I senza cuore I senza cuore

I senza cuore

Letteratura italiana

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Anno Domini 1116, la Grifona salpa dal porto di Genova con 192 anime a bordo: la rotta è verso il burrascoso Atlantico e le brume della Cornovaglia bretone, dove un monastero pare custodisca un misterioso manoscritto. Il suo comandante Guglielmo il Malo, della famiglia degli Embriaci e trionfatore alla Prima Crociata, è segretamente in cerca della verità sul Vaso di smeraldo, portato a Genova come bottino di guerra e dono della Regina di Saba a Salomone, presente sulla tavola dell’Ultima Cena di Nostro Signore. È davvero l’originale? O è un clamoroso falso? Ma Guglielmo, l’ingegnoso costruttore di macchine da guerra, è subito costretto a calarsi nei panni di un riluttante detective, per indagare col fedele, sveglio scrivano Oberto da Noli, narratore di tutta la storia, sui delitti di un efferato serial killer che semina il terrore a bordo della sua galea nelle notti di luna nuova: tre ufficiali sono stati uccisi uno dopo l’altro e lasciati con il petto squarciato e senza cuore.



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I senza cuore 2020-06-22 20:33:35 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    22 Giugno, 2020
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Questione di fegato, anzi no, di cuore.

Quello che contraddistingue questo bel romanzo di Giuseppe Conte, solo omonimo del nostro Presidente del Consiglio, è il suo essere un libro poliedrico, un racconto corale per generi e personaggi trattati.
Perciò un tomo poderoso, che però si legge con facilità, perché la scrittura non è ridondante, anzi direi che è concisa ed efficace.
L’autore non si dilunga in faticose e poco interessanti descrizioni, non si perde nei particolari, si cala subito nell’atmosfera e nel tempo in cui ambienta la vicenda, intorno all’anno 1100, all’epoca delle crociate.
È un racconto chiaro e preciso, sufficientemente esauriente ed esaustivo nel delineare la sua storia, anzi le sue novelle convergenti in una.
Perché questo è un romanzo di Storia e di Avventure, è un diario delle Crociate e di viaggi in Terrasanta e oltre, con relativo accenno a battaglie e a macchine di guerra rudimentali ma ingegnose.
Quelle che hanno fatto la fortuna, e hanno consacrato alla fama il protagonista, il condottiero genovese fino al midollo, e fiero di esserlo, devoto alla sua città, Guglielmo degli Embriaci, detto anche Guglielmo il Malo, data la sua rudezza e scontrosità solo apparente, e anche Guglielmo Testa di Martello, e questo fa riferimento sia alla sua cocciutaggine sia alla maestria di guerriero, di artigiano, e ingegnere di artifizi per le battaglie.
Non solo: direi che è un romanzo incredibile, che svaria con rara facilità e piacevolezza a tutto tondo.
Possiamo definirla anche una storia di miti e leggende, richiama per certi versi e per spettacolari intrecci e colpi di scena le avventure di un antico Indiana Jones, alla ricerca dell’Arca Perduta.
Ricorda, ancor di più pertinente, dato lo speciale significato attribuito all’oggetto della ricerca, la spedizione di Giasone alla testa degli Argonauti, alla ricerca del Vello d’oro.
Solo che nel nostro caso la ricerca verte su un misterioso vaso trafugato da ignoti in Palestina, che conferisce al suo possessore degli incredibili e misteriosi poteri.
A ragione: si tratta, infatti, di un utensile che si dice sia stato usato da Gesù Cristo per consumare il suo pasto nell’Ultima Cena, insomma il tema ricorda molto anche il genere tipico delle trame dei romanzi di Dan Brown, con il suo Robert Langdon che svela segreti nascosti nei miti.
Ancora oltre: potremmo definirlo anche un giallo, questo libro.
Che utilizza anche uno degli artifizi classici, e tra i più ingegnosi e difficili da realizzare magistralmente, il tradizionale mistero del delitto nella camera chiusa.
Il caso cioè in cui il delitto, o i delitti come nel nostro caso, avvengono in un ambiente chiuso, come può essere appunto un locale inaccessibile ad estranei, per cui il colpevole va necessariamente ricercato tra tutti i possibili indiziati reclusi in quello spazio precisamente delimitato, e però, malgrado sospetti e diffidenze, nessuno sembra, almeno in apparenza, gravato da qualche dubbio che lo indichi sicuramente coinvolto; più spesso, tutti sono al di sopra di ogni sospetto.
Di una simile situazione delittuosa è stata magistrale autrice Agatha Christie, per coloro che la conoscono, è facile rievocare le condizioni di un ambiente chiuso e inaccessibile, non necessariamente una camera, come un treno, nell’”Assassinio sull’Orient Express”, o un isolotto, come in “10 piccoli indiani”.
Giuseppe Conte però ne offre una versione originale e fantasiosa: il giallo è ambientato su una galea, una tipica imbarcazione dell’epoca, ma non un piccolo battello da crociera come in “Assassinio sul Nilo” della Christie, tanto per non smentirci, ma una nave bella grossa, che ospita 200 persone, tutti stipati a contatto di gomito, che quindi si sorvegliano tra di loro, e si tratta di uomini rudi, avvezzi a difendersi, sul chi vive e con occhi aperti.
Eppure i delitti avvengono e si susseguono, anche in maniera efferata, senza che nessuno si accorga di chi e come agisca, quasi si trattasse di un fantasma.
Nel frattempo, Conte ci erudisce anche di come si svolgeva la vita sulle navi dell’epoca, per di più in viaggio oltre le temute, e famigerate, Colonne d’Ercole.
Proprio questo carattere d’inafferrabilità del colpevole, è occasione per l’autore di virare ancora nel suo raccontare, stavolta si orienta verso i temi del thriller, per non dire dello splatter, reso bene perché accennato senza specifiche descrizioni particolareggiate, con incursioni diritte nella stregoneria e nella possessione demoniaca, al cui confronto le atmosfere da brividi dell’”Esorcista” nulla hanno a che invidiare.
Giuseppe Conte ha scritto una bella storia fantastica, con una fantasia inesauribile, veramente una lettura distensiva e senza pretese se non di divertire, una lettura gradevole; per portare altri esempi basti pensare che tutto il racconto è redatto in prima persona da uno scrivano, Oberto da Noli, sulla falsariga di Adso da Melk, il giovane novizio che redige, a mò di diario, “Il nome della rosa” di Umberto Eco.
Oppure quando favoleggia finanche di una favolosa città, sommersa con tutte le sue immense ricchezze al largo della Cornovaglia, con il preciso riferimento al mito di Atlantide, il leggendario continente sommerso.
Dobbiamo dire tuttavia che questo romanzo di Giuseppe Conte non è solo un esercizio di scrittura fantastica e favolosa, esso è assai di più. Certo appare un romanzo gradevole e a prima vista leggero, una lettura disimpegnata fine a se stessa, invece esso è, molto sottilmente, assai di più, un’elegia dell’uomo, e del suo viaggio verso il sapere e verso la conoscenza.
Per questo l’autore richiama tanti generi, tante trame, tanti altri libri e autori.
Quello che spinge personaggi come il suo protagonista Guglielmo non è la ricchezza o la brama di potere e di avventura, persone come queste sono spinte essenzialmente dal cuore.
Il cuore li spinge a conoscere, a fare, a osare, anche quando la ragione li consiglia di desistere, e però senza rinunciare a questa, senza smettere di cercare soluzioni e spiegazioni a quanto appare incomprensibile. Un’elegia dell’uomo che cerca e conosce, con interezza.
Tutto il romanzo di Giuseppe Conte è, in definitiva, una dedica: all’uomo.
Che è tale, solo quando agisce con sintonia di anima e corpo.
La bellezza dell’esistenza è fantastica, non è cosa per i senza cuore.

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