La straniera
Letteratura italiana
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 4
USA , Basilicata e tanta umanità
Una figlia che racconta di sua madre e suo padre, affetti da sordità, del suo peregrinare dagli Stati Uniti alla Basilicata, e soprattutto è la storia della sua vita. La ragazza che attraverso le problematiche dei genitori sviluppa una notevole sensibilità e capacità di interpretare segni e atteggiamenti. Mi ha colpito molto questo spunto, in cui la protagonista iscritta ad Antropologia culturale si ispira a due autori polacchi
..."La storia di Bronislaw Malinowski e Stanislaw Wirkiewicz lasciò atterriti me i miei compagni di corso, perché conteneva il germe di ogni paura: che per essere geniali si dovesse essere falliti e rigettati, e che la carriera accademica e il successo , qualora fossimo riusciti a ottenerli, sarebbero stati la dimostrazione della nostra mediocrità . Intanto che prendevamo strade diverse, l'eco di quelle prime lezioni ci infestava e agiva dentro di noi come un fantasma"
Particolare
Indicazioni utili
Inadeguata appartenenza
Un libro, quello di Claudia Durastanti, che non è propriamente un'autobiografia, non è esattamente un diario, non è un memoir in senso stretto. É un testo molto originale, scritto come un insieme di frammenti che, stranamente, non appesantiscono la lettura ma al contrario, la accelerano.
Si tratta, semplificando, di riflessioni fatte da una giovane intellettuale che comprendono molte citazioni tratte da libri e da film e che si aprono anche un po' sul privato dell'autrice, narrando alcune vicende della sua famiglia e, in particolare, raccontando la persona, sicuramente fuori dal comune, della madre. Si tratta comunque di una narrazione fatta sempre dall'esterno, dal di fuori, mai dall'interno. Ecco perché sono sospesi tutti i giudizi, tutte le eventuali valutazioni. Sono sospesi anche i sentimenti, le emozioni: è un racconto lucido, letterariamente ben costruito, polverizzato in mille nuclei che alla fine sembrano ricomporsi. Una storia privata quindi altamente rielaborata e filtrata dalla letteratura.
La vicenda biografica di Claudia Durastanti è abbastanza diversa dalla maggior parte delle esistenze, che si srotolano in una serie di circostanze piuttosto comuni e banali. In primo luogo l'autrice è figlia di due genitori sordi, che sono, al di là della disabilità, due veri e propri “personaggi”. La madre soprattutto è una donna molto alternativa, lontana dalle convenzioni. Per come viene presentata sembra davvero la protagonista di un romanzo o di un film. Inoltre l'autrice è nata negli Stati Uniti e all'età di circa sei anni si è ritrovata a vivere invece in uno sperduto paesino della Basilicata. Dalle stelle alle stalle si potrebbe pensare. La parabola dell'emigrante al contrario. Tutto questo concorre a far sperimentare all'autrice una condizione di estraneità e di sradicamento che diventerà però anche la sua maggiore forza.
In conclusione, un testo scritto con intelligenza e maestria. Personalmente questo voluto distacco mentre si raccontano episodi anche drammatici della propria vita non mi ha particolarmente entusiasmato. Forse avrei preferito un testo di fiction dove potermi immedesimare e dove poter scavare insieme ai personaggi fra i sentimenti e le emozioni che la vita ci mette di fronte, più che leggere una serie di distaccate riflessioni scritte con un'ottima prosa. Ma questa è soltanto la mia opinione.
Indicazioni utili
Top 100 Opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
L'estraneità di sè
Se la riconoscenza è la memoria del cuore, allora apprezzo questo romanzo che è grato alle storie passate e le illumina con gli occhi adulti da giovane di Claudia Durastanti, scrittrice, traduttrice, saggista e organizzatrice di eventi culturali. Il lavoro svolto dimostra il carattere attivo e volontario della memoria. Il futuro non può solo tenere a bada il passato che ringhia se rimane rinchiuso; le tracce recuperate attraverso i ricordi muovono il pensiero e la capacità di giudizio.
Leggendo il romanzo “La straniera” consento agli sguardi, alle parole, al sapore, agli odori dei diversi luoghi di attraversarmi. Da lettrice, recuperando le conoscenze passate, consegnate all’intelligenza e al cuore, amplio la consapevolezza del vissuto presente. Aggiungere prospettive e chiavi di lettura è l’esercizio della responsabilità e della libertà.
Carver definisce l’autobiografia come la storia dei poveri. Ma un’autobiografia non si scrive a 35 anni. L’autrice realizza un’opera che è diario e romanzo assieme in cui, non vincendo la cronologia, come in un puzzle ben assemblato, la dispersione diviene man mano unità. Il racconto non prevede l’analisi psicologica del profondo, non è sublimazione, ma è presa in carico della realtà. Non catarsi, ma appropriazione. Non denudamento, ma scelta letteraria descrittiva.
Penso ad una pratica psicologica della estraneità per garantire l’appartenenza a me stessa mentre cambio continuamente. Sentirmi estranea rimanda al dolore necessario dell’intimità che consente, in seguito, l’ironia. La precarietà, l’instabilità, l’ombra, l’errore, l’inciampo, la rottura, non sono il male, semmai rappresentano la condizione necessaria di migrante, di naufraga, appunto, di estranea, vicina e lontana, dentro e fuori.
Dare senso alla memoria vuol dire offrire significati ai fatti del passato e riconoscere la direzione del desiderio. Coscienza e orientamento, identità ed estraneità non sono poli opposti: l’io siamo noi e ciascuno si va definendo come persona nella relazione che accade. Esiste una lingua tutta intera, impenetrabile e intraducibile e poi ascolto una lingua “tutta rotta”, come nella famiglia di Claudia Durastanti, e scopro la lingua parlata e la lingua dei gesti, non dei segni, la lingua che cura, la lingua dell’esserci come presenze fondanti. L’idea delle radici o delle spore, come afferma la scrittrice, prevede la stanzialità e, anche, la possibilità del nomadismo. Ritrovo il senso del cammino in chiave iniziatica; è andando che si apprende di sé, oltre che dello straniero.
La democrazia mette insieme le diversità e crea una volontà collettiva unica, rendendo la differenza un bene collettivo. La visione democratica non si riduce alla legge della maggioranza: promuovendo la produttività del conflitto, rispetta le minoranze e utilizza in maniera feconda la prospettiva di ognuno. La tessitura delle diversità è un lavoro complesso che presuppone la scelta della pace e del dialogo. L’interdisciplinarità e la contestualizzazione sono necessarie: farsi mondo, come apprendo dal romanzo, nei luoghi e con il prossimo, significa scrivere la storia. L’autonomia si nutre di multiple dipendenze e l’autonomia mentale ha bisogno di dipendere da varie conoscenze ed è da queste basi che è possibile sviluppare un pensiero libero. Una cultura è tale perché integra culture straniere, opera métissage, sintesi.
È evidente nel romanzo il lavoro di ricerca sulla forma e sullo stile, infatti il testo rimane essenzialmente letterario ed esprime l’originalità nella capacità di combinare il diverso. Il libro è strutturato come le voci di un oroscopo, a parte i grandi temi della classe, della diversa abilità e dell’educazione culturale, ritrovo il lavoro, l’amore, la famiglia, i viaggi, la vita raccontata con ironia in Lucania, a Brooklyn, a Londra. Mi è caro questo romanzo perché è così che si fa per diventare adulti, in ogni età, andando indietro e tornando nel presente, capendo e perdonandosi. È il caso di essere gentili, ogni persona ricorda e racconta una storia.
“Tempo fa, l’ecologista Suzanne Simard ha dimostrato che la foresta è un sistema cooperativo e gli alberi “parlano” tra loro per scambiarsi sostanze nutritive o rilasciarle in caso di minaccia: quando scoppia un incendio, gli alberi usano i mycorrhizal fungi nel sottosuolo affinché trasmettano delle sostanze vitali alle specie più giovani attraverso una fitta rete neuronale in modo che le piante più deboli possano andare avanti.” p.34
Indicazioni utili
Gli stranieri che sono in noi...
«Capire perché abbia rinunciato a imporre la sua lingua privata non è difficile per me, che ho avuto paura di parlare ad alta voce per tanto tempo: la lingua dei segni è teatrale e visibile, ti espone in continuazione. Ti rende subito disabile. In assenza di gesti, puoi sembrare solo una ragazza un po’ timida e distratta. Leggendo le labbra degli altri per decifrare cosa stavano dicendo fino a consumarsi gli occhi e i nervi, parlando con la sua voce alta e forte e dagli accenti irregolari, sembrava solo un’immigrata sgrammaticata, una straniera.»
Nata a Brooklyn, nipote di emigrati e rientrata in Basilicata, in un paesino sperduto con poche anime e tante voci sconosciute e incomprensibili all’età di sei anni, Claudia Durastanti ha una doppia anima: una prima radicata nei ricordi d’infanzia oltreoceano, una seconda che identifica nella Lucania il luogo della casa. Ma la sua non è una storia che qui si esaurisce perché i personaggi del padre e della madre che conducono le danze laddove il ritmo narrativo diventa più serrato per di poi lasciare il palco alla ballerina principale laddove il tempo si abbassa, la luce si affievolisce, la cadenza muta, hanno la peculiarità di essere affetti entrambi da sordità. Il loro incontro è avvenuto in modo molto particolare, ma mai uguale. Ciascuno con la sua versione, ciascuno ogni volta con qualche dettaglio in più o in meno, uguale o diverso, di fatto sempre in un rinnovamento del riferito. Gli stessi alternano anche la narrazione, avvicendandosi e così ricostruendo. Ricostruendo una storia d’amore, di dolore, di dispersione, una storia di migrazione, una storia di dissoluzione e con anche qualche riferimento alla criminalità. Queste storie che in prima battuta possono apparire quali tra loro distanti e separate da quella della scrittrice, a seguito dei primi capitoli, vi si fondono e uniscono diventando parte di un’unica verità.
Tra tutti i personaggi introdotti, perno delle vicende è la madre, una donna caotica che si sposta tra continenti e che è avvezza anche alla bottiglia. Il suo incontro con il marito è già dal principio burrascoso e confusionario, dalla loro unione nascono due figli di cui Claudia è la secondogenita preceduta da un primogenito. Segue un divorzio, seguono i rapporti famigliari con la loro laboriosità, con la loro problematicità, con la loro confusione e costernazione, con quelle generazioni che si susseguono senza sconti in quei giorni, minuti, ore e anni che si perpetrano.
«Erano persone divertenti e buone, non particolarmente raffinate, eppure sono stati capaci di un’intuizione fondamentale: loro non ci sarebbero stati per sempre, non avrebbero potuto proteggerla in ogni istante. Mia madre doveva diventare indipendente e lo ha fatto.»
Il risultato è quello di un memoir, di una lunga lettera d’amore, senza pretese, senza aspettative ma capace di parlare con voce forte e altisonante in quella folla costante che è la vita. E parla di dolore, di disagio, di situazioni disturbanti, di vissuto, di esistenza, di quotidianità, di attualità, di politica, di Brexit e parla anche di lingue. Lingue che non sono solo e soltanto quelle parlate. Lingue che non solo soltanto quelle dei gesti. Il risultato è ancora quello di un testo che è capace di rievocare l’opera di Camus, per consentire alla mente di ricercare e di osservare la vita da un esterno che tutto costituisce a discapito di un interno in cui tutto sembra disperso. Per individuare, per acuire una nostalgia, per appagare quella vita, anche inventata, che non sia la nostra ma che possa essere migliore, diversa, altro. Per una vita che troppo spesso ci è banale, per una vita che perdiamo la voglia di raccontare, per le azioni che non compiamo, per quelle parole che non abbiamo detto, perché siamo semplicemente quello che quella situazione ci permette di essere. Non siamo quindi sempre e solo noi, ma siamo quel che ci ha formato, quel che ci ha costruito, quel che ci ha strutturato, quei luoghi che abbiamo visitato, quelle cose che ci circondano, quei talenti che spesso nemmeno pensiamo di avere, quella classe sociale a cui apparteniamo, quelle ricchezze che abbiamo ereditato, quei legami che ci legano, quelle sconfitte che ci hanno piegato, quella dignità che abbiamo ricostruito, quella forza che abbiamo avuto per ricominciare.
Un libro complesso, stratificato, ricco di tanti tanti contenuti e tanti tanti spunti di riflessione è “La straniera” di Claudia Durastanti. Un romanzo che non è un diario ma che è come se lo fosse, un testo frammentario che ricostruisce poco alla volta, che come un puzzle assume la sua forma soltanto nella sua conclusione. Tuttavia, nonostante questa grande forza di contenuti affatto semplice ne è la lettura a causa di uno stile narrativo che talvolta sembra perdersi in se stesso e confondere quel lettore che a più riprese si chiede dove l’autrice voglia arrivare, quale sia la sua morale, quale sia il suo obiettivo. Tecnica narrativa, questa, che è una scelta volontaria finalizzata a dare quell’unica impostazione a quel volume che chiede di essere ascoltato e non solo letto ma che ha quale conseguenza quella di non facilitarne la conoscenza, di annoiare, di sfiancare. Perché per quanto si possa aver da dire, il come lo si dice è un qualcosa di imprescindibile che se non ben architettato rischia di far perdere di interesse, di profondità, di volontà.
Indicazioni utili
- sì
- no
no = per lo stile narrativo che non mi ha convinta lasciandomi preda di molteplici perplessità.