Il copista
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
L’ULTIMA ISPIRAZIONE
“Che perisse ogni sua speranza. Che se ne stesse solo con la sua gloria, a scrivere per i morti. Avrebbe avuto i suoi posteri, sì, il destino non poteva o non voleva impedirlo: li avrebbe avuti, per secoli. Posterità! Una catena che rotola sulla carrucola: ciascun anello appare per pochi istanti alla luce e subito risprofonda nel buio del pozzo. I posteri non sono che una illusione, lampi che si accendono muti nell’oscurità della storia” (p.99-100).
Un racconto lungo su cui Marco Santagata, nome arcinoto tra gli studiosi di Dante e Petrarca, è tornato più volte per apporre modifiche e varianti: nel 2000 e poi nel 2007 questo libro era stato edito dalla casa editrice palermitana Sellerio. Quest’anno “Il copista” è riedito in versione definitiva da Guanda.
Il protagonista è un Petrarca ormai anziano, amareggiato e ferito dai terribili lutti che lo hanno colpito e tormentato dagli acciacchi dell’età, specialmente dall’ulcera allo stomaco (e l’autore indugia, soprattutto nelle prime pagine, nel descrivere con pochi chiari tratti i particolari del decadimento fisico del poeta).
La perdita del caro figlio Giovanni e del nipote Francesco, periti per mano della peste del ‘61, per non parlare di quella dell’amata Laura, morta tempo addietro anch’essa per la pestilenza, nel 1348, hanno segnato per sempre la vita del sommo. L’evento recente che però lo tormenta forse più di tutti è l’abbandono dell’amato copista: Giovanni Malpaghini, detto anche Giovanni da Ravenna.
Sappiamo infatti che, nella realtà, questo giovane aveva copiato per lui numerosi componimenti del celebre Canzoniere e delle epistole Ad familiares, però ad un certo punto si era rifiutato di proseguire nel lavoro ed aveva abbandonato Petrarca che lo aveva amato quanto un figlio suo.
In questo libro Santagata immagina le motivazioni (inventate, lo dice nella postfazione) dell’allontanamento del giovane.
Santagata immagina un venerdì degli ultimi istanti di vita del poeta fiorentino, in una giornata uggiosa nella triste città di Padova, in cui preso dai ricordi e dalle recenti vicissitudini della sua vita, riesce a concludere una canzone che aveva promesso all’amico Giovanni Boccaccio: la canzone numero 323 del De Rerum Vulgarium Fragmenta, ossia il Canzoniere. Tale componimento è un tributo all’amico dal momento che contiene chiari riferimenti al Decameron, in particolare alle novella di Nastagio degli Onesti ( “la repente tempesta oriental...” è la peste del 1348 di origine asiatica, i cani da caccia che inseguono una fiera dal volto di donna).
Il Petrarca che conosciamo in queste pagine è un uomo distrutto, ancora tormentato dal dissidio interiore tra il desiderio di una spiritualità intima e consolatoria e quello della gloria e del suo ricordo presso i posteri.
Anche se all’epoca in cui era morta, Laura era diventata una “botte da vino” (p.59). ingrossata ed invecchiata dalle troppe gravidanze, continuerà ancora ad ispirare Petrarca, perché il ricordo della sua bellezza rimarrà intatto del suo cuore e nella sua memoria.
“Laura era giovane e bella. Non importava che in quell’aprile lontano fosse morta una donna obesa e invecchiata. Era giovane, perché con lei morivano tutti i giovani. Anzi, tutti gli uomini. Anche i vecchi muoiono giovani rispetto all’eternità. Giovani e belli, perché la vita, unico bene che possediamo, è bella” (pag. 111).
Ed ecco la penna del Santagata ritrarre quei tormentati momenti, riprodurre quei nessi “tra biografia ed ispirazione” di un uomo solo ed abbandonato, ormai stanco nel corpo e nello spirito, stanco di credere nell’al di là, che trova ancora dei fulminei barlumi di autentico slancio artistico per terminare la sua canzone dedicata a Laura.
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Petrarca fra Leopardi e il pendolo di Schopenhauer
Venerdì 13 Ottobre 1368.
Francesco Petrarca ha 64 anni, ma non siamo di fronte al 'poeta laureato' che abbiamo imparato a conoscere sui banchi di scuola: rigidità posturale, ulcera allo stomaco e minzione difficoltosa ci restituiscono l'immagine di un anziano inchiodato impietosamente al muro dalla propria carta d'identità. In quel di Padova fa freddo, e vivere in una casa umida non fa altro che aumentare la sua malinconica depressione, che sfoga con bestemmie e insulti contro l'anziana governante Francescona, mentre le perdite affettive del figlio, del nipote e del copista tormentano la sua mente ormai sfiancata.
Un dissacrante romanzo breve che mescola biografia, inventiva e profili psicologici, ben lontano dall'Umanesimo e dai testi stereotipati che esaltano i grandi del passato in termini aulici e grandiosi.
Distanti da un percorso di pura saggistica, siamo di fronte a un testo dal registro colloquiale, dall'ironia tagliente e dalla lettura rapida e intuitiva.
Il protagonista è un uomo logoro e solo, il quale, tuttavia, rimane lucido nell'estremo tentativo di mantenere quello status sociale acquisito presso amici, conoscenti e letterati: peccato che ormai sia crollato ogni simulacro religioso insieme alla sua fede, e anche l'ultima speranza della scrittura non è detto che risulti efficace per contrastare la sua inquietudine esistenziale.
Tra l'avanzare della vecchiaia - 'una perdita continua, disordinata, casuale' -, una canzone di Boccaccio, un mercante fiorentino dalla pazienza biblica e le citazioni di Bellerofonte, rimane un'ultima, incrollabile certezza: la 'Sincerità, tanto la vita è merda.'
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Una normale, misera ma ispirata, giornata del poet
Con la consueta precisione storico-filologica e con grande verosimiglianza, Santagata ricostruisce una normale giornata (il 13 ottobre 1368) dell’ormai anziano Francesco Petrarca, in quel di Padova, mentre ispirato compone la canzone “Standomi un giorno solo a la fenestra” (n. CCCXXIII del Canzoniere, dedicata alla morte di Laura, ricca di allegorie che Santagata ha avuto modo di analizzare in alcuni saggi). Ma niente di complicato: il racconto non mira a fornire un erudito commentario alla poesia, bensì a fare un ritratto realistico dell’uomo Francesco, in tutta la sua fragilità ed imperfezione. Ne esce l’immagine dissacrante di un vecchio lamentoso e insolente, che rutta, scorreggia, defeca, perde orina, puzza di sudore e di piscio, sputa semi d’uva sul pavimento, parla con la bocca piena di cibo, alza il gomito e maltratta la governante con cui divide un freddo e umido appartamento. Lui stesso conosce bene la distanza fra questa misera realtà e l’immagine pubblica di poeta laureato, come anche quella fra la sacra effigie di Laura celebrata nei suoi scritti e il volgare ricordo della donna, una “matrona sfiancata dalle gravidanze” con una “pancia gonfia che neppure si distingue dalle tette”. Appunto questa sua consapevolezza, unita a forti sentimenti di solitudine e all’angoscia per la perdita del figlio e di un amato nipote, lo rendono una persona concreta alla quale ci sentiamo empaticamente vicini.
Il testo, abbastanza breve, si legge con piacere, anche sapendo che ogni riferimento storico e letterario è assolutamente fondato e filologicamente aggiornato.