Triangoli rossi
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
L’ultimo debito
Boris Pahor, scrittore sloveno di cittadinanza italiana, nato nell’agosto del 1913, prossimo a compiere 102 anni, è la Storia che può ancora parlare, ricordare e testimoniare. In realtà lo ha fatto per molto tempo: è autore di una trentina di volumi, anche se il suo nome viene più facilmente associato a “Necropoli” la cui prima edizione in lingua italiana fu quella pubblicata dal Consorzio Culturale del Monfalconese . Questo romanzo autobiografico sulla sua prigionia a Natzweiler-Struthof è stato scritto nel 1967 e tradotto in venti lingue, Fazi editore ha avuto il merito di riproporlo nel 2008 all’attenzione dell’Italia.
“Triangoli rossi” nasce invece da una sorta di risentimento verso una Memoria parziale, quella degli ultimi tempi che ricorda ma ripercorre sempre gli stessi sentieri omettendo una parte di storia meno conosciuta ma altrettanto dolorosa. Boris Pahor fu arrestato nel 1944 dopo aver prestato servizio militare nell’esercito italiano fino all’8 settembre del ’43 quando rientrò clandestino a Trieste per aderire alla resistenza slovena. Fu arrestato da sloveni collaborazionisti proprio nella sua città e fu internato per motivi politici: il suo numero venne dunque associato al triangolo rosso che nel sistema dei contrassegni nazisti indicava i prigionieri politici ma in realtà ,molto più semplicemente ,ogni oppositore al nazionalsocialismo.
Si racconta in quest’opera un genocidio misurato in termini di vite umane certo, ma partendo da un primitivo genocidio culturale, quello compiuto ai danni di una minoranza annessa all’Italia con Il Trattato di Rapallo del 1920 e progressivamente snazionalizzata durante il ventennio fascista. Si racconta altresì di una geografia di confine che ha visto il nazifascismo occupare la Slovenia nel 1941 e che alle misure della “circolare 3C” la quale prevedeva rastrellamenti, internamenti, deportazioni, esecuzioni sommarie ha risposto con una forte Resistenza.
I continui rimandi a eventi già narrati nelle sue precedenti opere permettono di collocarli, grazie ad un ricco ma essenziale apparato di note, con una certa sicurezza e si ha l’impressione di percorrere a ritroso una vicenda personale e storica insieme.
Non si leggerà nel dettaglio di orrori, si prenderà atto invece dell’esistenza di campi di concentramento atipici per collocazione geografica ( montagna: 800 metri organizzato con la tecnica del terrazzamento, uno per tutti), di intellettuali morti per un ideale, di giusti dimenticati e sconosciuti ai più, di uomini che da internati riuscirono a sabotare il volo di morte e distruzione dei V2 che erano costretti a creare in gallerie scavate nel sottosuolo, di trasporti forzati da un campo all’altro, di ultimi e precipitosi sfollamenti finiti in tragedie immani.
Il volume è agile e snello, ricco di informazioni, strutturato in tre parti funzionali: prima parte- la mia esperienza, seconda parte- gli altri lager nazisti, terza parte- i campi fascisti, segue l’elenco delle carceri, in Slovenia e in Italia, da cui si veniva deportati nei campi.
Ogni breve capitolo che descrive i campi termina con la sezione PER APPROFONDIRE: nome del sito da visitare, indirizzo completo, numero di telefono e fax, sito internet.
Boris Pahor ha potuto così sdebitarsi con tutte le persone incontrate nei campi di concentramento e che in qualità di interprete e di infermiere non ha potuto aiutare “a evitare il sadico torchio del male”.