Se avessero
Letteratura italiana
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Senza respiro...
…ma in un’accezione negativa…Questo libro mi ha tolto il fiato fin dalle prime pagine. Soprattutto per lo stile che, seppure forbito e segno di una profonda conoscenza della nostra lingua, per me è stato un grandissimo ostacolo alla lettura, tanto che, pur essendo cosa per me impossibile, ho abbandonato la lettura. Mi sono sentita risucchiata come se la scala a chiocciola della copertina fosse un mulinello, ma invece che catturare la mia attenzione ed il mio interesse, lo ha respinto. La storia è una lunga ipotesi, da cui il titolo, che è, se non altro, molto azzeccato, visto l’incipit del libro. Sicuramente può piacere a chi è più appassionato di storia di me, sicuramente può piacere ai lettori che hanno gusti letterari di più alto livello dei miei. Io però personalmente l’ho trovato davvero molto pesante, al punto da essere per me davvero illeggibile. Con rammarico.
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E poi un'ipotesi incompiuta e reale
Si dice sempre, per saggezza proverbiale, che con i “se” e con i “ma” la storia non ha diritto di realizzarsi: ebbene, in Vittorio Sermonti, dantista e letterato classe 1929, tutta questa sapienza di repertorio (abusata peraltro dai genitori) deve aver sganciato la molla dell'ispirazione autobiografica.
“Se avessero”, titolo evocativo ed astutamente incompiuto, prende le mosse dalla vicenda del maggio 1945, durante il quale tre giovani partigiani minacciano di denuncia e di morte il fratello maggiore FM (al secolo Rutilio Sermonti), reo di militanza tra le file del Duce e del Führer. Vittorio, irrequieto quindicenne, è lì ad assistere, crescere, familiarizzare con un nemico fanciullo e ben poco temibile: la sparatoria mancata lo condizionerà forse più che a tutti gli altri, stipati in quel vano dove avviene l'improvvisa fatidica irruzione.
L'ingresso milanese di via del Domenichino, col suo mestissimo mobiletto giallo e un numero variabile di porte e individui, è il punto di partenza e continuo ritorno di una narrazione sadicamente involuta: si fatica, lo si ammetta, a star dietro ai periodi dell'autore, eccessivo nell'inutile complessità della scrittura. Quando poi leggerlo diviene piacevole, forse perché ormai avvezzi, forse perché finalmente soccorsi da un testo più agile, ci si rende benissimo conto dell'ovvio: nell'”ingressino” (come lo chiama V.) tutto nasce, sì, eppure subito muore.
E non solo perché il fatto non sussiste (“se avessero” presuppone per sua stessa natura che non abbiano), ma anche e soprattutto perché non suscitano certo scalpore biografico, quei tre fucili puntati sul petto di chi poi sarà esponente di punta del deprecabile movimento neofascista.
È dunque la persistenza del non accaduto a dare avvio alla storia: non accaduto quale pretesto per raccontare invece i tanti e intensi accaduti della Storia con la “S” maiuscola, accanto a quelli ad essa strettamente legati, nati nel ventre della famiglia e nel percorso di vita dell'ottantasettenne ragazzo di una volta.
I personaggi di levatura culturale e politica che costellano le pagine vi si affacciano in un quasi incognito di falsa modestia (“non li cito al completo per non vantarmene troppo”, potrebbe essere la morale), col solo ausilio delle loro iniziali, in un gioco enigmistico per qualcuno non poi tanto semplice: svetta però, tra gli altri, un PPP dal precoce talento calcistico che altri non può né vuol essere se non Pier Paolo Pasolini.
Vi sono scelte e prospettive opinabili in questo libro, in quest'esistenza intellettuale e multiforme: nessuna vera condanna per il fratello, una stima evidente del proprio essere, un raccontare gli altri raccontando anzitutto se stessi. Non si può però negare che, nelle vesti di umili lettori, si rimanga coinvolti dagli eventi, dalle riflessioni, dai toni brillanti di questo testimone nostalgico di una giovinezza fiduciosa e appassionata: nostalgia che in realtà (almeno è ciò che passa) pare nulla di fronte al raggiungimento della quiete dell'animo, ambita condizione che per Sermonti ha nome “Occhi Pescosi”. È Ludovica la proprietaria di un simile sguardo, ed è per lei che si percepiscono forti l'amore e la gratitudine, rivelati con delicata ironia dall'uomo che le rinfaccia di avergli nascosto in silenzio tutta la voglia di morire.
Contorto e saccente quanto saggio e curioso, l'autore candidato allo Strega un po' ci assomiglia, nel trarre dal lento scorrere del mondo la stessa identica conclusione cui infine giungeremmo anche noi: se si tratta della nostra vita, della vita strettamente personale, un evento cancellato, riuscito, variato nella sua identità modifica il futuro soltanto parzialmente. Soltanto per noi. Così che la storia, nel nostro sentire, sarebbe capace di apparire (rispetto a quanto davvero accaduto) esattamente identica eppure profondamente diversa.
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Mio fratello straariano, la sorellina sabauda
“Se avessero” di Vittorio Sermonti è un periodo ipotetico del terzo tipo di 200 pagine: “Il tema eponimo:… il che cosa avrei fatto, il chi sarei diventato se avessero sparato a mio fratello”.
Nel clima post liberazione il giustizialismo partigiano impazza (“A farla breve, Milano cadde come una pera nelle mani delle forze partigiane”): per camaleontismo italiano, prima tutti erano fascisti, adesso tutti non lo sono mai stati (fascisti). In seguito a una delazione, tre partigiani armati di mitra irrompono nella casa del narratore (“Mio fratello straariano… la sorellina sabauda… un carvanserraglio”). Cercano il fratello più grande, che ha un passato di amicizia con i nazisti (“Schutzstaffeln e comunemente si abbreviano SS”). L’interessato però convince i partigiani che stanno commettendo un errore…
Ne seguono ricordi dello scrittore (da balilla, “Andare alle adunate il sabato alle tre con quelle divisucce del cavolo scocciava a quasi tutti me compreso”), digressioni più o meno scanzonate (gli stupri ai tempi della guerra rappresentati in una barzelletta) e narrazioni su tempi passati (“Il gesto di arruolarmi era andato buco”) e presenti, descrizioni di crudeli pratiche di guerra (“L’aneddoto di un secchiello pieno di occhi visto da lui in Istria, occhi cavati… probabilmente dai titini alle popolazioni di lingua italiana”), racconti di amori.
Come ben sa chi si è destreggiato nella consecutio temporum ai tempi del liceo, il periodo ipotetico dell’irrealtà è insidioso e anche Sermonti, a parer mio, cade nelle trappole delle ipotesi del terzo tipo. Ma gli rimane un barlume di consapevolezza (“Qui mi accorgo che il soggetto, l’io che scrive in quanto io che è scritto, risulta piuttosto odioso…”), e se è in finale al premio Strega 2016 evidentemente non tutti hanno giudicato questo romanzo con la severità del sottoscritto. Anche sul piano stilistico, l’opera fa rimpiangere stili lineari, classici, non troppo sperimentali.
Giudizio finale: finalista?, estemporaneo, post neorealista.
Bruno Elpis
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