Centomila gavette di ghiaccio
Letteratura italiana
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La morte vestita di bianco
Non c’è pace per gli uomini della divisione alpina Julia: prima a combattere contro i Greci, poi inviati nella grande steppa russa a coprire una linea del fronte lungo il fiume Don e infine costretti a tornare indietro per l’avanzata delle truppe sovietiche, che chiudono in una sacca un’’intera armata.
I loro percorsi sono sempre fatti a piedi, tranne per il trasferimento in nave dalla Grecia all’Italia, dove dovranno affrontare i rischi delle mine e dei siluri (e infatti uno di questi colpisce e affonda un bastimento carico di militari) e dalla nostra Patria ai confini russi in treno, stipati su dei carri bestiame. Ma nessuno si lamenta, anzi nei disagi e nelle difficoltà si rafforza quello spirito di corpo che è proprio degli alpini. Dovrebbero andare a combattere sul Caucaso, una regione montuosa dove un corpo ben addestrato come il loro può dare ottimi risultati, ma l’incapacità, la follia degli alti comandi li destina alla pianura, quasi si trattasse di semplice fanteria. La ritirata nella neve e con un freddo polare, pressati dalle truppe nemiche, dai partigiani, poco armati, senza cibo, vestiti in modo inadeguato si trasformerà in un incubo da cui pochi, benchè segnati nel corpo e nell’anima, riusciranno a uscire.
Della nostra disfatta in Russia nella seconda guerra mondiale hanno scritto pochi narratori e tutti testimoni di un’esperienza vissuta. A memoria ricorco l’ottimo I lunghi fucili, di Cristoforo Moscioni Negri, e quel capolavoro che risponde al titolo di Il sergente nella neve, di Mario Rigoni Stern; il primo è a metà fra il romanzo (la ritirata) e il saggio storico (la disamina delle cause dello sfacelo, le colpe), il secondo é un’opera di rilevante valore letterario. Centomila gavette di ghiaccio, testimonianza di quella tragica esperienza che ha vissuto il tenente medico Giulio Bedeschi, é un allucinante percorso in un girone infernale. É difficile trovare in un libro così tanto orrore che sappiamo realmente accaduto, e non inventato, un orrore che strazia, che penetra dentro come il freddo polare che dovettero patire quei disgraziati. Sì, perché la ritirata è senz’altro la parte migliore dell’opera, un incalzare di eventi, uno sfinimento totale che stringono lo stomaco. Gli alpini si trascinano nella neve, cadono esausti e muoiono, si buttano su qualsiasi cosa che abbia la parvenza di essere mangiabile, lottano per quello che chiamarlo cibo è quasi una bestemmia, ma restano saldi nel cercare di aiutarsi, almeno fino a quando avranno un po’ di forze. Il lungo serpente di un armata in ritirata è punteggiato dai poveri corpi di chi non è più stato in grado di proseguire; é una torma di dannati che si trascina verso ovest, verso la salvezza, pronta a combattere anche solo con la forza d’urto dei propri corpi contro gli sbarramenti nemici che vogliono inchiodarli per sempre. Battaglie, scontri, miserie umane, e freddo, tanto freddo che congela gli arti, che mozza il respiro. Sembra di vederli passare davanti ai nostri occhi, viene perfino la tentazione di allungare un braccio per aiutare qualcuno con ce la fa più; in quel bianco uniforme che diventa un sudario per molti va un’umanità dolente verso la salvezza o verso un ideale orizzonte di un mondo senza più guerre. Il nemico é vicino, ma non c’è odio, perché la battaglia è fra l’uomo e quella natura tanto avversa. Sono pagine memorabili, di una bellezza unica e si guardi bene che l’autore rifugge dallai retorica, da frasi del tipo “italiani brava gente”., anche se a volte esagera un po’, almeno nei toni, nel parlare dell’eroismo dei nostri alpini. Apprezzabile é la parte in cui si parla delle contadine ucraine che vicino alla meta li soccorrono; loro non hanno debiti di riconoscenza , ma solo tanta materna pietà.
Saranno pochi a rientrare in Italia, piombati nei vagoni, impossibilitati a scendere alle stazioni, perché la gente non deve vedere come è ridotta la grande armata italiana che è andata in Russia. Prosegue il gioco delle menzogne, lo stesso a cui per tanto tempo sono stati abituati gli italiani.
Resta da chiarire tuttavia un mistero: nonostante l’esperienza patita e l’evidente incapacità di un regime di affrontare seriamente una tragedia come la guerra, Giulio Bedeschi, dopo l’8 settembre 1943, anziché prendere la via dei monti per unirsi ai partigiani, si iscrisse al partito fascista repubblicano, divenendo comandante della XXV Brigata Nera Capanna di Forlì. Alla fine delle ostilità si nascose per poi riapparire, senza conseguenze, nel 1949.
Centomila gavette di ghiaccio è meritevole di lettura, perché é certamente un libro contro la guerra, contro l’insensatezza degli uomini che non comprendono come in un conflitto anche i vincitori finiscono con l’essere perdenti, sconfitti nella loro dignità e feriti nell’animo, una lacerazione da cui è impossibile guarire.
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Inferno bianco
La guerra!! Immane tragedia di atrocità, sofferenze fame e freddo; decine di migliaia di soldati inviate a combattere in una terra sconosciuta, aspra, gelata in cui emergono, dal letargo dell'animo umano, gli istinti primordiali tali da far inorridire ogni sana coscienza. Gli accadimenti e le vicissitudini sono narrati con crudezza dialettica ma, nel contempo, con amare verità mai raccontate nei libri di storia; esseri umani che diventano spettri vaganti in un inferno bianco, e spesso attendono, come atto liberatorio e di pietà, la falce della sdentata megera. Non ci sono lacrime che possano alleviare l'infinità vastità dell'insensato e dell'assurdo che partorisce impalpabili mostruosità; la mente si astrae e s'incammina lungo un illune e cupo sentiero dove anche l'anima diventa di ghiaccio.