Artemisia
Letteratura italiana
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Pathos femminile
Seguire la lettura non è semplice: si intrecciano contemporaneamente la storia dell'autrice (afflitta presso il giardino di Boboli, per non aver più tra le mani il suo primo manoscritto, andato perso nel '44 con la guerra) e la vicenda di Artemisia Gentileschi di tre secoli prima, di cui l' autrice ne racconta la vita, con una prospettiva del tutto particolare.
È una sorta di confessione-diario, in cui Anna Banti si rivolge alla giovane donna dandole del tu, come fosse un' amica, generando un flusso di coscienza inarrestabile, uno strumento funzionale, per far rivivere per sé e per il lettore (questa è la percezione) la donna - artista del seicento.
Il motore dell'opera è proprio il libro andato perso, una perdita che scatena l' ossessione per i ricordi, una comunicazione fitta, a senso unico, che non dà respiro e non dà spazio a riflessioni.
L' autrice imbastisce una biografia ricca di pathos, ricuce con pazienza pezzi di vita intensa di Artemisia, brandelli di esistenza che occorre conoscere prima di affrontare la lettura: il mio consiglio è di documentarsi prima, per poi apprezzare appieno non solo la biografia, ma anche la prosa ricercata e raffinata, una scrittura che ha il sapore di altri tempi.
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Da donna a donna
Mi piace l’arte in generale, pur non essendo particolarmente competente, e in particolare la pittura, per la sua immediatezza, per le sensazioni che si imprimono all’istante quando si ha occasione di guardare un bel dipinto. Fra i tanti pittori mi ha sempre colpito, per la drammaticità delle sue opere e per i sapienti giochi di luce, Michelangelo Merisi, più conosciuto come il Caravaggio. Nell’interessarmi a lui ho incontrato una pittrice vissuta nella prima metà del XVII secolo e che, a suo modo, riprendeva nelle sue tele lo stile caravaggesco. Il suo nome è Artemisia Gentileschi, una donna, quindi, che ha operato in un’epoca in cui ancora l’essere femmina costituiva una evidente subordinazione al maschio, limitandone le possibilità insite nella sua personalità. E in effetti, se pur brava nella sua arte, molto della sua fama è dell’esser stata un personaggio che, molto in anticipo sui tempi, ha rivendicato il diritto a una pari dignità, e non solo con la sua professione, ma anche con i suoi comportamenti. E’ evidente che ho avvertito la necessità di conoscerla maggiormente e al riguardo non poco è stato scritto su di lei, e in questo Artemisia di Anna Banti e uno di questi libri, anche se per impostazione e struttura non è tanto un’opera di storia dell’arte, quanto piuttosto un omaggio a un’antesignana nella lotta per l’emancipazione femminile.
La narratrice, sulla base di ricerche di archivio e di opere pittoriche, ricostruisce la vita di questa grande artista, conferendo al suo scritto un alto valore letterario, intrecciando due periodi temporali. Infatti il manoscritto di Artemisia era già pronto in un cassetto nel 1944, quando andò perduto durante la battaglia di Firenze con la distruzione della casa in cui risiedeva la Banti, che finita la guerra lo riscrisse, memore di quanto era accaduto con la perdita di questo suo prezioso lavoro. E così, in una città devastata dal conflitto, si aggira la narratrice, con il ricordo della vita di Artemisia. Passato e presente non sono più due entità distinte, ma si uniscono nella drammaticità dell’esistenza della pittrice e in quella di una città ferita dalla guerra. Anna Banti, pur in preda allo sconforto per quel libro perduto, trova una nuova energia, una motivazione più forte di quella per cui l’aveva scritto, e cioè far riemergere dall’oblio del tempo la figura di Artemisia, di questa donna che fra mille difficoltà raggiunse una sua indipendenza e la cui arte è stata il simbolo di un riscatto per tutte le donne.
La Gentileschi ha lottato, ha infranto barriere secolari, anteponendo a tutto, alla famiglia, alla sua stessa esistenza, quell’arte che ha finito per renderla immortale.
Da donna a donna, da scrittrice a pittrice, in un certo senso autore e protagonista finiscono con l’incontrarsi in più punti e la Banti rende un omaggio a questa antesignana dell’emancipazione femminile, ricordandola, tracciandone con mano lieve, ma ferma, la storia della sua vita.
Sono due personalità di epoche diverse, ma il piglio battagliero, la forte motivazione di rivendicare tramite la propria arte (per una la pittura, per l’altra la scrittura) la libertà di potersi realizzare le accomuna.
Scritto con uno stile impeccabile, anche se qualcuno potrà rimarcare l’uso di un italiano che ai tempi attuali può apparire obsoleto (ma nostra lingua è quella e non certi sproloqui che si incontrano in non pochi romanzi d’oggi, infarciti da neologismi e anglicismi spesso fuori luogo), venato da una soffusa malinconia, il romanzo si svolge come un ciclo di pale d’altare, una serie di quadri, di figure ritratte a parole che impreziosiscono ulteriormente l’opera. Quel che colpisce di più, data la particolare complessità della struttura, è però la levità, una mano leggera che finisce con l’avvincere il lettore, che, pagina dopo pagina, avverte chiara la sensazione di trovarsi di fronte a qualche cosa di unico, a un libro profondo e assai gradevole.