Rosso Istanbul
Letteratura italiana
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Lui, lei, Istanbul
Lui, lei, Istanbul. Tre sono i protagonisti di questo breve ed intenso viaggio. Un regista di origini turche trapiantato in Italia che torna nel paese natale per dire addio alla casa dove è cresciuto prima che venga abbattuta lasciando il posto ad un moderno condominio. Una donna in carriera, Anna, in un viaggio a metà tra lavoro e piacere con il marito e una coppia di amici e collaboratori. La città cosmopolita per eccellenza, da sempre ponte tra diverse culture, Istanbul o anche Costantinopoli, Bisanzio, Dersaadet, Bab-i Ali, la porta della felicità, la porta sublime, la "seconda Roma". Lui rievoca i ricordi dell'infanzia, la lunga assenza del padre e poi il suo ritorno, l'affetto della madre, della nonna e delle zie, i giochi, i primi amori e i primi pruriti, la passione per il cinema nata ancor prima di compiere sette anni e divenuta ragione di vita. Lei scopre i tradimenti del marito e la sua vita calcolata, programmata, sempre sotto controllo subisce una rivoluzione totale. Ma non c'è sofferenza dopo la rabbia iniziale, lì dove in molti vedrebbero la tragedia lei trova una rinascita personale, uno stravolgimento positivo delle priorità, degli obiettivi, del suo animo più profondo. Istanbul, il punto di incontro tra Oriente ed Occidente, città divisa tra un'irrefrenabile voglia di progresso e un inevitabile desiderio di preservare la storia, la cultura, i luoghi e riti che la rendono unica. Correnti contrarie che si scontrano e il cui impatto si trasforma in cortei, proteste, idranti e manganellate. Per lui la città rappresenta un tempo che non tornerà mai, i rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato. È il classico modo di guardarsi indietro a distanza di anni e percepire il passato sempre meglio di come era realmente e di come si vede oggi il presente. Per lei invece è morte e rinascita, è un mondo nuovo in cui costruire una nuova vita, una cultura da conoscere pian piano non nei luoghi e con i tempi della turista, ma negli hamam scrostati e umidi di vapore, nei negozi polverosi di robivecchi, nei dolci bicchieri di nane, nei racconti degli anziani, nelle piazze in cui ferve la rivoluzione. Ozpetek si cimenta con la letteratura ottenendo un ottimo risultato. Le atmosfere che si percepiscono durante la lettura sono le stesse che si respirano nei suoi film, i personaggi simili ai protagonisti delle sue pellicole, gli argomenti gli stessi proposti al cinema: l'amore al di là del genere sessuale, dell'età, dei legami; i ricordi cui guardiamo con piacere ma anche con un pizzico di tristezza; la speranza che riponiamo in un futuro nel quale non possiamo mai sapere cosa ci aspetta e che a volte ci incute paura. Lo stile di scrittura è fine, raffinato, malinconico. Le due storie scorrono indipendenti ma inevitabilmente si incrociano. La parte autobiografica mette in evidenza quanto di se stesso e delle sue esperienze l'autore metta nelle sue opere. L'amore per la sua città, cantato come un inno o come una serenata, si percepisce in ogni pagina, in ogni riga, in ogni parola. "Istanbul è il blu e rosso, che paiono riuscire a fondersi solo in certi tramonti sul Bosforo. E il rosso, il rosso dei carrettini dei venditori ambulanti di simit: le ciambelle calde ricoperte di sesamo che sono la prima cosa che compro quando arrivo. Il rosso fiammante dei vecchi tram: oggi ne è rimasto solo uno, con cui i turisti attraversano il cuore della città. Il rosso-arancio con cui erano decorati i piattini del tè che una volta ti porgevano nei kahve: tè bollente, servito nei bicchieri di vetro. Il rosso dello smalto sulle unghie di mia madre, lei che ha sempre amato i colori pallidi, delicati. Il rosso della tuta Adidas che mi ha chiesto in regalo, e che le porto in valigia; lei che ricordo sempre solo in tailleur, tailleur grigi, carta da zucchero. Ma ora è il rosso che vuole, è il rosso a renderla felice. Forse dovrei essere triste oggi, e la mia Istanbul dovrebbe essere in chiaroscuro, in bianco e nero".
Indicazioni utili
Qualcuno nasconda la carta ad Ozpetek!
Un libro che a mio parere raggiunge a malapena la sufficienza; un bignami di sensazioni, ricordi e nuove esperienze appena abbozzati che non riesce, e forse nemmeno si sforza, di andare oltre una narrazione superficiale e scarna, cosparsa qua e là di massime a dir poco banalotte. Non aiutano gli evidenti riferimenti fatti a molti personaggi dei suoi film; non so se ci siano elementi autobiografici o meno, in ogni caso l'impressione che rimane è quella di un'opera di marketing (mal riuscita) che è un po' un'accozzaglia di tutte quelle particolarità che contraddistinguono la sua regia. Istanbul non l'ho vista, non l'ho sentita e non l'ho immaginata, è rimasta lì, chiusa in se stessa e a debita distanza. Se ne avesse fatto un film sicuramente sarebbe stato più apprezzato, anche se solo per la singolarità del modo in cui Ozpetek presenta l'immagine, saper scuotere gli animi attraverso la lingua scritta purtroppo non è cosa da tutti. In conclusione, poche righe di riflessione sul suicidio sono l'unica cosa che mi è rimasta impressa di questo altrimenti trascurabilissimo racconto:
«Ma perché?» mi chiedo, inutilmente. Non c’è mai un perché quando una persona rinuncia a vivere. Quando sceglie il buio, invece della luce. Non c’è mai un perché, o meglio, ce n’è uno solo: il mal di vivere. La fragilità. Ci sono persone troppo fragili, ed è proprio questa la loro debolezza ma anche la loro bellezza: un’immensa fragilità, quasi fossero fatti di cristallo, così trasparenti e luminosi, ma difficili da maneggiare, anche per gli altri. Non resistono agli urti della vita, agli ostacoli, agli ammaccamenti, alle cadute. È per questo che Yusuf si è ucciso? Forse, ma le spiegazioni del dopo sono inutili. Il mal di vivere ti afferra alla gola, ti avvelena lentamente; quando prendi i sonniferi, quando ti butti dalla finestra, quando scegli il buio, in realtà ti sei già ucciso piano piano, migliaia di volte. La morte, allora, è una liberazione.