16 ottobre 1943
Letteratura italiana
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Quando Debenedetti pensò di commemorare la tragedia della deportazione di oltre mille ebrei in seguito al rastrellamento del ghetto di Roma, a detta del figlio Giovanni intervistato in occasione dei settant'anni della prima pubblicazione del libro, la necessità primaria fu quella di riportare i fatti in modo cronachistico usando l’espediente del narratore anonimo. Prevalse la pietà di fronte alla tragedia; non si sentiva l’autore di appropriarsi del dolore e tanto meno di fare in modo che apparisse come frutto del suo lavoro: furono i fatti a generarlo. Certo è che il dolore va saputo raccontare; come disse Moravia nella postfazione a una delle diverse edizioni, scritta su richiesta proprio di Antonio, il figlio di Giacomo, “ la pietà prevalse sull’estetismo”. Indubbio rimane l’alto valore letterario dello scritto. Sono pagine piene di grazia, raccontano l’antefatto della tragedia, non solo il tentativo della donna di popolo di avvisare gli ebrei dell’imminente pericolo di cui fortuitamente è venuta a conoscenza, e del suo affannarsi invano, ma anche il ricatto a cui furono sottoposti gli ebrei - la consegna di cinquanta chili d’oro da racimolare in un tempo strettissimo - per evitare l’arresto di duecento di loro. È la grazia del venerdì sera, quella del popolo laborioso che si prepara alla festa del sabato, è la ritualità della sinagoga, è la vita intima delle abitazioni dove gli ebrei si rifugiano alle prime avvisaglie del calare delle tenebre, memori di pregresse notti dolorose nella storia del loro popolo. Sono presentati, questi uomini e queste donne, in una ingenuità tale da sentire quasi l’esigenza di spronarli, insieme alla povera Celeste che, se almeno fosse stata una signora, l’avrebbero ascoltata … Quelle stesse case, quelle stesse vie del ghetto sono poi squassate dalla retata la quale, iniziata alle prime luci dell’alba, intorno alle cinque del mattino, e conclusa entro il primo pomeriggio, coglie nel sonno i suoi poveri abitanti. E allora imperversa il caos, non tanto quello del fuggi fuggi, l’abbiamo detto, gli ebrei sono fiduciosi e increduli, il loro sentire mal si concilia con l’azione necessaria per la fuga, ma quello dell’animo, quello che di contro paralizza e lascia ancora la flebile speranza di potersela cavare nascondendosi dietro la porta della propria abitazione. È poi il caos della retata, paradossalmente condotta con la meticolosità dei tedeschi essa viene invece dominata dal caos: salvarsi o perdersi per sempre diventa puro gioco del destino, nonostante la precisione con al quale è stata compilata la lista. È la parte più tesa della narrazione, rende in modo mimetico la concitazione. Segue poi il ritmo lento dell’attesa, quello che precede il lungo viaggio senza ritorno. I vagoni piombati, la consapevolezza del macchinista, il sommesso vociare, stipato in spazio angusto, incrociato dai civili colti nella loro quotidianità gravata ora da un nuovo peso, quello dell’impotenza. Molti furono i civili che aiutarono gli ebrei; quelli sopravvissero forse fino all’eccidio delle Fosse Ardeatine, degli altri tornarono in sedici.
Indicazioni utili
WIESEL, La notte