Narrativa italiana Romanzi storici Cristo si è fermato ad Eboli
 

Cristo si è fermato ad Eboli Cristo si è fermato ad Eboli

Cristo si è fermato ad Eboli

Letteratura italiana

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Cristo si è fermato a Eboli è il resoconto del confino di Carlo Levi in Lucania durante il regime fascista, ed è riconosciuto come uno tra i romanzi più importanti della letteratura europea. Il viaggio verso sud e la permanenza nel piccolo paese di Gagliano permetteranno all'autore di conoscere luoghi e persone, usi e costumi, a lui fino ad allora sconosciuti. E in questo mondo contadino, così lontano da ogni possibile immaginazione e così vicino proprio perché reale e tangibile, Levi troverà un'umanità diversa, forte e affascinante. Il podestà Magalone e Donna Caterina, Sanaporcelle e il fido cane Barone, che lo accompagna ogni giorno nella sua passeggiata fino al cimitero. Il lento scorrere dei giorni in questa provincia meridionale degli anni Trenta è affollato di personaggi e vicende che l'autore descrive con toccante realismo in un racconto meditativo che lascia - ancora oggi - senza fiato.



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Cristo si è fermato ad Eboli 2025-02-08 17:18:23 Calderoni
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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    08 Febbraio, 2025
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Negato alla Storia e allo Stato

«Serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato»: è questo il manifesto che presenta i luoghi in cui l’io narrante è stato confinato per ragioni politiche (non si parla mai approfonditamente delle cause, vengono invece specificate quelle di altri due confinati: uno è un muratore comunista di Ancona, l’altro uno studente di scienze politiche di Pisa, ex ufficiale di Milizia, anch’egli comunista) in una condizione di «vita sotterranea». È un io narrante che ha studiato medicina ma non pratica la professione da medico ed è molto appassionato di arte, il suo hobby preferito è la pittura. I luoghi di cui si parla sono quelli della Lucania, da «Lucus a non lucendo», letteralmente la terra dei boschi che però si staglia sullo sfondo come «tutta brulla». Il periodo storico in cui si colloca la vicenda è quello della politica imperialistica del Fascismo: siamo negli anni Trenta durante le guerre di espansione in Eritrea e in Etiopia. L’intento di Carlo Levi è riassunto fin dalla premessa del testo: «Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia». I primi che non si sentono cristiani sono i contadini che popolano queste terre. Non si sentono cristiani perché nel loro linguaggio vuol significare essere uomini. Invece, in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, Cristo non è disceso. L’io narrante è stato confinato dapprima a Grassano, poi è stato trasferito a Gagliano e proprio in questa seconda località si svolgono la maggior parte dei fatti.
È un libro ricco di personaggi e ricco di socialità. Proprio questa fitta rete di personaggi permette di addentrarsi nel mondo di Gagliano. Il primo personaggio in cui ci si imbatte è il professor Magalone Luigi, maestro delle scuole elementari ma soprattutto sorvegliante dei confinati del paese. È il podestà di Gagliano, è il principale punto di riferimento fascista della narrazione, è colui che fa da tramite tra i monti sperduti della Lucania e la Prefettura di Matera. Poi, in rapida successione vengono presentati i due “medici” (le virgolette sono obbligatorie considerando le loro competenze scientifiche): il vecchio dottor Milillo e il dottor Gibilisco. Entrambi percepiscono l’arrivo dell’io narrante come una minaccia per il loro monopolio del sapere in ambito medico/scientifico. Interessante la concezione del proprio ruolo da parte del dottor Gibilisco. Per lui l’arte medica non è che un diritto, un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni. Non pago ha sistemato le proprie figlie nell’unica farmacia del paese in modo tale da rendere ancor più evidente il monopolio. Ma come rileva l’io narrante «i contadini sono ostinati e diffidenti. Non vanno dal medico, non vanno alla farmacia, non riconoscono il diritto. E la malaria, giustamente, li ammazza». Inoltre, sulla piazza di Gagliano vengono presentati i cosiddetti “signori” del paese, i quali colpiscono l’attenzione per il tono generale di astio, disprezzo e diffidenza reciproca nelle loro conversazioni. La guerra dei “signori” si trova nelle stesse forme in tutti i paesi della Lucania. Tutti i giovani di qualche valore e quelli appena capaci di fare la propria strada lasciano il paese (ciò avviene ancora oggi con la tanto analizzata “fuga dei cervelli”), dove ci restano gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi, i quali vengono resi malvagi dalla noia e dall’avidità. Questa classe degenerata deve per vivere dominare i contadini e assicurarsi i ruoli remunerati del paese, come quelli di maestro, farmacista, maresciallo dei carabinieri, prete. In realtà, il prete di Gagliano è un personaggio del tutto sui generis: si chiama don Giuseppe Trajella, è finito per punizione a reggere questa parrocchia ed è del tutto avverso alla comunità. Vive in uno stato di semiabbandono fisico e cognitivo, sebbene in passato abbia avuto esperienze di studio e di vita importanti. L’io narrante dice che «doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo». A Gagliano è invece diventato un relitto posto su una spiaggia inospitale. In questo universo prettamente maschile spicca una donna sopra tutte le altre: donna Caterina Magalone Cuscianna, sorella del podestà, la vera padrona del paese, molto più acuta intellettivamente del fratello; sapeva di poter fare su di lui qualsiasi cosa pur di lasciargli l’apparenza dell’autorità. Tra l’altro, in quel dato periodo era senza il marito perché era l’unico volontario di Gagliano per la guerra in Africa, perciò donna Caterina era moglie di un eroe. Per donna Caterina l’arrivo dell’io narrante in paese è una benedizione perché attraverso le sue competenze mediche avrebbe potuto finalmente rovinare il dottor Gibilisco e il suo monopolio medico; in effetti, il dottor Gibilisco è una severa minaccia per l’onore della sorella del podestà perché una delle sue figlie farmaciste se la intendeva un po’ troppo con suo marito e la gente mormorava eccessivamente su questo disdicevole fatto.
Nella fitta rete di personaggi un ruolo meno distinto ma non meno importante lo hanno i contadini, coloro che non si possono sentire cristiani per le condizioni nelle quali sono perpetuamente costretti a vivere da secoli. Per loro «c’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire». La massa dei contadini è ricca di persone che hanno provato a coltivare il “sogno americano”, hanno attraversato l’oceano, sono arrivati negli States e lì hanno vissuto come avevano sempre fatto nella loro Lucania, ovvero lavorando la terra quanto più possibile. Poi, sono stati attratti dal ritorno, magari forti del gruzzolo accumulato, dalle condizioni favorevoli decantate in Italia. Tempo un anno e si sono ritrovati nelle medesime condizioni di quando erano fuggiti, riavvolti nella medesima condizione di perdizione, di smarrimento anche di Cristo. Una condizione alla quale sei destinato fin da infante. I bambini che l’io narrante incontra per le vie del paese «avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore. I loro giochi non erano i soliti dei bambini del popolo delle città. Erano chiusi, sapevano tacere, e, sotto l’ingenuità infantile, c’era l’impermeabilità del contadino, sdegnosa di impossibili conforti, il pudore contadino, che difende almeno l’anima in un mondo desolato». L’unica capacità di espressione utile per i contadini era l’arte, non avevano potuto farlo con il diritto e con la violenza, quindi provavano con l’usanza di recitare una loro commedia improvvisata per esprimere il loro sdegno. In una tragedia senza teatro come la loro vita questi residui di arte antica e popolare erano un loro moto spontaneo di rinascita.
Come si può intuire dalla pratica paramedica proposta dal dottor Milillo e dal dottor Gibilisco, il mondo di Gagliano e più in generale della Lucania è popolato da leggende, miti, riti, false conoscenze. Un mondo selvaggio, quasi primitivo, lontano anni luce dalla civiltà novecentesca. Un mondo stregonesco, tanto che Giulia, domestica che si occuperà della casa dell’io narrante per alcuni mesi del soggiorno, è a tutti gli effetti etichettata come una strega. Rispetto alle credenze diffuse un esempio vale per tutti. L’aria, a detta di chi viveva quelle terre deserte e tra quelle capanne, era piena di spiriti, alcuni maligni e bizzarri come i “monachicchi”. Si narra infatti che al crepuscolo, in ogni casa, scendono dal cielo tre angioli, uno si mette sulla porta, uno viene alla tavola e il terzo a capo del letto. Guardano la casa e la difendono; e così né i lupi né gli spiriti cattivi ci possono entrare per tutta la notte. In questa realtà che si fonda sulla credenza non è un caso che alla metà di settembre nella domenica della Madonna a Gagliano vengano spesi tremila lire, ovvero il risparmio totale di mezza annata, per i fuochi d’artificio. Nessuno rimpiange questa spesa, tanto che per l’occasione si consultano gli artificieri più noti della provincia. I fuochi d’artificio con la loro duplice natura, tra colore e suono, sono emblemi ancestrali, si legano indissolubilmente a dati e a motivi della discendenza o della tradizione sentiti come reconditi o inspiegabili. Fanno uscire dal tempo e dallo spazio, proprio come ha vissuto l’io narrante in una realtà sotterranea durante il suo confino, in una realtà mai toccata nemmeno da Cristo.

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Cristo si è fermato ad Eboli 2022-06-26 08:08:37 Cathy
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Cathy Opinione inserita da Cathy    26 Giugno, 2022
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«Tragedia senza teatro»

Condannato al confino dal regime fascista, Carlo Levi è costretto a lasciare la sua Torino per la lontana e sperduta Lucania. La prima destinazione è il paese di Grassano, la seconda Gagliano, ancora più piccolo e sperduto del precedente. Qui Levi trascorre un intero anno (1935-36) di vita grigia e monotona, dipingendo ed esercitando l'attività di medico per i poveri contadini del posto, completamente abbandonati a se stessi. Soprattutto, ha l'occasione di entrare in contatto diretto con la questione meridionale, di conoscere l'antica civiltà contadina del Sud e di toccarne con mano le tradizioni, i riti, i culti, la profondissima povertà, l'abbandono, l'assenza dello Stato che anzi è percepito come un nemico, con le sue tasse, le sue guerre, le sue leggi misteriose e incomprensibili. Se l'operato dello stato risulta per lo più indecifrabile, il suo risultato, invece, è molto chiaro ed è sempre lo stesso: vessare, opprimere e impoverire ancora di più chi già non ha nulla. Qualche anno dopo, tra il 1944 e il 45, quando ha ormai lasciato la Lucania, Carlo Levi decide di ripercorrere in un romanzo l'anno trascorso a Gagliano, per dare voce a chi non ce l'ha, riflettere sul problema del Mezzogiorno e ipotizzare una soluzione.
In "Cristo si è fermato a Eboli" non accade quasi nulla, gli avvenimenti veri e propri sono pochissimi. Più che raccontare una trama, l'autore descrive una cultura che appare lontanissima nel tempo e nello spazio, con un ritmo lento, scandito solo dal trascorrere delle stagioni, dei lavori agricoli, delle festività religiose.
Di solito per indicare un luogo sperduto e lontano dalla civiltà si dice che è un posto "dimenticato da Dio e dagli uomini". L'espressione "Cristo si è fermato a Eboli" significa esattamente questo: non soltanto Gagliano, simbolo di tutta la Lucania e di tutto il Sud Italia, è stato abbandonato da Dio, ma anche dagli uomini, perché "cristiano" per i contadini significa "uomo". Chi ci vive non è esattamente un uomo, agli occhi degli altri, ma è più simile a un animale. In queste terre aride e brulle, secche e bianche di argilla, inadatte alla coltivazione, falcidiate dalla malaria, il tempo, la civiltà moderna, la storia, le grandi trasformazioni non sono mai arrivate. È un mondo immobile, chiuso, isolato, in cui la morte è la compagna costante dell'uomo, impregnato di magia pagana. Qui si vive a metà del Novecento come si viveva centinaia di anni prima: gli uomini all'alba vanno nei campi a testa china, le donne vestite di scuro e con i volti velati vivono al chiuso delle loro povere abitazioni e i bambini giocano in strada magri e cenciosi, gialli per la malaria. I maestri non insegnano nulla, i medici non curano i malati, il lavoro dignitoso non esiste e dopo la crisi del '29 perfino l'unica speranza di salvezza, l'America, è diventata ancora più lontana e difficile da raggiungere.
"Cristo si è fermato a Eboli" ha avuto un ruolo fondamentale nel sottoporre la questione del Mezzogiorno all'attenzione dell'opinione pubblica e della classe intellettuale. Nelle ultime pagine, l'autore propone un'analisi molto lucida e interessante del problema, di questa «tragedia senza teatro» che è la vita dei contadini meridionali, e suggerisce una possibile soluzione, forse un po' troppo utopistica, ma interessante.

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Cristo si è fermato ad Eboli 2020-06-18 09:00:49 lapis
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lapis Opinione inserita da lapis    18 Giugno, 2020
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La legge del niente

È un legame d’amore, forte e indissolubile, quello che unisce Carlo Levi alla terra lucana dove trascorse il periodo di confino fra il 1935 e il 1936. Lo testimonia il fatto che egli chiese di essere sepolto proprio lì, a Gagliano, paese nero e sventurato, di terre malariche e volti rassegnati, ignorato dallo Stato, dalla civiltà, dalla religione.

“In questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.”

Ritrovarsi catapultato in Basilicata significa per Levi scoprire un mondo sconosciuto, rurale e primitivo, che segue ritmi diversi e obbedisce a leggi incomprensibili a un giovane intellettuale torinese. La ragione e la scienza sembrano dissolversi qui, sostituiti da riti magici, incantesimi e superstizioni. Persino l’antifascismo sembra sbiadire, lasciando il posto a problemi antichi e miserie rifiutate persino dalla storia. Potrebbe chiudere gli occhi, ignorare come tanti altri prima di lui quell’angolo di Italia che nulla chiede e nulla spera, oppure trincerarsi dietro uno sguardo di sprezzante o pietosa superiorità. Invece Levi sceglie la strada dell’arte pittorica, che gli è così cara, e comincia a osservare cose e persone, con rispetto e devozione, e a rappresentarle. Prima, nella mente e sulle tele. Poi, in questo romanzo, a cui, a quasi dieci anni di distanza, affida il racconto della propria esperienza autobiografica, fondendo memoria, riflessioni personali, osservazioni socio-antropologiche e cuore. Perché nel frattempo quei contadini sono diventati parte di lui, dei suoi ricordi e del suo percorso di maturazione, e questa fratellanza regala alle pagine una poetica dolcezza capace di lenire anche le note più dolorose.

E il dolore non manca, a Gagliano. La sofferenza della fame. L’ostilità di una natura infruttuosa e malata. La desolazione dell’abbandono da parte dello Stato, straniero e malefico, che impone, pretende, vessa. Impone colture che impoveriscono la terra, tasse sproporzionate, guerre incomprensibili, e lascia sempre i contadini soli, ignoranti e sottomessi. Tutto all’insegna di una civiltà del progresso e del movimento, così abissalmente distante dalla loro realtà in cui il tempo scorre lento e immutato da secoli. L’unica risposta possibile allora è la rassegnazione, amara e senza speranza.

“Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. Ninte.
Che cosa hai mangiato? Niente. Che cosa speri? Niente. Che cosa si può fare? Niente.”

Sta però proprio nella capacità di sopportare il dolore con forza interiore, pazienza e dignità, restando ancorati agli antichi valori, l’insegnamento che questa società chiusa e arcaica lascia a Carlo Levi, e a tutti noi. Mentre la piccola borghesia paesana, degenerata e approfittatrice, mostra tutta la sua vessatoria meschinità, questi poveri contadini dalle pance vuote hanno accolto l’estraneo, gli hanno teso la mano, hanno spartito con lui il proprio tozzo di pane. Una lezione di fratellanza, da ricordare anche oggi.

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Cristo si è fermato ad Eboli 2019-09-09 13:07:20 siti
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siti Opinione inserita da siti    09 Settembre, 2019
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Anche gli dei dimoravano in alto...

L’opera nacque materialmente da un atto di scrittura che si colloca fra il Natale del 1943 e la fine di luglio del ’44 quando l’autore viveva clandestino a Firenze , nel momento più drammatico della guerra, e sentiva più accesa la comunanza emotiva con l’esperienza del confino in Lucania che lo aveva costretto a isolamento e presunta solitudine fra il 1935 e il 1936. Lo scritto in realtà si colloca nel solco delle esperienze precedenti dello scrittore: la nascita da famiglia borghese ebrea, i natali torinesi, la laurea in medicina, l’esordio artistico in qualità di pittore, la militanza politica antifascista convogliata poi nel movimento “Giustizia e libertà” ma già bisogno impellente fra i banchi del liceo e per finire l’esperienza reiterata del carcere. Apparve dopo la Liberazione , nel 1945, ma fu preceduto nel ’39 dallo scritto “Paura della libertà”, l’opera più importante dello scrittore, custode del suo pensiero, pubblicata solo nel ’46 e fortemente osteggiata dalla cultura militante dell’epoca. Fu preceduta anche dalla espressione pittorica rintracciabile nei numerosi quadri che Levi dipinse in Lucania, primo fermo immagine delle forti impressioni che la realtà contadina, a lui fino ad allora sconosciuta, impresse nel suo universo culturale da principio attraverso gli occhi per andare a depositarsi poi nel cuore, residenza eletta dell’universo emotivo. Il libro che scrisse nacque dunque da questo substrato, dall’esperienza diretta, dalla necessità di dare voce a una realtà prima che dimenticata, sconosciuta. La Lucania, una terra estranea e straniera in patria, sentita da principio dall’autore come lontana e incomprensibile quanto inaccessibili gli risultano i due paesi nei quali è costretto a dimora: Stigliano e Gagliano (Aliano, in realtà). Una terra ostile che si arrocca raggiungendo picchi dimenticati da Dio dove l’uomo vive in misere case circondate da calanchi. Un paesaggio aspro, suggestivo e variegato come l’umanità che lo popola. Una terra che lo accoglie e che lui impara a conoscere, apprezzare e amare.
È un’opera ibrida, né romanzo, né saggio, né memoriale; parte certo dal racconto di un’esperienza personale ma si colloca fra poesia, documento, saggio etnografico, racconto, pamphlet politico. La posizione di Levi è ben chiara: questo mondo arcaico e ancestrale è stato capace di preservare “il senso umano di un comune destino” perché si fonda su una “fraternità passiva”, su un “patire insieme”, su una “secolare pazienza”, l’immergersi in esso determina arricchimento umano e ulteriore allontanamento dalla barbarie del presente. Da leggere in ogni epoca.

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Silone, Fontamara
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Cristo si è fermato ad Eboli 2018-09-08 13:16:11 Chiara77
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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    08 Settembre, 2018
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Ai confini del mondo

Carlo Levi iniziò a scrivere “Cristo si è fermato a Eboli” il giorno di Natale del 1943, a Firenze. Erano passati già alcuni anni da quando l'autore aveva vissuto l'esperienza che si stava accingendo a mettere per iscritto. Non siamo di fronte ad un romanzo ma ad un memoriale, in cui Levi ricorda dei fatti reali accaduti a lui stesso e descrive, con uno stile notevole, ambienti, persone e società di un paesino della Lucania degli anni Trenta del Novecento.
Carlo Levi infatti, nato a Torino nel 1902, era un fervente oppositore del fascismo e fu condannato al confino in Basilicata, dove rimase negli anni 1935 e 1936. “Cristo si è fermato a Eboli” è il racconto di questo periodo trascorso in un luogo che all'autore sembrò lontanissimo dalla realtà sociale, culturale ed antropologica in cui era vissuto fino a quel momento. Iniziò la sua avventura rimanendo qualche settimana nel paese di Grassano, da cui fu poi allontanato e spedito nel più remoto e, se possibile, povero, Gagliano. (In realtà il nome esatto del paese è Aliano, ma nel testo di Levi si trova scritto, secondo la pronuncia locale, Gagliano). Carlo Levi era laureato in medicina ma non aveva mai esercitato la professione di medico, era invece un pittore e sicuramente era un intellettuale. Fu accolto in modo caloroso dai contadini di quelle terre che si resero subito conto che lui, pur avendo poca esperienza in campo medico, era comunque molto più informato, colto, attivo e in grado di curare rispetto ai “medicaciucci” inetti, incompetenti e parassiti che spadroneggiavano nel paese.
Il nostro autore, come un atipico ma ottimo studioso di antropologia culturale ci fa conoscere quel luogo lontanissimo dalla storia, dalla civiltà, dalla speranza, dal progresso e dalla libertà. La sua è un'analisi lucida delle cause che avevano provocato in quella parte d'Italia tanta povertà ed arretratezza e non mancano delle riflessioni su un possibile miglioramento di tali condizioni. L'opera non si limita però ad essere soltanto una razionale trattazione della “questione meridionale”, Carlo Levi sa descrivere in modo magistrale luoghi, persone, usanze, modi di fare, superstizioni e credenze, tanto che al lettore sembra quasi di essere ancora là, in quel mondo lontanissimo, quasi mitico, primitivo, duro e difficile ma in fondo anche affascinante perché in un certo senso magico.
Perché leggere o rileggere oggi “Cristo si è fermato a Eboli”? Alla fine non possiamo negare che la situazione descritta da Levi sia completamente cambiata, per fortuna. E' impressionante la descrizione fatta dalla sorella di Levi di Matera:

“ Io guardavo passando, e vedevo l'interno delle grotte, che non prendono altra luce e aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall'alto, attraverso botole e scalette. Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Così vivono ventimila persone. Di bambini ce n'era un'infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci. Io non ho mai visto una tale immagine di miseria: eppure sono abituata, è il mio mestiere, a vedere ogni giorno diecine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello di ieri non l'avevo mai neppure immaginato. [...]”

Chi potrebbe riconoscervi la splendida cittadina che sarà capitale europea della cultura nel 2019?
Eppure questo testo può ancora dirci molto, sullo sfruttamento, che purtroppo non è certo scomparso, sul desiderio di libertà, sulla necessità di essere una buona comunità in cui tutti gli uomini siano veramente considerati esseri umani.

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Cristo si è fermato ad Eboli 2016-02-01 17:13:05 Belmi
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Belmi Opinione inserita da Belmi    01 Febbraio, 2016
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Il Sud raccontato da uno del Nord.

”- Noi non siamo cristiani, - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli -…Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria”.

Così comincia il romanzo che Carlo Levi scrisse sulla sua esperienza da confinato. Durante il periodo fascista fu spedito in un piccolo paesino della Lucania. Lui, pittore, scrittore e medico, dalla sua Torino, si ritrovò prima a Grassano e poi nell’ancora più sperduto paesino di Gagliano. Un paese in cui gli abitanti si raccontano così: "C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno per sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra."

Un luogo in cui la vita segue le tradizioni, tradizioni che non permettono a una donna di andare da sola in casa di un uomo e che per la morte dei cari gli fa portare il lutto per anni; tradizioni che vedono lo spazio di un letto diviso in tre strati ("per terra le bestie, sul letto gli uomini, e nell'aria i lattanti") e che oltre alle streghe crede anche che un ritratto sottragga qualcosa alla persona ritratta.

Carlo Levi ci porta in Lucania, un territorio per me molto importante perché le mie origini paterne vengono proprio da li. Levi ci fa conoscere gli usi e la cultura del mondo contadino. Con le sue musiche, le sue fissazioni, i suoi pettegolezzi e l'amore per i propri cari e l'odio per i nemici, l'emigrazione verso l'America e le sensazioni che la guerra porta.

Uno spaccato di vita contadina che ci fa anche male per l'arretratezza e le manchevolezze che ci sono state "Finché gli affari del nostro paese, la nostra vita e la nostra morte, saranno in mano a quelli di Roma, saremo dunque sempre come bestie".

Un romanzo vero, vissuto e soprattutto lento, come la lentezza dello scorrere del tempo per il nostro protagonista.

Un libro che consiglio e che non lascia indifferenti e che ci fa conoscere uno stile di vita molto diverso dal nostro ma anche di quello di molte persone del 1935. Il Sud raccontato e vissuto da uno del Nord.

Buona lettura!

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Cristo si è fermato ad Eboli 2013-07-12 10:38:59 Pelizzari
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    12 Luglio, 2013
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Un mondo immobile

Questo romanzo autobiografico è riconosciuto come uno tra i romanzi più importanti della letteratura europea. Offre uno spaccato del mondo contadino del Sud negli anni Trenta, descritto con toccante realismo e con una lentezza, tipica del Sud, che permette di meditare in modo attento e che è profondamente riflessiva. Quello descritto è un mondo immobile, arretrato, ma anche estremamente vivo e caratteristico. Ogni descrizione è un capolavoro e più ancora i ritratti delle persone e il retrogusto che queste pagine lasciano, nel tempo.

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Cristo si è fermato ad Eboli 2013-01-23 14:29:25 antares8710
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antares8710 Opinione inserita da antares8710    23 Gennaio, 2013
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Un mondo fuori dal tempo e dalla Storia

Non è facile scrivere una recensione su questo libro. Non lo è mai quando ci si trova davanti a un capolavoro della letteratura del Novecento. Qualsiasi cosa si scriva, potrebbe sembrare inutile o inefficace. Questo capolavoro di Carlo Levi suscitò un vivace dibattito nell'Italia di quell'epoca e ancora adesso è uno dei libri più discussi e commentati nelle scuole italiane.
Una volta venivano chiamati dai professori "romanzi di formazione", quelle letture obbligatorie, che dovevano far parte necessariamente del bagaglio culturale di ognuno di noi. Io penso che quella definizione sia più che pertinente per questo libro.

Si può vedere questo libro come un romanzo di impronta memorialistica, come un diario personale, come un saggio di inchiesta, come uno dei tanti romanzi di critica che la letteratura meridionalista ci ha regalati. Oppure può essere visto come uno studio dei costumi, dei luoghi e dei paesaggi della Lucania più sperduta e isolata. In realtà Cristo si è fermato ad Eboli, è ognuno di queste cose.

Levi in questo racconto ripercorre la sua condanna al confino a causa delle sue convinzioni antifasciste, a Gugliano, un piccolo paese della Lucania. Appena arrivato, il protagonista viene preso dallo sconforto e da un senso di morte che la vita oziosa e monotona del paese sembra suggerirgli. Si avverte subito, fin dalle prime pagine, il contrasto tra il protagonista da una parte, medico settentrionale, colto ed evoluto, e dall'altra parte l'ignoranza, le superstizioni e la grettezza che non riguardano solo i poveri contadini ma anche le "autorità" del paese (sindaco, segretario comunale, farmacista). E' bravissimo Levi nel far capire a pieno la distanza e l'alterità che c'è tra questi due mondi, destinati a non comunicare. Particolare importanza lo scrittore darà alle magie e alle credenze popolari che inevitabilmente sconvolgeranno il protagonista, forte della sua razionalità e delle sue convinzioni positivistiche.

Come dice il titolo, Cristo si è fermato ad Eboli, una cittadina campana dell'entroterra dove si fermano la strada e la ferrovia. Oltre Eboli c'è il nulla. Oltre Eboli non si è spinta la Storia e la civiltà.
Oltre Eboli c'è un altro universo, fatto di paganesimo e magia, di esseri umani la cui vita segue i ritmi della natura e della campagna. In loro non c'è nessun desiderio di riscatto (come possiamo trovarlo nei "cafoni" di Fontamara), e anche il fenomeno del brigantaggio viene focalizzato con estrema chiarezza da Levi come "un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e distruzione, senza speranza di vittoria…". Il mondo di Gagliano è solo un universo a sé, popolato da personaggi estranei alla Storia, dove anche il Tempo non è più lo stesso…

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Verga, Silone.
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Cristo si è fermato ad Eboli 2012-07-02 21:38:43 rakovic
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rakovic Opinione inserita da rakovic    02 Luglio, 2012
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levi medico, pittore, scrittore

Il protagonista si ritrova confinato in Basilicata durante il ventennio fascista. Con le strade di allora, la mancanza di una vera lingua comune in Italia, si è ritrovato catapultato in un mondo dimenticato dagli uomini e da Dio; questo infatti è arrivato fino ad Eboli, ultimo baluardo della Campania, ma non ha avuto il coraggio di scendere in Basilicata... Levi, laureato in medicina, anche se in realtà ha esercitato ben poco, dà il suo contributo alla popolazione di quelle terre integrandosi bene con la gente del posto. Una versione drammatica e antesignana del film "benvenuti al Sud".
Là lascerà una parte importante della propria esistenza. Da leggere.

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Cristo si è fermato ad Eboli 2012-06-27 09:05:59 manu chan
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manu chan Opinione inserita da manu chan    27 Giugno, 2012
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L'Italia nascosta

Nel suo romanzo autobiografico, Carlo Levi vive il confino in Lucania, terra desolata e abbandonato al suo destino, che neanche Cristo ha voluto calpestare, perché appunto si è fermato ad Eboli, e lì è rimasto, trattenendosi anche l'evoluzione e la scienza. La storia ha dimenticato questa regione, l'ha lasciata all'indigenza, alla malaria e alle tradizioni che si uniscono alle arti magiche. Qui, dove le donne vanno vestite a lutto e dove i medicinali sono una rarità, dove le pietre si confondono con le case e dove le capre hanno uno spirito maligno, l'autore si è trovato a contatto con personggi differenti, molti dei quali sono stati consapevoli del distacco sociale da Roma, che ritengono l'artefice di una politica che li dimentica, annullandoli.
Anche in queste zone così desolate, Levi trova il modo di dare voce alle sue capacità, esercitando la professione di medico, sebbene nella civiltà in cui viveva prima non l'avesse mai fatto (a cui in realtà viene avvicinato quasi per caso) e trovando luogo per la sua arte, a cui gli spazi rocciosi e desolati si prestano per essere ritratti al pari degli uomini.
La scrittura, scorrevole e talvolta elaborata, permette al lettore di addentrarsi in un periodo storico difficile per l'Italia (rappresentata non dai cittadini, ma dal potere) e per gli italiani (a cui spetta il compito di subire).
Vale sicuramente la pena di affrontare questa lettura, che ci guida alla scoperta di un'Italia nascosta, indispensabile per la nostra cultura di cittadini.

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