Il quartiere
Letteratura italiana
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Un'isola in un fiume che scorre
Strade che puzzano di concia e di stallaggio. Famiglie che cercano di tirare avanti con stipendi di venti lire al giorno. Panni alle finestre. Bambini che giocano con le biglie di terracotta sul gradino della casa di tolleranza. Padri che indugiano presso l'osteria. Siamo nella Firenze degli anni Trenta, nel quartiere Santa Croce, una sorta di piccola repubblica nel centro della città. Gente comune, che porta la povertà con orgoglio, a cui basta un piccolo gesto per scatenare odio o amore, rabbia o tenerezza, speranza o sconforto. Un'isola in un fiume che scorre, creature che per uscire dalle loro strade, dalle loro piazze, si preparano come se dovessero fare un viaggio dall'altra parte della Terra. "Ma entrate nelle nostre case, nell’anno di grazia 1932, dopo tanta letteratura che se n’è fatta; vestite i nostri panni; ingoiate la miseria che ci assiste notte e giorno, e ci brucia come un lento fuoco o la tisi. Resistiamo da secoli, intatti e schivi. Un uomo cade, una donna precipita, ma erano secoli che resistevano, eternità che stavano in piedi con la forza della disperazione di una speranza – e questa gli è venuta meno dentro il cuore tutto a un tratto. Noi non abbiamo scampo alle nostre debolezze; o si sta in piedi aggrappati disperatamente ai nostri cenci, alla nostra zuppa di cavolo, o lunghi distesi nella mota, irreparabilmente. Non abbiamo armi da usare contro qualcuno: non siamo stati noi a dettare le Leggi che ci governano. Siamo gente difesa soltanto dall’inerzia". In questo contesto conosciamo un gruppo di amici legati da un sodalizio fortissimo, impegnati in uno dei passaggi più impegnativi ed importanti dell'esistenza di ogni uomo: quello dall'adolescenza all'età adulta. Un passaggio che significa abbandonare i giochi per cominciare a lavorare, cambiare i calzoni corti con quelli lunghi, quasi sempre quelli smessi dal papà, guardare le ragazze che fino al giorno prima si consideravano come sorelle con altri occhi e con altri intenti. Valerio, voce narrante, Giorgio, il più saggio e più maturo, Carlo il sanguigno, Maria, bella ed ingenua, e poi Luciana, Marisa, Olga, Arrigo, Gino. Berto e Argia, più grandi degli altri, ma non per questo meno amici. Amori che fioriscono e portano a matrimoni, nascite, traslochi, altri che sbocciano per poi spegnersi subito, altri troncati dall'opposizione dei genitori. Serate di balli, cinema e passeggiate che si alternano ad accese discussioni politiche, a litigi, a scazzottate. Rivalità che non pregiudicano mai il rispetto, modi diversi di vedere la vita che uniscono invece di allontanare. C'è chi finisce in galera a torto, chi a ragione. C'è chi parte per la leva perché obbligato, chi si arruola volontario per la guerra senza capire bene a cosa va incontro. Chi abbandona l'amore per seguire strade alternative. Pratolini ci regala pagine di grande letteratura, scritte come sempre in maniera divina e cariche di pathos e di significato, in cui le figure maschili e femminili, descritte con tratti precisi ed efficaci, sono al tempo stesso protagonisti e contorno di una storia che mette al centro, più che i personaggi, l'ambientazione. Il quartiere, più che un semplice agglomerato di strade, piazze, negozi e abitazioni, appare come un essere dotato di vita propria, in cui ogni abitante si riconosce e al di fuori del quale non riuscirebbe a vivere, come fosse un pesce fuor d'acqua. Un ente a se stante, che anche quando subisce i colpi del progresso sotto forma di sfratti, abbattimenti, modifiche, non smette di vivere ma continua la sua esistenza spinto dall'istinto di sopravvivenza, con la diffidenza dell'animale ferito. "Tornammo. Spingevo il carretto con una mano. Era oltre mezzogiorno, e in piazza Santa Croce i tipografi e i mosaicisti si godevano il sole seduti sulle panchine. Sciamarono i ragazzi dalla scuola agitando le cartelle, le squadre da disegno impugnate come pistole. Marisa mi aveva preso a braccetto. Andavamo, tacendo, alta la testa, per le strade del Quartiere popolato della sua gente. Nel piazzale delle demolizioni la giostra girava deserta e fragorosa, simile ad un grande carillon animato: v’irruppero di corsa gli scolari. E Marisa disse: «Hai trovato diverso il Quartiere. Ma la gente c’è ancora tutta, lo sai. Si è ammassata nelle case rimaste in piedi come se si fosse voluta barricare. Quei pochi che sono andati ad abitare alla periferia, dove c’è l’aria aperta e il sole, nel Quartiere li considerano quasi dei disertori». «Infatti» le risposi. «Anche l’aria e il sole sono cose da conquistare dietro le barricate.»"
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Il rifugio
Il romanzo è ambientato in un quartiere di Firenze durante gli anni Trenta, con protagonisti alcuni ragazzi che vivono la loro adolescenza con gli entusiasmi e le paure tipiche dell’età; sono anni caratterizzati dal regime fascista che culmineranno nella tragedia della guerra. Palcoscenico della storia è un quartiere proletario, una sorta di rifugio, di tana, in cui i giovani trovano la ragion d’essere e avvertono, nonostante tutto, una protezione offerta da vincoli di amicizia e di solidarietà. Il Quartiere non è solo un agglomerato di case, di vie e di piazzette, è la gente che vi abita, accomunata da un unico status economico e sociale che in fondo la porta ad accettarsi, pur con tutti i suoi difetti, bilanciati da un pregio di umana comprensione. A prima vista potrebbe sembrare un ghetto, ma non lo è, poiché chi vi sta può anche essere libero di andarsene, anche se poi finisce per accorgersi che il mondo dall’altra parte non è il mondo per il quale si è fatti e allora è meglio pensare come Giorgio, uno dei personaggi, più maturo della sua età, che dice: “Insomma, a me pare che occorra resistere nella propria casa, nel proprio Quartiere, aiutare ed essere aiutati a migliorarci fra la nostra gente. Se si stesse ciascuno al proprio posto, che è sempre il posto che ciascuno conosce meglio, si sarebbe meno complicati." Queste parole potrebbero sembrare espresse da uno che non vuole uscire dalla sua condizione, più un conservatore che un rivoluzionario, ma sono di una saggezza antica, di chi è consapevole che la lunga evoluzione, con la ricerca di un accrescimento della propria dignità sociale, non può prescindere dal tenersi legati alle radici, a pena di stravolgere la propria vita. Nel perdere il senso di appartenenza al quartiere si perde anche la propria identità, si rompono quelle catene di amicizia che alla fine sopravvivono a tutto, anche al progetto di abbattere le vecchie e fatiscenti case per dare vita a un quartiere nuovo.
Il Quartiere è un romanzo non certo facile, ma al termine della lettura ci si accorgerà di quanto sia bello.
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C'era una volta Santa Croce
La fine del mondo che i personaggi del romanzo conoscevano giunge all’improvviso: in parallelo al passaggio dall’età adolescenziale a quella adultà si realizza la rivoluzione urbanistica del loro Quartiere (scritto sempre con la maiuscola) voluta dal regime fascista. Non era un universo facile il loro, contraddistinto sovente dalla miseria e dal lavoro duro pagato troppo poco, eppure percorso da una vicinanza sociale ed emotiva che faceva del quartiere di Santa Croce quasi un paese all’interno della città: quella che oggi chiameremmo, con orribile anglicismo, ‘gentrificazione’ compromette l’anima popolare (costretta a spingersi in periferia) obbligando molti ad abbandonare le proprie case e le proprie vie. La descrizione della vita quotidiana – le botteghe artigiane, le osterie in cui bere un bicchiere di troppo, le chiacchiere serali seduti davanti agli usci – risultano particolarmente vivaci, ma Pratolini non si fa mancare inquadrature più allargate che, magari partendo da una finestra aperta, colgono in un solo colpo d’occhio i tetti del Quartiere. Se questo è, sin dal titolo, il protagonista, altrettanto importanti sono i ragazzi e le ragazze le cui vicende si intrecciano in questi svelti capitoli: i primi amori che scompongono e ricompongono le coppie, le famiglie più o meno difficili, la maturità che arriva troppo presto, il desiderio di adattarsi che si scontra con l’aspirazione al riscatto sociale e politico sono solo alcuni dei temi affrontati nel racconto in prima persona di Valerio, primus inter pares nella cui fisionomia si può intravedere il profilo dello scrittore. Il libro è infatti ambientato negli anni Trenta e il l’autore è perciò solo di pochi anni più vecchio delle figure che va narrando in quella che è una delle sue primissime opere, il che spiega la presenza di passaggi e situazioni un po’ acerbi. Fra queste pagine, ci sono già i germi che germoglieranno in frutti più maturi, dalla capacità di ricostruire in modo vivido la propria città al partecipato studio delle psicologie dei personaggi senza comunque riuscire a evitare qualche scivolata nella banalità o nel melodramma. Se da una parte la figura di Giorgio, socialista proiettato al sol dell’avvenire, ma anche profondo difensore dell’anima del quartiere risulta alla fine monolitica nel suo non presentare angoli bui, la storia che unisce la solitudine esistenziale di Marisa e la rabbia dell’orfano di guerra Carlo perde quota quando si avvicina alla sua tragica conclusione. Sono in ogni caso difetti minori di un lavoro che ha il pregio di immergere il lettore in un momento storico e in un modo di intendere l’esistenza che paiono remoti e invece ci sono lontani solo pochi decenni. Proprio al modo di pensare è però addebitabile, l’unica, macroscopica pecca: la rappresentazione ai limiti dell’omofobia dell’esperienza di vita che Gino compie cercando di uscire dal guscio protettivo, ma al contempo soffocante del Quartiere.
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Giovinezze.
Firenze, anni ’30. “Il Quartiere” non è certo un luogo dove sfarzo e lusso regnano sovrani, eppure, per i protagonisti di questa storia è “la casa”, la località dove risiedono gli affetti, la consuetudine, i dogmi della vita di strada, i principi di onestà e rettitudine di tempi dettati e scanditi da una diversa concezione della quotidianità.
Valerio, Giorgio, Carlo, Arrigo, Gino, Berto, Maria, Marisa, Olga, Argia e Luciana, sono le voci corali che abitano le pagine dell’opera di un Pratolini ancora lontano dai cenni biografici che abbiamo conosciuto in successivi elaborati quali “Cronaca Familiare”. E così, tra Via Laura, Santa Croce, San Frediano e tutte le altre aree principali della città, prende campo uno scritto che può simbolicamente dividersi in due fasi; una prima all’interno della quale il lettore viene a conoscenza delle realtà di ogni personaggio, ancora poco più che adolescente ed il cui giungere all’età adulta è segnato del passare dal pantalone sopra le ginocchia a quello fino alle caviglie, sino all’avvicendarsi dei primi amori e delle prime delusioni, intervallandosi per quel bisogno incessante di non perdersi nonostante gli avvenimenti a cui fattori esterni – quali l’avvento del Fascimo – e perdizioni interne – quali il farsi corrodere dall’invidia – sottopongono il gruppo, ed una seconda ove la Guerra, con il suo arrivo, muta nuovamente le carte, portando scompiglio, cambiamento.
Due fasi dunque, che nel loro essere segnano il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. E’ una società fondata sul lavoro e sull’onestà morale quella che è descritta dall’autore, una realtà in cui con una scazzottata tutto poteva essere risolto purché si parlasse, ci si confrontasse, si desiderasse il chiarimento. Si parla di amicizia vera, nata tra la povertà, coltivata nella solidarietà di un Quartiere che può forse offrire poco economicamente, ma molto dal punto di vista della solidarietà. Ed anche quando giunge il momento del risanamento dei luoghi della crescita, esso non si sgretola, in pochissimi decidono di trasferirsi nelle periferie, la maggior parte si ammassa nelle case non colpite dal procedimento amministrativo pur di non abbandonare quei luoghi.
E’ uno scritto altresì caratterizzato da malinconia, sensazione suscitata dalla consapevolezza di una ruota, spesso immutabile, che gira tornando sempre al suo punto d’origine, ma anche per il ricordo, per noi nuove generazioni, di un tempo in cui i valori erano diversi, dove la società era più semplice, dove ci si accontentava di poco ma quel poco era il tutto.
Stilisticamente parlando Pratolini non delude, anzi, è capace con la sua penna erudita di toccare l’anima di chi legge, di accompagnarlo nello scorrere delle pagine con grazia e dovizia rievocando altresì immagini di una Firenze in piena evoluzione. Semplicemente, da leggere.
«E veramente siamo diversi. Coi ginocchi coperti o gli alti tacchi di donna, pensiamo di affrontare il mondo via via che il cuore si gonfia dentro il petto, e negargli lo sfogo ci sembra un dovere. Diventare grandi crediamo sia questo soffrire in silenzio, parlare per allusioni o fare gesti che abbiamo visto fare, mischiare veleno e miele dentro al cuore. [..] Eppure possiamo leggerci dentro il cuore l’uno con l’altro, seguirci in ogni strada o piazza e fra le mura delle nostre case di Quartiere. I nostri sogni sono stati così uguali che per formare diverse le nostre storie abbiamo dovuto dividerci le occasioni, come da fanciulli si prendeva ciascuno una qualità diversa di gelato per assaggiarle tutte. Ma ora abbiamo i tacchi alti e le ginocchia coperte; e una finzione negli occhi se ci guardiamo. Ma basta che uno di noi volti un angolo di strada o salga una rampa di scale, perché gli altri possano seguirlo in ogni gesto, come in uno specchio. Ce ne siamo dette le ragioni di un giorno lontano con pugni e abbracci, muco sotto il naso: non c’è nulla che possa sfuggirci nell’affetto che ci lega. Lasciate che la finzione ci squassi, o la vita, col cuore che si fa grosso e noi lo comprimiamo. Un giorno saremo ancora tutti assieme, seppure coi corpi consumati da contatti estranei. Ma i nostri corpi sono abituati a dormire su un materasso di foglie, a soffrire di geloni, si sono nutriti di cavolo e di lampredotto, come volete che ci faccia paura ritrovarci un po’ diversi in viso? Credete che non ci riconosceremmo?»