Cristo si è fermato ad Eboli
Letteratura italiana
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«Tragedia senza teatro»
Condannato al confino dal regime fascista, Carlo Levi è costretto a lasciare la sua Torino per la lontana e sperduta Lucania. La prima destinazione è il paese di Grassano, la seconda Gagliano, ancora più piccolo e sperduto del precedente. Qui Levi trascorre un intero anno (1935-36) di vita grigia e monotona, dipingendo ed esercitando l'attività di medico per i poveri contadini del posto, completamente abbandonati a se stessi. Soprattutto, ha l'occasione di entrare in contatto diretto con la questione meridionale, di conoscere l'antica civiltà contadina del Sud e di toccarne con mano le tradizioni, i riti, i culti, la profondissima povertà, l'abbandono, l'assenza dello Stato che anzi è percepito come un nemico, con le sue tasse, le sue guerre, le sue leggi misteriose e incomprensibili. Se l'operato dello stato risulta per lo più indecifrabile, il suo risultato, invece, è molto chiaro ed è sempre lo stesso: vessare, opprimere e impoverire ancora di più chi già non ha nulla. Qualche anno dopo, tra il 1944 e il 45, quando ha ormai lasciato la Lucania, Carlo Levi decide di ripercorrere in un romanzo l'anno trascorso a Gagliano, per dare voce a chi non ce l'ha, riflettere sul problema del Mezzogiorno e ipotizzare una soluzione.
In "Cristo si è fermato a Eboli" non accade quasi nulla, gli avvenimenti veri e propri sono pochissimi. Più che raccontare una trama, l'autore descrive una cultura che appare lontanissima nel tempo e nello spazio, con un ritmo lento, scandito solo dal trascorrere delle stagioni, dei lavori agricoli, delle festività religiose.
Di solito per indicare un luogo sperduto e lontano dalla civiltà si dice che è un posto "dimenticato da Dio e dagli uomini". L'espressione "Cristo si è fermato a Eboli" significa esattamente questo: non soltanto Gagliano, simbolo di tutta la Lucania e di tutto il Sud Italia, è stato abbandonato da Dio, ma anche dagli uomini, perché "cristiano" per i contadini significa "uomo". Chi ci vive non è esattamente un uomo, agli occhi degli altri, ma è più simile a un animale. In queste terre aride e brulle, secche e bianche di argilla, inadatte alla coltivazione, falcidiate dalla malaria, il tempo, la civiltà moderna, la storia, le grandi trasformazioni non sono mai arrivate. È un mondo immobile, chiuso, isolato, in cui la morte è la compagna costante dell'uomo, impregnato di magia pagana. Qui si vive a metà del Novecento come si viveva centinaia di anni prima: gli uomini all'alba vanno nei campi a testa china, le donne vestite di scuro e con i volti velati vivono al chiuso delle loro povere abitazioni e i bambini giocano in strada magri e cenciosi, gialli per la malaria. I maestri non insegnano nulla, i medici non curano i malati, il lavoro dignitoso non esiste e dopo la crisi del '29 perfino l'unica speranza di salvezza, l'America, è diventata ancora più lontana e difficile da raggiungere.
"Cristo si è fermato a Eboli" ha avuto un ruolo fondamentale nel sottoporre la questione del Mezzogiorno all'attenzione dell'opinione pubblica e della classe intellettuale. Nelle ultime pagine, l'autore propone un'analisi molto lucida e interessante del problema, di questa «tragedia senza teatro» che è la vita dei contadini meridionali, e suggerisce una possibile soluzione, forse un po' troppo utopistica, ma interessante.
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La legge del niente
È un legame d’amore, forte e indissolubile, quello che unisce Carlo Levi alla terra lucana dove trascorse il periodo di confino fra il 1935 e il 1936. Lo testimonia il fatto che egli chiese di essere sepolto proprio lì, a Gagliano, paese nero e sventurato, di terre malariche e volti rassegnati, ignorato dallo Stato, dalla civiltà, dalla religione.
“In questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.”
Ritrovarsi catapultato in Basilicata significa per Levi scoprire un mondo sconosciuto, rurale e primitivo, che segue ritmi diversi e obbedisce a leggi incomprensibili a un giovane intellettuale torinese. La ragione e la scienza sembrano dissolversi qui, sostituiti da riti magici, incantesimi e superstizioni. Persino l’antifascismo sembra sbiadire, lasciando il posto a problemi antichi e miserie rifiutate persino dalla storia. Potrebbe chiudere gli occhi, ignorare come tanti altri prima di lui quell’angolo di Italia che nulla chiede e nulla spera, oppure trincerarsi dietro uno sguardo di sprezzante o pietosa superiorità. Invece Levi sceglie la strada dell’arte pittorica, che gli è così cara, e comincia a osservare cose e persone, con rispetto e devozione, e a rappresentarle. Prima, nella mente e sulle tele. Poi, in questo romanzo, a cui, a quasi dieci anni di distanza, affida il racconto della propria esperienza autobiografica, fondendo memoria, riflessioni personali, osservazioni socio-antropologiche e cuore. Perché nel frattempo quei contadini sono diventati parte di lui, dei suoi ricordi e del suo percorso di maturazione, e questa fratellanza regala alle pagine una poetica dolcezza capace di lenire anche le note più dolorose.
E il dolore non manca, a Gagliano. La sofferenza della fame. L’ostilità di una natura infruttuosa e malata. La desolazione dell’abbandono da parte dello Stato, straniero e malefico, che impone, pretende, vessa. Impone colture che impoveriscono la terra, tasse sproporzionate, guerre incomprensibili, e lascia sempre i contadini soli, ignoranti e sottomessi. Tutto all’insegna di una civiltà del progresso e del movimento, così abissalmente distante dalla loro realtà in cui il tempo scorre lento e immutato da secoli. L’unica risposta possibile allora è la rassegnazione, amara e senza speranza.
“Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. Ninte.
Che cosa hai mangiato? Niente. Che cosa speri? Niente. Che cosa si può fare? Niente.”
Sta però proprio nella capacità di sopportare il dolore con forza interiore, pazienza e dignità, restando ancorati agli antichi valori, l’insegnamento che questa società chiusa e arcaica lascia a Carlo Levi, e a tutti noi. Mentre la piccola borghesia paesana, degenerata e approfittatrice, mostra tutta la sua vessatoria meschinità, questi poveri contadini dalle pance vuote hanno accolto l’estraneo, gli hanno teso la mano, hanno spartito con lui il proprio tozzo di pane. Una lezione di fratellanza, da ricordare anche oggi.
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Anche gli dei dimoravano in alto...
L’opera nacque materialmente da un atto di scrittura che si colloca fra il Natale del 1943 e la fine di luglio del ’44 quando l’autore viveva clandestino a Firenze , nel momento più drammatico della guerra, e sentiva più accesa la comunanza emotiva con l’esperienza del confino in Lucania che lo aveva costretto a isolamento e presunta solitudine fra il 1935 e il 1936. Lo scritto in realtà si colloca nel solco delle esperienze precedenti dello scrittore: la nascita da famiglia borghese ebrea, i natali torinesi, la laurea in medicina, l’esordio artistico in qualità di pittore, la militanza politica antifascista convogliata poi nel movimento “Giustizia e libertà” ma già bisogno impellente fra i banchi del liceo e per finire l’esperienza reiterata del carcere. Apparve dopo la Liberazione , nel 1945, ma fu preceduto nel ’39 dallo scritto “Paura della libertà”, l’opera più importante dello scrittore, custode del suo pensiero, pubblicata solo nel ’46 e fortemente osteggiata dalla cultura militante dell’epoca. Fu preceduta anche dalla espressione pittorica rintracciabile nei numerosi quadri che Levi dipinse in Lucania, primo fermo immagine delle forti impressioni che la realtà contadina, a lui fino ad allora sconosciuta, impresse nel suo universo culturale da principio attraverso gli occhi per andare a depositarsi poi nel cuore, residenza eletta dell’universo emotivo. Il libro che scrisse nacque dunque da questo substrato, dall’esperienza diretta, dalla necessità di dare voce a una realtà prima che dimenticata, sconosciuta. La Lucania, una terra estranea e straniera in patria, sentita da principio dall’autore come lontana e incomprensibile quanto inaccessibili gli risultano i due paesi nei quali è costretto a dimora: Stigliano e Gagliano (Aliano, in realtà). Una terra ostile che si arrocca raggiungendo picchi dimenticati da Dio dove l’uomo vive in misere case circondate da calanchi. Un paesaggio aspro, suggestivo e variegato come l’umanità che lo popola. Una terra che lo accoglie e che lui impara a conoscere, apprezzare e amare.
È un’opera ibrida, né romanzo, né saggio, né memoriale; parte certo dal racconto di un’esperienza personale ma si colloca fra poesia, documento, saggio etnografico, racconto, pamphlet politico. La posizione di Levi è ben chiara: questo mondo arcaico e ancestrale è stato capace di preservare “il senso umano di un comune destino” perché si fonda su una “fraternità passiva”, su un “patire insieme”, su una “secolare pazienza”, l’immergersi in esso determina arricchimento umano e ulteriore allontanamento dalla barbarie del presente. Da leggere in ogni epoca.
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Ai confini del mondo
Carlo Levi iniziò a scrivere “Cristo si è fermato a Eboli” il giorno di Natale del 1943, a Firenze. Erano passati già alcuni anni da quando l'autore aveva vissuto l'esperienza che si stava accingendo a mettere per iscritto. Non siamo di fronte ad un romanzo ma ad un memoriale, in cui Levi ricorda dei fatti reali accaduti a lui stesso e descrive, con uno stile notevole, ambienti, persone e società di un paesino della Lucania degli anni Trenta del Novecento.
Carlo Levi infatti, nato a Torino nel 1902, era un fervente oppositore del fascismo e fu condannato al confino in Basilicata, dove rimase negli anni 1935 e 1936. “Cristo si è fermato a Eboli” è il racconto di questo periodo trascorso in un luogo che all'autore sembrò lontanissimo dalla realtà sociale, culturale ed antropologica in cui era vissuto fino a quel momento. Iniziò la sua avventura rimanendo qualche settimana nel paese di Grassano, da cui fu poi allontanato e spedito nel più remoto e, se possibile, povero, Gagliano. (In realtà il nome esatto del paese è Aliano, ma nel testo di Levi si trova scritto, secondo la pronuncia locale, Gagliano). Carlo Levi era laureato in medicina ma non aveva mai esercitato la professione di medico, era invece un pittore e sicuramente era un intellettuale. Fu accolto in modo caloroso dai contadini di quelle terre che si resero subito conto che lui, pur avendo poca esperienza in campo medico, era comunque molto più informato, colto, attivo e in grado di curare rispetto ai “medicaciucci” inetti, incompetenti e parassiti che spadroneggiavano nel paese.
Il nostro autore, come un atipico ma ottimo studioso di antropologia culturale ci fa conoscere quel luogo lontanissimo dalla storia, dalla civiltà, dalla speranza, dal progresso e dalla libertà. La sua è un'analisi lucida delle cause che avevano provocato in quella parte d'Italia tanta povertà ed arretratezza e non mancano delle riflessioni su un possibile miglioramento di tali condizioni. L'opera non si limita però ad essere soltanto una razionale trattazione della “questione meridionale”, Carlo Levi sa descrivere in modo magistrale luoghi, persone, usanze, modi di fare, superstizioni e credenze, tanto che al lettore sembra quasi di essere ancora là, in quel mondo lontanissimo, quasi mitico, primitivo, duro e difficile ma in fondo anche affascinante perché in un certo senso magico.
Perché leggere o rileggere oggi “Cristo si è fermato a Eboli”? Alla fine non possiamo negare che la situazione descritta da Levi sia completamente cambiata, per fortuna. E' impressionante la descrizione fatta dalla sorella di Levi di Matera:
“ Io guardavo passando, e vedevo l'interno delle grotte, che non prendono altra luce e aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall'alto, attraverso botole e scalette. Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Così vivono ventimila persone. Di bambini ce n'era un'infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci. Io non ho mai visto una tale immagine di miseria: eppure sono abituata, è il mio mestiere, a vedere ogni giorno diecine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello di ieri non l'avevo mai neppure immaginato. [...]”
Chi potrebbe riconoscervi la splendida cittadina che sarà capitale europea della cultura nel 2019?
Eppure questo testo può ancora dirci molto, sullo sfruttamento, che purtroppo non è certo scomparso, sul desiderio di libertà, sulla necessità di essere una buona comunità in cui tutti gli uomini siano veramente considerati esseri umani.
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Il Sud raccontato da uno del Nord.
”- Noi non siamo cristiani, - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli -…Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria”.
Così comincia il romanzo che Carlo Levi scrisse sulla sua esperienza da confinato. Durante il periodo fascista fu spedito in un piccolo paesino della Lucania. Lui, pittore, scrittore e medico, dalla sua Torino, si ritrovò prima a Grassano e poi nell’ancora più sperduto paesino di Gagliano. Un paese in cui gli abitanti si raccontano così: "C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno per sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra."
Un luogo in cui la vita segue le tradizioni, tradizioni che non permettono a una donna di andare da sola in casa di un uomo e che per la morte dei cari gli fa portare il lutto per anni; tradizioni che vedono lo spazio di un letto diviso in tre strati ("per terra le bestie, sul letto gli uomini, e nell'aria i lattanti") e che oltre alle streghe crede anche che un ritratto sottragga qualcosa alla persona ritratta.
Carlo Levi ci porta in Lucania, un territorio per me molto importante perché le mie origini paterne vengono proprio da li. Levi ci fa conoscere gli usi e la cultura del mondo contadino. Con le sue musiche, le sue fissazioni, i suoi pettegolezzi e l'amore per i propri cari e l'odio per i nemici, l'emigrazione verso l'America e le sensazioni che la guerra porta.
Uno spaccato di vita contadina che ci fa anche male per l'arretratezza e le manchevolezze che ci sono state "Finché gli affari del nostro paese, la nostra vita e la nostra morte, saranno in mano a quelli di Roma, saremo dunque sempre come bestie".
Un romanzo vero, vissuto e soprattutto lento, come la lentezza dello scorrere del tempo per il nostro protagonista.
Un libro che consiglio e che non lascia indifferenti e che ci fa conoscere uno stile di vita molto diverso dal nostro ma anche di quello di molte persone del 1935. Il Sud raccontato e vissuto da uno del Nord.
Buona lettura!
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Un mondo immobile
Questo romanzo autobiografico è riconosciuto come uno tra i romanzi più importanti della letteratura europea. Offre uno spaccato del mondo contadino del Sud negli anni Trenta, descritto con toccante realismo e con una lentezza, tipica del Sud, che permette di meditare in modo attento e che è profondamente riflessiva. Quello descritto è un mondo immobile, arretrato, ma anche estremamente vivo e caratteristico. Ogni descrizione è un capolavoro e più ancora i ritratti delle persone e il retrogusto che queste pagine lasciano, nel tempo.
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Un mondo fuori dal tempo e dalla Storia
Non è facile scrivere una recensione su questo libro. Non lo è mai quando ci si trova davanti a un capolavoro della letteratura del Novecento. Qualsiasi cosa si scriva, potrebbe sembrare inutile o inefficace. Questo capolavoro di Carlo Levi suscitò un vivace dibattito nell'Italia di quell'epoca e ancora adesso è uno dei libri più discussi e commentati nelle scuole italiane.
Una volta venivano chiamati dai professori "romanzi di formazione", quelle letture obbligatorie, che dovevano far parte necessariamente del bagaglio culturale di ognuno di noi. Io penso che quella definizione sia più che pertinente per questo libro.
Si può vedere questo libro come un romanzo di impronta memorialistica, come un diario personale, come un saggio di inchiesta, come uno dei tanti romanzi di critica che la letteratura meridionalista ci ha regalati. Oppure può essere visto come uno studio dei costumi, dei luoghi e dei paesaggi della Lucania più sperduta e isolata. In realtà Cristo si è fermato ad Eboli, è ognuno di queste cose.
Levi in questo racconto ripercorre la sua condanna al confino a causa delle sue convinzioni antifasciste, a Gugliano, un piccolo paese della Lucania. Appena arrivato, il protagonista viene preso dallo sconforto e da un senso di morte che la vita oziosa e monotona del paese sembra suggerirgli. Si avverte subito, fin dalle prime pagine, il contrasto tra il protagonista da una parte, medico settentrionale, colto ed evoluto, e dall'altra parte l'ignoranza, le superstizioni e la grettezza che non riguardano solo i poveri contadini ma anche le "autorità" del paese (sindaco, segretario comunale, farmacista). E' bravissimo Levi nel far capire a pieno la distanza e l'alterità che c'è tra questi due mondi, destinati a non comunicare. Particolare importanza lo scrittore darà alle magie e alle credenze popolari che inevitabilmente sconvolgeranno il protagonista, forte della sua razionalità e delle sue convinzioni positivistiche.
Come dice il titolo, Cristo si è fermato ad Eboli, una cittadina campana dell'entroterra dove si fermano la strada e la ferrovia. Oltre Eboli c'è il nulla. Oltre Eboli non si è spinta la Storia e la civiltà.
Oltre Eboli c'è un altro universo, fatto di paganesimo e magia, di esseri umani la cui vita segue i ritmi della natura e della campagna. In loro non c'è nessun desiderio di riscatto (come possiamo trovarlo nei "cafoni" di Fontamara), e anche il fenomeno del brigantaggio viene focalizzato con estrema chiarezza da Levi come "un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e distruzione, senza speranza di vittoria…". Il mondo di Gagliano è solo un universo a sé, popolato da personaggi estranei alla Storia, dove anche il Tempo non è più lo stesso…
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levi medico, pittore, scrittore
Il protagonista si ritrova confinato in Basilicata durante il ventennio fascista. Con le strade di allora, la mancanza di una vera lingua comune in Italia, si è ritrovato catapultato in un mondo dimenticato dagli uomini e da Dio; questo infatti è arrivato fino ad Eboli, ultimo baluardo della Campania, ma non ha avuto il coraggio di scendere in Basilicata... Levi, laureato in medicina, anche se in realtà ha esercitato ben poco, dà il suo contributo alla popolazione di quelle terre integrandosi bene con la gente del posto. Una versione drammatica e antesignana del film "benvenuti al Sud".
Là lascerà una parte importante della propria esistenza. Da leggere.
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L'Italia nascosta
Nel suo romanzo autobiografico, Carlo Levi vive il confino in Lucania, terra desolata e abbandonato al suo destino, che neanche Cristo ha voluto calpestare, perché appunto si è fermato ad Eboli, e lì è rimasto, trattenendosi anche l'evoluzione e la scienza. La storia ha dimenticato questa regione, l'ha lasciata all'indigenza, alla malaria e alle tradizioni che si uniscono alle arti magiche. Qui, dove le donne vanno vestite a lutto e dove i medicinali sono una rarità, dove le pietre si confondono con le case e dove le capre hanno uno spirito maligno, l'autore si è trovato a contatto con personggi differenti, molti dei quali sono stati consapevoli del distacco sociale da Roma, che ritengono l'artefice di una politica che li dimentica, annullandoli.
Anche in queste zone così desolate, Levi trova il modo di dare voce alle sue capacità, esercitando la professione di medico, sebbene nella civiltà in cui viveva prima non l'avesse mai fatto (a cui in realtà viene avvicinato quasi per caso) e trovando luogo per la sua arte, a cui gli spazi rocciosi e desolati si prestano per essere ritratti al pari degli uomini.
La scrittura, scorrevole e talvolta elaborata, permette al lettore di addentrarsi in un periodo storico difficile per l'Italia (rappresentata non dai cittadini, ma dal potere) e per gli italiani (a cui spetta il compito di subire).
Vale sicuramente la pena di affrontare questa lettura, che ci guida alla scoperta di un'Italia nascosta, indispensabile per la nostra cultura di cittadini.
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Lo Stato è lontano
Nel corso della lettura delle prime pagine viene istintivo un accostamento a Fontamara, il bellissimo romanzo di Ignazio Silone. Stessa è la miserabile condizione di indigenza trattata, anche se i luoghi sono diversi (là la Marsica, qua la Lucania), identica è l’attività di sostentamento dei protagonisti (là contadini, come qua), uguale è il profondo senso di scoramento, quel sentirsi lontani dallo Stato visto come un’entità oscura e quasi sempre vessatoria. Eppue le differenze ci sono e appaiono notevoli, a iniziare dalla narrazione, poiché se Fontamara è un romanzo con una trama simbolica, Cristo si è fermato a Eboli è un’autobiografia, limitata a un determinato periodo, tale da essere considerato dall’autore un’autentica rivelazione. E poi non occorre dimenticare la diversa estrazione sociale degli scrittori, con Ignazio Silone (all’anagrafe Secondino Tranquilli) rimasto quasi senza famiglia a seguito del terremoto che colpì Avezzano nel 1915, quindi parte della stessa gente che così mirabilmente descrive nel suo romanzo, un grido di dolore di un oppresso fra gli oppressi.
Carlo Levi, invece, borghese torinese, costretto a dimorare nel luogo della sua opera come confinato dal regime fascista, coglie lo stupore che gli ingenera lo scoprire una situazione di arretratezza economica e di emarginazione sociale che gli erano sconosciute, e lo fa dapprima quasi con riluttanza, poi con sempre più viva partecipazione al punto di riconoscere in quei reietti dei sentimenti di umanità, delle capacità di accoglienza, nonostante vi imperi l’ignoranza e la superstizione.
In entrambi i casi Ignazio Silone e Carlo Levi portano alla luce, nella sua drammaticità, la questione meridionale, una vasta parte dell’Italia così dissimile dall’altra, così abbandonata da apparire staccata, una propaggine importante, ma lasciata allo sbando, arretrata economicamente e socialmente, un luogo sulla carta geografica e nulla più.
Il contrasto fra il settentrionale, agiato, medico torinese e una realtà del tutto imprevedibile palpita nelle pagine, dotate di una dinamicità in contrasto con la staticità di quel mondo, abbandonato da tutti e perfino da Cristo, che oltre Eboli non è andato.
La fatica del vivere quotidiano, la tediosità di una situazione senza speranza, l’ignoranza sempre presente, unita alle superstizioni che accomuna quei diseredati alle pochè autorità (podestà, medici, farmacisti), ma soprattutto quel sentirsi lontani anni luce dallo stato, da questa istituzione sconosciuta e anzi vista con timore, come un Moloch che pretende sempre di più senza dare, sono descritte in modo mirabile da Carlo Levi.
Certamente per lui è una sorpresa scoprire questo mondo, di cui all’inizio anche diffida, ma poi, nei quotidiani contatti con la gente - fra cui indubbiamente critici quelli con il ceto borghese, non poco responsabile della situazione –, riesce a cogliere le virtù difficilmente percepibili a prima vista di questi vinti, si entusiasma, diventa partecipe dei piccoli e grandi fatti della comunità, finisce con il ritenere la sua condizione di confinato non tanto una condanna, ma un incidente di percorso, di fronte all’eterna condanna di un popolo senza patria.
Ci sono pagine che, pur nello stile elegante e non certo enfatico, muovono alla commozione, altre che fanno gridare di rabbia, come la descrizione di Matera che gli fa la sorella che è venuta a trovarlo. Abitazioni primitive in un mondo primordiale, una necropoli in cui si consumano esistenze che portano la fatica di esserci, i “Sassi” sono la realtà e l’emblema di una condizione, di un tempo che sembra fermo agli albori dell’umanità, senza cambiamenti, in un’infinta disperazione che si trascina di padre in figlio.
Levi sa cogliere anche nelle sfumature la tragedia di un mondo immobile e arretrato, dove tuttavia palpitano sentimenti, riescono anche a nascere gioie fra tanto dolore, e così quei cafoni, osservati dapprima con preconcetti borghesi, poco a poco diventano gli eroi di un’umanità derisa, calpestata, ma pronta a tendere la mano, a dividere il poco cibo e ad accogliere quel medico con la passione per la pittura, giunto da lontano, da un mondo che non conoscono e neppure immaginano.
Terminato il confino l’autore ripartirà per la sua città d’origine, con la promessa di ritornare fra quella gente che ora sente vicina a sé con il calore dell’affetto. Non sarà però così, ma Levi non verrà comunque meno all’impegno. Infatti, giace fra tanti illustri sconosciuti, nel cimitero di Aliano, quel paese la cui gente lo ha così toccato nel cuore.
Il romanzo, uscito nel 1945, incontrò subito un enorme successo, con diffusione in tutto il mondo e ha avuto anche una trasposizione cinematografica con la regia di Francesco Rosi e l’interpretazione di Gian Maria Volonté, Alain Cuny, Lea Massari e Irene Papas.
Cristo si è fermato a Eboli è una di quelle opere che lasciano un segno profondo nel lettore, che toccano nell’animo e invitano a riflettere, un romanzo che è impossibile dimenticare e che ogni tanto, ancor oggi, mi torna alla mente in certe sue pagine di struggente bellezza, emozioni e sensazioni che solo un capolavoro può dare.