I Beati Paoli
Letteratura italiana
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«Per il bene superiore»
In una sera di gennaio del 1698 l’intera città di Palermo è in festa per celebrare la pace di Ryswick che pone fine a una lunga guerra tra la Spagna, di cui la Sicilia è vicereame, la Francia e altre potenze europee, ma il giovane Raimondo della Motta ha un ulteriore motivo di gioia: si è sparsa la voce che suo fratello maggiore, il duca Emanuele, sia morto in guerra, combattendo per la corona spagnola e lasciando la giovane moglie in procinto di partorire un erede che se morisse o si rivelasse una bambina lascerebbe il titolo nelle mani del secondogenito. Gelido, intelligente, ambizioso e spietato, don Raimondo confida nella benevolenza del fato, ma è pronto a dargli una spinta pur di sgombrare il campo e ottenere quello che desidera.
Quindici anni più tardi, nel 1713, un aitante giovanotto di belle speranze entra a Palermo, di ritorno in patria dopo aver vissuto un’esistenza errabonda e avventurosa, per incontrare un frate che ha l’incarico di rivelargli il segreto delle sue origini: il giovane è Blasco da Castiglione e le sue rocambolesche avventure si dipaneranno per oltre mille pagine tra duelli, amori, intrighi, prigioni, battaglie, congiure di palazzo, incrociandosi con innumerevoli altri personaggi e in primis con la famigerata setta segreta dei Beati Paoli.
Pubblicato a puntate su «Il Giornale di Sicilia» tra il 1909 e il 1910, I Beati Paoli è un romanzo d’appendice, un feuilleton, e in quanto tale presenta le inevitabili caratteristiche del genere, finalizzate a tenere viva il più a lungo possibile l’attenzione dei lettori: vicende avventurose e ricche di mistero che si sviluppano all’infinito, amori a prima vista, passioni travolgenti, intrighi machiavellici, colpi di scena e continui capovolgimenti delle situazioni. Un mix che cattura e affascina senza scampo. Certo, Natoli scrive letteratura popolare e non bisogna aspettarsi grande profondità storica o psicologica. I Beati Paoli non è Il Gattopardo o I Viceré, ma per essere letteratura popolare è scritta dannatamente bene. È un romanzo che va apprezzato per quello che è, senza chiedergli qualcosa che non può dare e godendosi invece fino all’ultimissima riga tutto il fascino, l’avventura, gli enigmi e il divertimento che offre.
Sebbene non abbiano psicologie particolarmente sottili, i personaggi sono vivi e ben delineati e i più riusciti sono quelli che sfuggono a un facile inquadramento, caratterizzati da un ambiguo miscuglio di bene e male, come donna Gabriella o Coriolano della Floresta. Spicca, fra tutti, anche il birro Matteo Lo Vecchio, un cattivo fino al midollo dai mille travestimenti, nemico giurato dei “buoni”, del popolo, dei deboli e degli indifesi, che incarna alla perfezione l’assenza o addirittura il volto corrotto dello stato.
La ricostruzione storica è eccellente, così approfondita e dettagliata da dare l’impressione di camminare nella Palermo del Settecento, tra lo sfarzo dei palazzi nobiliari, la miseria dei vicoli bui, la sfolgorante passeggiata degli aristocratici sul lungomare, il labirinto senza fine di grotte e cunicoli che è il regno sotterraneo dei Beati Paoli. Già, un regno vero e proprio quello dei paladini del bene e della giustizia che si riuniscono di notte sotto le strade di Palermo e, guidati da una figura che cela la propria identità, lottano contro soprusi e violenze e portano vendetta e protezione a chi non è in grado di assicurarsele da sé. Si parla di un presunto legame tra l’ideologia dei Beati Paoli, realmente esistiti, e la mafia. Per sviscerare la questione sarebbero necessari studi e ricerche specifiche, ma forse c’è un aspetto che balza subito all’occhio durante la lettura: la setta dei Beati Paoli è uno stato nello stato, una struttura gerarchica articolata e complessa che non riconosce il ruolo dello stato nazionale e amministra da sé la propria legge e in questo non può non ricordare la mafia. I Beati Paoli, tuttavia, agiscono solo ed esclusivamente nel nome della loro unica divinità, la giustizia, un meccanismo gelido e inarrestabile che non si ferma davanti a nulla e si compie anche a prezzo di grandi sacrifici, spazzando via i destini privati e ignorando i desideri e i meriti degli uomini. Le presunte analogie con la mafia, forse, si fermano qui e al lettore resta piuttosto da interrogarsi sul senso e il valore di una concezione della giustizia così asettica, fredda e implacabile da essere quasi spaventosa. «Per il bene superiore», dice il Grindelwald della saga di Harry Potter: se i Beati Paoli avessero avuto un motto, forse sarebbe stato questo.