Il confine
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
La terra dell'odio
Sebastiano Vassalli pubblica in questi giorni un piccolo saggio per ricordare i cento anni di storia dell'Alto Adige annesso all'Italia.
La data esatta del centenario cadrà nel 2019, ma l'autore si prepara con questo scritto che non ha la pretesa dell'esaustività, ma fissa i tratti salienti di un pezzo di storia politica e sociale complessa e dolorosa.
Per chi conosce Vassalli attraverso la lettura dei suoi precedenti romanzi, troverà tra questa manciata di pagine un volto prettamente giornalistico, lontano dalla colorata ed intensa vena narrativa che lo contraddistingue.
Spogliato della veste di narratore, l'autore fissa in tappe e volti precisi, il percorso storico dell'annessione e del post annessione di un popolo, le linee politiche succedutesi nei decenni, analizzando per sommi capi l'evoluzione della “questione Sud Tirolese” dal periodo fascista ai giorni nostri.
Scorrono in maniera veloce, senza scivolare in una eccessiva pedanteria politica, personaggi come Ettore Tolomei, voce del pensiero fascista e braccio esecutore in loco durante il Ventennio, Silvius Magnago e l'indipendentista Andreas Hofer.
La lettura de “Il confine” ha il pregio di ricordare uno spaccato importante della storia del nostro paese, divenendo ottimo strumento per i giovani di oggi che poco possono attingere dai testi scolastici sull'argomento. Naturalmente Vassalli offre degli spunti che devono essere trampolino per approfondimenti.
Come classificare il testo; una ricostruzione schematica degli eventi che hanno toccato l'Alto Adige, di facile lettura per un vasto pubblico, tuttavia per chi segue Vassalli da sempre, una volta giunti all'ultima pagina si viene colti da un senso di vuoto.
Manca il cuore, il pathos, manca quella vena calda che passa attraverso gli occhi della gente comune.
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Cos’è il confine?
Cosa sia “Il confine” tenta di stabilirlo Sebastiano Vassalli in un'opera pubblicata prima della sua recente scomparsa.
Forse il confine è stabilito dalla geografia dei luoghi?
O piuttosto la discriminante è l’identità nazionale ed etnica?
L’indagine viene condotta nel microcosmo del Sudtirolo, una zona tanto incantevole, “nel paesaggio scintillante delle Dolomiti”, quanto dilaniata dai conflitti acuiti dalla politica dell’epoca fascista, fomentati dalla follia nazista, riediti dagli attentati degli anni sessanta (“L’odio era diventato adulto… ebbe il suo culmine nella «notte dei fuochi», tra l’11 e il 12 giugno 1961: quando diecine e diecine di cariche di plastico da due chili l’una danneggiarono, oltre ai tralicci della corrente elettrica anche ponti, binari e condotte forzate…”), forse mimetizzati dall’esperienza dell’autonomia provinciale (“Nascono… le gabbie etniche e viene alla luce l’altra faccia del problema: quella della minoranza italiana”).
Pagine lucide, con un grande, tragico protagonista: l’odio, “Quel personaggio invisibile ma reale… uno dei protagonisti di questa storia. L’odio è il più forte dei sentimenti umani e chi ha scelto nella vita di fare il mestiere di Omero: quello di raccontare le storie degli uomini, deve saperlo riconoscere, altrimenti che scrittore è?”
Per concludere che forse il confine è un sottoprodotto della follia umana: “Quest’altra Europa… ama i confini, tanto da crearli anche dove non ci sono… con gli ebrei o con gli immigrati o con i «diversi» di qualsiasi genere”.
Giudizio finale: erasmico, illuministico, fa rimpiangere un ottimo scrittore.
Bruno Elpis
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I semi dell’odio
Finita la prima guerra mondiale, il 10 settembre 1919 a Saint Germain.en-Laye fu firmato il trattato di pace con cui furono stabilite le ripartizioni territoriali dell’impero Austro-Ungarico e le modalità e le condizioni per la nascita della repubblica austriaca. Come al solito non si guardò alle legittime esigenze delle popolazioni interessate, ma ci si basò esclusivamente su criteri di espansione territoriale-economica e su caratteristiche volte meglio a difendere i confini nazionale degli stati vincitori. Fu così che l’Italia pretese, ed ottenne, che il suo territorio si espandesse fino al naturale spartiacque con l’Austria. In tal modo, il Tirolo, che prima era un’unica regione che a sud finiva a Riva del Garda, fu diviso in due, ricomprendendovi la parte ove si parlava prevalentemente italiano e quella in cui la lingua principale era il tedesco. Si trattava di zone soprattutto montuose, a economia agricola quasi di sussistenza e quindi intrinsecamente povere. Al momento e fino al 1922 non cambiò sostanzialmente nulla, a parte il fatto che quelle popolazioni, da diversi secoli parte integrante dell’impero austriaco, ora facevano parte del Regno d’Italia. Fu con l’avvento del fascismo che iniziò il periodo più buio per il popolo tirolese, che vide non solo negata la sua identità nazionale, ma che fu sottoposto a una italianizzazione violenta e forzata. E il regime trovò una valida sponda in un irredentista trentino, Ettore Tolomei che, sulla base del fatto che Druso, il figliastro di Augusto, aveva conquistato quelle terre facendone una provincia romana, asserì che le stesse dovevano quindi essere considerate territorio italiano. Era un suo pallino, tanto che nei primi anni del XX secolo si era dilettato a italianizzare i nomi tedeschi delle località del Sud Tirolo, ribattezzato Alto Adige. Ne uscì una toponomastica che sovente nulla aveva a che fare con il nome originario, ma al fascismo non interessava, perché quel che contava per lui è che lì, con le buone, ma soprattutto con le cattive, la popolazione di lingua tedesca fosse italianizzata. L’italiano diventò così l’unica lingua che si insegnava a scuola, i funzionari pubblici vennero sostituiti da italiani provenienti soprattutto dal Meridione e che spesso si comportavano da padroni. È in quel periodo che nasce l’odio di un popolo a cui viene negata l’esistenza; tuttavia, in base agli accordi fra Mussolini e Hitler, dopo che questi aveva annesso alla Germania l’Austria, fu “graziosamente” concesso agli altoatesini di lingua tedesca di optare per la Germania e così larga parte della popolazione, almeno per riacquisire la sua lingua e in un certo qual senso tradendo i principi dell’eroe nazionale Andreas Hofer, che più di un secolo prima era insorto contro la prepotenza del dominio bavarese, decise di accettare l’offerta del Fuhrer. Questo però comportava il trasferimento in Germania, solo in parte attuato, e il servizio militare nell’esercito germanico, che era l’unico effettivo scopo a cui mirava Hitler, bisognoso di un numero crescente di soldati per la sua politica espansionistica. È forse superfluo che dica che chi rimase in Italia peggiorò la sua situazione, che divenne oltremodo critica dopo l’8 settembre del 1943, allorchè tutta la regione Trentino-Alto Adige fu annessa al Reich. Finita la seconda guerra mondiale, gli altoatesini, ma anche i trentini, portarono avanti le loro richieste di autonomia;le cose, però, andarono per le lunghe, tanto che più di uno scalmanato di lingua tedesca riattizzò l’odio e iniziò il periodo degli attentati, dei morti fra le forze dell’ordine e dei reparti del nostro esercito, finchè si arrivò a concedere una sorta di indipendenza, o ampia autonomia, che, applicata, ha portato a soffocare i risentimenti e alla odierna situazione di convivenza pacifica. Il confine, questo strano libro che non si può definire un saggio storico vero e proprio, ma che posso considerare al massimo una riflessione personale, o anche un lungo editoriale d’opinione, parla di tutto ciò e Sebastiano Vassalli l’ha scritto quest’anno, per celebrare in anticipo la ricorrenza del centenario del famoso trattato del 10 settembre 1919; l’ha scritto in anticipo perché probabilmente sapeva che il suo tempo stava per finire, tanto che la morte l’ha colto il 26 luglio. Abituato ai suoi bellissimi romanzi, in cui il cuore si avverte pulsante, accompagnato da un pregevole stile, sono rimasto un po’ stupito per la scrittura giornalistica e per una certa freddezza di esposizione, che scompare solo nelle parti in cui traspare netta la sua accalorata passione per un mondo di pace, un mondo in cui tutti i popoli e tutte le etnie vivano in armonia. Certo, sa un po’ di retorica, ma non è una retorica vuota, è più di forma che di sostanza, e appare come il grande messaggio di un uomo che, consapevole della sua fine imminente, indica una strada di principi che, se rispettati e sinceramente accolti, possono portare gli esseri umani a una condizione di pacifica e serena convivenza.
Da leggere.