Leggenda privata
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Top 50 Opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
Un’autobiografia come romanzo horror triste e dive
Un’autobiografia insolita quella che ci propone Michele Mari, con il titolo “Leggenda privata”. Dichiaratosi costretto da una non meglio identificata Accademia dei Ciechi a scrivere la storia della sua vita, l’autore si premura di avvisare i committenti e i lettori che il suo sarà un romanzo dell’orrore, “un romanzo triste/angosciato e dunque caratterizzato da una certa quota di divertimento e di virtuosismo.” Egli infatti afferma di essere nato “da un amplesso abominevole” tra un padre in parte Mosè in parte John Huston e una madre spesso vista come un ultracorpo talvolta triste, talvolta sorridente, talvolta urlante. È così che Mari inizia il suo racconto, che prosegue rievocando le umili origini dei nonni paterni emigrati dalla Puglia verso il nord d’Italia, e descrivendo con spirito critico ma pieno di malcelata ammirazione l’impegno eccezionale del padre Enzo a divenire un grande e noto designer. La personalità paterna dominante nell’ambito familiare viene vista dall’autore in età adolescenziale come incompatibile con il carattere della madre le cui fragilità saranno d’ostacolo a un’unione duratura. Il racconto non concede nulla al patetico, pur lasciando trasparire una certa sofferenza giovanile. Mari riesce a creare una serie di personaggi tra il fantastico e il grottesco, ai quali non dà nomi precisi, ma che definisce con originalità Quello dalle Orbite Vuote o Quello che Gorgoglia o anche Quello che Biascica, tutti membri dell’Accademia dei Ciechi. Ma il suo cuore di adolescente è preso da una giovane cameriera vista e ammirata alla Trattoria Bergonzi che egli definisce quella “cum quej sokkol” colpito da quei talloni rosei divenuti per lui un sex-symbol. Della ragazza non sa il nome vero: egli la chiama “Donatella-Ivana-Loretta”. Le sue fantasie erotiche si alternano a incubi fantastici che si ripetono lungo tutta la sua vita. Il racconto e, in senso più lato, la letteratura è il mezzo per demistificare le paure dell’inconscio. Il vocabolario di Mari è opportunamente diversificato: dalle espressioni dialettali dei nonni, al linguaggio colto e ricercato, risultato di studi letterari e di frequentazioni intellettuali con personaggi del calibro di Montale, Buzzati, Jannacci e Gaber. Originale e inattesa è la conclusione del racconto, che trasforma legittimamente l’autobiografia in romanzo. Molto belle le fotografie tratte dall’album di famiglia dell’autore, che aiutano a immaginare l’atmosfera e l’ambiente in cui si sono svolti i fatti narrati, e che ci danno altresì un’idea di quale potesse essere realmente il carattere dei personaggi.
Indicazioni utili
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 2
Il padre che non vorrei
Un libro assai scomodo; un racconto 'di formazione', disagio e sofferenza.
Autobiografico tanto da non mutar neppure i nome dei famigliari; padre compreso, autoritario e inquisitore, noto designer di successo che diffidava il pargolo dal frequentare 'imbecilli' , intendendo con questo la maggior parte della gente.
L'Io-narrante indaga nella propria infanzia 'sanguinosa' e nella mesta adolescenza.
"I miei genitori, per motivi ideologici, non hanno mai avuto né automobile né televisione", dice. Per il padre, marxista-leninista, televisione significava America. E tanto basti.
La madre, anche lei disegnatrice, "transfuga dal ceto borghese", aveva praticato scalate in montagna con Dino Buzzati e addirittura Walter Bonatti.
Non ci furono rotture con le rispettive famiglie, ma si disfecero dei valori con cui vennero educati, senza costruire nulla in cambio se non adesione ideologica, il padre ; lei invece era sempre 'oltre' .
Una madre, fatta di talento e intelligenza, "ma talmente autodistruttiva da diventare (...) una perfetta macchina di dolore" .
Col padre andò molto peggio : svilimento e umiliazione; un figlio mai all'altezza, se non per l'eccezionale quoziente intellettivo proclamato da un test con 300 coetanei. Poi grossolana invadenza in campo sessuale : lo voleva aridamente 'maschio', tanto da abbassargli la figura femminile a un ammasso di carne.
L'autore ha certamente qualcosa da dire, ha parecchio talento, non divaga. Mostra le ferite ma non si accascia, non teme di presentarsi in tutte le sue fragilità, di 'denudarsi' in tutti i sensi.
La scrittura, coi suoi barocchismi, è originale e non ostentata, ma andrebbe ripulita di qualche eccesso.
Indicazioni utili
narrativa contemporanea
Il miracolo della letteratura «frin-frin»
Leggenda Privata di Michele Mari è uno di quei libri che merita di essere letto innanzitutto per il suo vocabolario, per come è scritto: latinismi, citazioni continue, mises en abîme, manierismi, aposiopesi e parole alate, ancora adesso inafferrabili, trovano perfettamente il loro spazio in un periodare di una bellezza senza tempo.
L’Accademia dei Ciechi ha deliberato: Michele Mari deve scrivere la sua autobiografia o, come gli ha intimato Quello che Gorgoglia, «isshgioman’zo con cui ti chonshgedi». Temibile richiesta che, però, di fatto lo può salvare dall’incubo di ogni scrittore: veder scritta banalmente la propria vita da qualcun altro.
L’io inizia così a dar voce a quel destino passato per la cruna di un ago, il suo (in effetti fu «una borsa su cinquecento» quella vinta dal padre Enzo), prediligendo una via aneddotica e non lineare.
Sono dunque i moltissimi aneddoti, scanditi dal ritornello «nacqui d’inverno», a ripercorrere la sua “sanguinosa” infanzia-giovinezza, vissuta fra due entità opposte (i propri genitori, i «miei-loro»), una cameriera senza nome («Dea ma volgare»), rimembranze ancor oggi angosciose («vuoi un uovo?», «nastri gialli»), atti mancati e incubi fantastici, destinati alla condanna della ripetizione.
Un racconto privato in cui - pagina dopo pagina - viene mostrato in maniera sempre più evidente il miracolo di cui la letteratura «frin-frin» è capace: la possibilità di perfezionare-domare le proprie ossessioni con un solo e semplice strumento, la parola scritta.