1849. I guerrieri della libertà
Letteratura italiana
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Recensione della Redazione QLibri
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La Repubblica de' Noantri
Come abbiamo imparato sui banchi di scuola, il 1848 fu un anno cruciale nella storia del nostro Risorgimento. In quei mesi si rafforzò in molti italiani la speranza di un mondo nuovo, in cui le potenze straniere fossero finalmente cacciate dal Paese e l’Italia divenisse uno stato unitario e democratico.
L’immaginario Folco Verardi, protagonista di questo romanzo, è uno dei tanti giovani che, abbagliati dal mito dell’unificazione, si unirono a frotte in improvvisati eserciti di volontari che combatterono nella I Guerra d’Indipendenza.
Folco aveva lasciato il suo lavoro di garzone di fornaio a Ravenna e si era arruolato nella Legione dei Volontari Pontifici che, sotto il comando del generale Durando, era partita per portare aiuto alle truppe di Carlo Alberto nella sua guerra contro l’Impero Austro-Ungarico.
Aveva partecipato alle battaglie di Vicenza dove il Corpo di spedizione si era battuto con valore e abnegazione, ma quando, il 29 aprile 1948, Pio IX aveva tolto il suo appoggio all’intervento e richiamato le truppe, lo sconcerto lo aveva preso. Come tanti suoi commilitoni era tornato a Roma nella speranza che non fosse già tutto finito. Qui aveva trovato una città in subbuglio e in aperto contrasto con la nuova politica conservatrice imposta dal Primo Ministro Pellegrino Rossi. Ed è qui che lo troviamo all’inizio del romanzo.
Assieme a tanti popolani romani sarà testimone dei successivi avvenimenti a partire dalle turbolente riunioni sediziose in taverne e magazzini, sino all’assassinio del Rossi; dall’instaurazione della Repubblica Romana all’elezione dell’Assemblea Costituente per giungere sino alla successiva, disperata lotta dei ribelli contro la restaurazione del potere temporale del Papa.
In questo suo romanzo Vittorio Evangelisti ci mostra la tragica, gloriosa epopea della Repubblica Romana vista dal basso, attraverso gli occhi candidi e ingenui di Folco, cioè nel modo in cui avrebbe potuto viverla uno qualunque dei tanti popolani che si votarono anima e corpo a quella causa, magari senza neppure comprenderne i più profondi ideali così come concepiti e propugnati dai vari Mazzini, Garibaldi, Saffi o Armellini.
Non è difficile immaginare lo stesso A. calato nei panni di quel immaginario garzone di fornaio, mentre si aggira per le piazze e le borgate di Roma e diviene testimone, talvolta anche in modo inconsapevole, di quegli storici avvenimenti come un muto, ammirato osservatore.
L’intento che l’A. si era prefisso, quindi, è nobile e ben concepito: mostrare la storia dalla parte della moltitudine di coloro che, normalmente, sono costretti a subirla pure quando, come in questa occasione, avrebbero l’opportunità di scriverla e far sentire la propria voce in capitolo. Purtroppo, e spiace davvero rilevarlo, detto lodevole obiettivo non è stato seguito da una altrettanto efficace realizzazione.
Al romanzo manca una vera trama che si distingua dalla mera, diligente esposizione dei fatti di cronaca di quei mesi e dall'elencazione puntigliosa dei personaggi storici coinvolti nell’azione. Folco ci appare un personaggio piuttosto sciapo, privo di alcuna caratterizzazione. È poco più che un paio d’occhi e di orecchie, un tramite che ci rende edotti dei vari accadimenti di cui si trova ad essere casualmente spettatore o che apprende nel letto di qualche procace ragazza o ai tavoli delle osterie che frequenta con solerte impegno tra bevute epiche e riepilogo di tutta la gastronomia romana (forse anche di quella che verrà inventata un secolo dopo!).
Gli eventi ci sono raccontati in modo apatico, pedantemente spento, come potremmo leggerli su un libro di storia per le scuole medie. Solo nelle fasi finali dell’assedio è dato trovare un po’ di pathos e partecipazione emotiva; troppo tardi e troppo poco, ahimè.
Il resoconto, indubbiamente, è accurato e sin troppo pignolo: insomma ci dà contezza che l’A. si sia ampiamente documentato prima di prendere la penna in mano, ma resta privo di passione e senza alcun approfondimento psicologico o sociologico. Anche i personaggi storici agiscono sulla scena come pallide comparse di una rappresentazione precisa, ma statica. Lo stile, anonimo e senza nerbo, non contribuisce ad accendere l’attenzione del lettore. Ogni tanto si ha l’impressione di incappare pure in qualche clamoroso falso storico. Uno tra tutti: può mai un popolano semianalfabeta disquisire di comunismo e di idee “comunistiche” quando il “Manifesto” di Marx era stato pubblicato pochissimi mesi prima a Londra? In generale, poi, l’A. fatica a dissimulare le sue simpatie politiche. Così fa agire e parlare i suoi personaggi come ci si aspetterebbe da un nostro contemporaneo. Pur riconoscendo che fu proprio in quei mesi che sbocciarono i germi di tutte le future istanze democratiche nel Mondo attuale l’approccio è decisamente anacronistico in quel contesto. Se è vero che Folco è l’alter ego dell’A. troppo spesso il secondo influenza il modo di sentire e di agire del primo.
Tuttavia non sono questi gli aspetti che più deludono, quanto, appunto, la narrazione monocorde e priva di emozione: per accendere gli animi e la fantasia non è sufficiente inserire qua e là i versi di qualche famoso inno patriottico o un’ode risorgimentale, come si farebbe a conclusione di una riunione di partito. Né qualche fervorino ideologico è sufficiente a dar corpo e anima ai personaggi e rendere vivo il racconto. E' sotto questo profilo che il libro mostra le maggiori carenze.
In conclusione la lettura è piuttosto noiosa, poco coinvolgente che si fa fatica a portarla a termine. Ciò è un vero peccato perché l’argomento era estremamente stimolante e poteva portare a risultati molto più accattivanti.
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Per chi già conosce bene l’opera di Evangelisti conviene segnalare che questo può essere considerato una sorta di prequel della trilogia “Il sole dell’avvenire” dove ritroviamo la famiglia Verardi, negli anni successivi ai fatti qui narrati.
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Dio e Popolo
Nel 1848, l’anno in cui sembrava che le congiunzioni astrali portassero l’Europa a reinventarsi, almeno politicamente e socialmente, Roma era eterna, capitale della cristianità, meta simbolo per letterati e intellettuali. Ma era anche povera come poche volte nella sua lunga storia. Sporca, abbandonata all’incuria, spietata nelle sue contraddizioni in cui ai palazzi della nobiltà e del clero più altolocato rispondevano le baracche e gli stracci della gente del popolo largamente disoccupato.
Nell’anno che passerà alla Storia come l’anno delle rivoluzioni, mancate, la capitale era retta dal regno di papa Pio IX. Un papa politico, come ce ne sono stati tanti, che provò l’inefficacia, nel lungo periodo, della politica cerchiobottista del piede in due staffe, dando prima corda ai sentimenti liberali che infiammavano anche Roma per poi rimangiarsi tutto, parola e concessioni, fino a fuggire verso Gaeta tra le braccia del re despota Ferdinando II di Napoli.
È in questo clima fervente e confusionario che entra a Roma, assieme ai reduci della Legione pontificia guidata dal generale Durando che aveva combattuto in Veneto, Folco Verardi, di professione panettiere in quel di Ravenna. Uno dei tanti volontari che lasciano bottega, moglie e figli per far la guerra contro gli austriaci e “fare l’Italia”.
Per mezzo degli occhi del semplice e spaesato romagnolo, l’autore ci porta a spasso per le vie della città, tanto nei rioni popolari quanto nei palazzi dove si sta scrivendo la Storia. Tra riunioni carbonare fatte di invettive anticlericali e fiumi di Romanella alle sedute dell’assemblea costituente che, negli ultimi agonizzanti istanti di vita della Repubblica, promulgherà una costituzione audace e progressista dove, tra gli altri, si aboliva la pena di morte e si sanciva la laicità dello stato.
Folco, appena alfabetizzato e cosciente della sua scarsa vena politica, conteso fra l’amore per una garibaldina e quello per l’idea di far parte, per la prima volta nella sua vita, “di un qualcosa di pulito”, arriverà ad identificarsi con quegli ideali di speranza e uguaglianza che permeavano la causa repubblicana fino a sposarli come ragione di esistenza.
1849 è il frutto di un minuzioso lavoro storiografico, particolareggiato e ampiamente documentato. Una cronaca ricca, dove gli aneddoti più conosciuti si incastrano con altri immaginati o ricostruiti dall’autore in assoluta fedeltà con le cronache del tempo.
Questo marcato carattere storiografico ruba un po’ la scena al romanzo in sé, che ha l’unico limite di non riuscire quasi mai ad immergersi nelle vite dei protagonisti, alla lunga tutti un po’ schiacciati in un corpo unico (il popolo delle barricate, le orde di ragazzini seminudi, le schiere di intellettuali, ecc.) che li priva di identità propria. Lo stile abbastanza scolastico di Evangelisti contribuisce a questa sensazione di generale piattezza e forse il suo essere “forestiero” (Evangelisti è bolognese) ha negato alla narrazione quella componente vernacolare e romanesca che avrebbe portato vivacità nella lettura e reso in maniera ancora più efficace il contributo delle masse popolari a questa straordinaria impresa fallita.