, erano partigiani. Staffette inviate con un ordine nascosto nelle scarpe, dirigenti che andavano alle riunioni nelle stalle dei contadini, capi che preparavano l’azione dove nessuno l’aspettava. La forza della resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche. Un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. I tedeschi e i fascisti ci mettevano i piedi sopra, se ne accorgevano quando si bruciavano." Una donna rude, dall'aspetto duro ma pacifico, una lavandaia con il fisico da contadina, passa indifferente tra i soldati tedeschi, fredda, tranquilla, insospettabile. Trasporta ceste di panni sporchi, o biancheria già lavata, o semplicemente le sporte della spesa da cui spunta una pagnotta male incartata, la sua frugale cena, che lei prontamente offre alla guardia che l'ha fermata. Poi va via, pacifica com'è arrivata, come se fosse tutto normale. Ma appena si allontana sputa per terra, maledice gli sporchi nazisti che occupano la sua terra, i loro degni compari fascisti e gli sporchi delatori pronti a vendere i loro compatrioti, come ha fatto Minghina, la sua vicina di casa, con suo marito Palita, partigiano, comunista, arrestato, deportato, morto sul vagone ferroviario che lo stava portando in Germania. Siamo in piena resistenza, in una non meglio identificata zona d'Italia, tra le colline che costeggiano le sponde di un fiume. Lei è Agnese, una donna semplice, gran lavoratrice, che ha sempre dovuto sgobbare per due perché il marito aveva dei grossi problemi di salute. La malattia tuttavia non impediva all'uomo di occuparsi, nel limite delle sue possibilità, delle sorti della sua nazione, deturpata dallo scempio del regime fascista, violata dalla presenza delle SS che si comportano da padroni. Agnese invece non ha mai seguito la politica, non conosce il partito a cui Palita era legato, non si è mai immischiata in faccende che, da sempre, sono appannaggio degli uomini. Tuttavia la nostra eroina non ci pensa due volte ad unirsi ai compagni del defunto consorte, quando questi vanno a trovarla e le propongono di entrare nella resistenza. La donna diventa subito una perfetta ed insospettabile staffetta partigiana, continuando ad occuparsi della casa, delle faccende domestiche, del lavoro da lavandaia, mentre sottobanco trasporta armi, cibo, semplici informazioni. Finché non è costretta a scappare da casa anche lei, a darsi alla macchia con i suoi compagni, dopo aver ucciso un soldato tedesco reagendo all'ennesimo sopruso. Sempre attiva, sempre pronta a fare il possibile per la causa, a volte anche l'impossibile, come un vero soldato pronto a sfidare ogni avversità, ogni nemico, perfino la morte. L'Agnese, con il pensiero sempre rivolto all'amato Palita, va a combattere, L'Agnese va a morire. Renata Viganò racconta la resistenza puntando tutto sulle descrizioni, sulle atmosfere, sui sentimenti, tralasciando la facile retorica, ignorando i fatti storici che avvengono lontano dai luoghi dove si muove la protagonista. Ci sono soltanto un fiume, qualche collina, i partigiani da una parte, i nazifascisti dall'altra. C'è un clima pesante, una popolazione divisa in maniera netta tra chi sta da una parte e chi dall'altra, come esistessero soltanto il bianco e il nero. Ci sono grandi difficoltà a reperire i più elementari mezzi di sussistenza, a combattere le intemperie naturali, la pioggia, il freddo, l'umidità. Difficoltà che aumentano notevolmente per chi, come i gruppi partigiani, deve muoversi in clandestinità, sempre all'erta, dormendo ora qua ora là, spesso all'addiaccio, spesso non riuscendo neanche a dormire, tantomeno a mangiare. Eppure questa gente continua la sua guerra, spinta dallo sdegno verso il regime, dal sogno di cambiare le cose, dalla disperazione di chi non ha più niente da perdere. Ma l'autrice non li presenta come eroi, le loro azioni vengono descritte in maniera secca, cruda, priva di enfasi, di trionfalismo, non ne mostra solo il coraggio ma anche la paura, non ne ostenta solo le certezze ma anche i dubbi. Gente semplice, che pure ha fatto la storia, una storia che troppo spesso viene dimenticata, taciuta, ignorata, che oggi più che mai si tende a minimizzare, ridimensionare, perfino, purtroppo, a revisionare. Gente a cui dobbiamo oggi la nostra libertà, che ha combattuto per sè ma soprattutto per quelli che sarebbero venuti dopo. Gente come l'Agnese. "Dopo sarà un’altra cosa. Io sono vecchia, e non ho più nessuno. Ma voialtri tornerete a casa vostra. Potrete dirlo, quello che avete patito, e allora tutti ci penseranno prima di farne un’altra, di guerre. E a quelli che hanno avuto paura, e si sono rifugiati, e si sono nascosti, potrete sempre dirla la vostra parola; e sarà bello anche per me. E i compagni, vivi o morti, saranno sempre compagni. Anche quelli che non erano niente, come me, dopo saranno sempre compagni, perché potranno dire: ti rammenti questo, e quest’altro? Ti rammenti il Cino, e Tom, e il Giglio, e Cinquecento… - Con quei nomi di morti, si rimisero a parlare di loro, ma non della morte: ne parlarono coi ricordi di prima, come se fossero vivi."
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LA VIGANO' MI HA EMOZIONATA
La Viganò ci ha lasciato un grande romanzo, una sorta di testimonianza, quasi un report giornalistico dove ci racconta quello che succedeva durante la Resistenza in Italia.
Lo stile è crudo, sincero, autentico mette al centro della vicenda l'Agnese, una donna coraggiosa, schietta, una donna di campagna non più giovanissima, ma determinata, tenace e coraggiosa.
Agnese non è un personaggio stereotipato ma trasuda umanità, veridicità, non è sicuramente un'eroina e non lo vuole essere. Però la donna sacrifica la propria vita, non ha più nulla da perdere e vuole rendere libero il suo paese.
L'Agnese inizia a fare la staffetta, a portare cibo, armi e notizie ai partigiani, fino a che viene a conoscenza che il marito è morto durante il trasporto verso un campo di concertamento. La famiglia con la quale vive l'Agnese ospita un soldato tedesco, che per gioco, uccide la gatta tanta amata dal defunto marito e lei decide di ucciderlo. Da lì scappa e inizia una vita da clandestina con la Resistenza, fino al suo tragico destino.
Sappiamo tutti come questa storia va a finire lo intuiamo prima ancora di iniziare la lettura, ma quello che sorprende è lo stile crudo e realistico della Viganò nel descrivere queste vicende storiche.
Dobbiamo ricordarci che i partigiani sono stati fondamentali e vengono sempre ricordati troppo poco ma è grazie a loro che siamo liberi oggi, a queste persone uomini ma anche molte donne che hanno combattuto, perdendo la propria vita, i propri cari pur di mandare via il nemico.
L'ambientazione è ben descritta e integrata con la storia, ma l'Agnese è un personaggio che regge il libro da solo, è così potente, così umano è come se tutto il resto accanto a lei diventasse un contorno. L'Agnese viene descritta in maniera magistrale, è come se la sua figura portasse dentro di sé il dolore, la sofferenza e il peso della guerra.
La Resistenza era formata anche da donne, il loro ruolo era fondamentale e loro rischiavano la vita ogni giorno, se erano prese dai nemici venivano trattate al pari degli uomini. Le donne prendevano il posto degli uomini nelle fabbriche e nell'agricoltura, mettevano a disposizione le loro case per i feriti o per dare rifugio alle persone in fuga.
L'autrice è straordinaria nel ricostruire cosa provasse la protagonista, quali sentimenti l'animassero, la rabbia, l'amore, il dolore, la rivincita.
Questo libro è una vera e propria emozione a livello emotivo, è una storia drammatica, straziante ma vera, dove possiamo fare anche una serie di riflessioni molto profonde sulla vita.
Da leggere.
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I ribelli muoiono per gli imbecilli
«Nasceva invece in lei un odio adulto, composto ma spietato, verso i tedeschi che facevano da padroni, verso i fascisti servi, nemici essi stessi fra loro, e nemici uniti contro povere vite come la sua, di fatica, inermi, indifese.» p. 20
«La prima parte, la più semplice, la più lunga, la più comprensibile, era ormai di là da una barriera, finita conclusa. Là c’era stato Palita, e poi la casa, il lavoro, le cose di tutti i giorni, ripetute per quasi cinquant’anni: qui cominciava adesso, e certo era la parte più breve; di essa non sapeva che questo.» p. 68
Quando per la prima volta Renata Viganò vide l’Agnese, o almeno colei che nel suo libro porta questo nome, verteva in una brutta situazione. Si trovava in un paese della Bassa, sola con il figlio e con il marito catturato dalle SS a Belluno e di cui non sapeva alcunché. Nel villaggio in cui si era rifugiata la credevano una sfollata con la casa disastrata e ogni rapporto con i compagni era andato perduto con la cattura del coniuge. Quando quindi l’Agnese arrivò con quei suoi brutti piedi scalzi nelle ciabatte nel greto del fiume in cui la Viganò si trovava per far giocare il figlio, quasi non credette alle sue orecchie quando la visitatrice la appellò con il nome di “Contessa”, suo soprannome di battaglia. E dopo le prime smentite e il primo chi va là, un pezzo di carta che costituiva la prova. Perché se uno spariva, si stringevano le file, il vuoto veniva cancellato. Successivamente, un secondo incontro fatto per restare, un incontro dove parlarono di gatti perché l’Agnese aveva una gatta grigia che le era stata ammazzata da un tedesco, perché i tedeschi così scherzavano senza però fare i conti con quelle che erano come l’Agnese che non fece discorsi corti e a sua volta ammazzò il tedesco in questione, e la Contessa ne aveva a sua una volta in casa una nera con gli occhi verdi prima di dover abbandonare la città.
È da questi brevi assunti realmente accaduti che ha inizio questa indescrivibile testimonianza storica della resistenza. Un periodo che ormai i più giovani non conoscono, di cui appena hanno sentito parlare, che spesso snobbano o ritengono superato, quando in realtà è stato una delle tappe più importanti e significative del Secondo Conflitto Mondiale.
E così conosciamo l’Agnese, un’umile lavandaia che vive con il marito Palita, dalla salute cagionevole e che morirà nel treno merce durante il viaggio per i lager. Egli è un uomo che non ha una particolare istruzione ma che sa da che parte sta il bene e da quale il male, che ragiona d’istinto e che è mosso da un’idea politica ben precisa che è fatta di coscienza e di consapevolezza e che lo porta a collaborare con i partigiani. Alla sua dipartita, la moglie, massiccia e dal cuore affaticato, a sua volta non esiterà un attimo al sacrificio e alla causa. Aiuterà i compagni sino all’inevitabile epilogo (di cui al titolo) che nulla ha di eroico restando del suo corpo soltanto un mucchio di stracci nella neve. Ma se anche non si è immolata a chissà quale azione disperata, la sua dipartita è più significativa di una battaglia vinta perché la libertà ha vinto e ha prevalso su tutto, perfino e soprattutto sulla sopravvivenza stessa.
Un romanzo indimenticabile, che resta nel cuore, che si ama pagina dopo pagina, che si respira e percepisce, che ti entra dentro e che solletica le corde più profonde. Un romanzo che è testimonianza e memoria storica, che è concreto e veritiero e che tutti dovrebbero leggere, in particolare i più giovani che purtroppo non conoscono se non per sentito dire di questo periodo. Da leggere con calma, gustandolo pagina dopo pagina, un poco alla volta, senza fretta, senza fare le corse.
«Ma ci sono due chilometri fino all’argine. Come fi fa a portare tanto peso? – disse la Rina. – Si porta, - rispose l’Agnese. – Si porta finché si può.» p. 94
«I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle.» p. 166
«I ribelli muoiono per gli imbecilli» p. 237
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Che cosa è stata la Resistenza
Nella sua introduzione Sebastiano Vassalli scrive fra l’altro: “L'Agnese va a morire è una delle opere letterarie più limpide e convincenti che siano uscite dall'esperienza storica e umana della Resistenza. Un documento prezioso per far capire che cosa è stata la Resistenza [...]”. Sono d’accordo, tanto più che in copertina, se pur a caratteri ridotti, c’è una frase che ritengo determinante per comprendere la portata di questo libro: “Per non dimenticare che cosa è stata la Resistenza”. Sì, perché al di là della purtroppo ricorrente retorica con cui ai giorni nostri viene commemorato questo vasto movimento di popolo i giovani non sanno che cosa sia stata la Resistenza e, francamente occorre ammetterlo, questa lacuna è spesso presente non solo nella precedente generazione, peraltro nata nell’immediato dopo guerra, ma anche chi per età anagrafica è stato testimone della stessa. E così libri come “La messa dell’uomo disarmato” di Luisito Bianchi e questo L’Agnese va a morire di Renata Viganò, rappresentano due scrigni preziosi il cui contenuto è da assaporare con lentezza, quasi centellinandolo, ma alla fine le idee saranno più chiare e sarà possibile comprendere veramente ciò che è stata e ciò che ha rappresentato la Resistenza. Agnese, un’umile lavandaia, che lavora anche per il marito Palita, impossibilitato a sostenere il lavoro dei campi in quanto di salute cagionevole, è un essere umano, anche poco istruito, ma che è in grado di comprendere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male, per puro istinto. Indifferente alla guerra, all’occupazione tedesca, quando i nazisti le strapperanno il marito, comunista, per avviarlo al lager (morirà nel corso del viaggio) si trasforma e adesso che sa da che parte sta il bene e da che parte sta il male inizierà a sconvolgere la sua esistenza nella consapevolezza di essere nel giusto. Non è un’idea politica che la guida, è molto di più, è la ribellione della sua coscienza che le impone di dedicarsi anima e corpo alla lotta partigiana, che la porta a considerare quei ragazzi che così tanto rischiano come i figli che non ha mai avuto; il suo istinto, al riguardo, è come quello del contadino che sa quando è l’ora di procedere all’aratura o di seminare. Massiccia, con il cuore affaticato, Agnese è uno di quei personaggi che incontrati per strada paiono insignificanti, ma che conosciuti bene si rivelano straordinari, gente che non esita a sacrificarsi per qualcosa che sentono molto al di sopra di loro. La sua morte non ha nulla di eroico (di lei rimane solo un mucchio di stracci neri sulla neve), non si è immolata in un’azione disperata, non ci saranno medaglie alla memoria, eppure quella morte vale più di una battaglia vinta, perché in quella conclusione a cui eravamo preparati c’è tutto lo spirito di sacrificio di una donna che ha anteposto la libertà alla sua vita.
L’Agnese va a morire è semplicemente un romanzo stupendo che resta nel cuore.