Narrativa italiana Romanzi autobiografici La notte ha la mia voce
 

La notte ha la mia voce La notte ha la mia voce

La notte ha la mia voce

Letteratura italiana

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Alessandra Sarchi racconta un nodo della propria esistenza, affondando con precisione nella sua stessa carne. E rivela il desiderio di vita che, al di là dei limiti del corpo, perdura in ciascuno di noi. Una giovane donna ha perso l'uso delle gambe in seguito a un incidente. Abita un corpo che non le appartiene più e si sente in esilio dal territorio dei sani. Poi incontra la Donnagatto, e il suo modo di guardare se stessa, e gli altri, cambia. La prima cosa che arriva di Giovanna è la voce: argentina, decisa, sensuale. Fa pensare a qualcuno che avanzi sulle miserie quotidiane come un felino. Ecco perché, fin da subito, l'io narrante la battezza Donnagatto, sebbene Giovanna sia paralizzata, proprio come lei. Al contrario di lei, però, rivendica il diritto a desiderare ancora, sfidando l'imperfezione del mondo. La Donnagatto nasconde un segreto, e forse ha trovato una persona cui confessarlo, consegnandole la propria storia. Una storia dove è solo apparente il confine tra la condanna e la grazia.



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La notte ha la mia voce 2019-07-25 14:38:37 Antonella76
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    25 Luglio, 2019
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I confini del corpo...



"Presto ho scoperto di essere morta.
Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti."

Così inizia questo intensissimo viaggio nella testa e nella vita di chi ha dovuto subire una trasformazione radicale, ridisegnare i confini del proprio corpo, accettare una nuova dimensione...reimparare a vivere.
La protagonista di queste pagine (ed anche l'autrice del libro) ha perso, in pochi attimi e in un fosso fangoso, la sua vita così come lei la conosceva, l'uso delle gambe e il controllo del suo corpo.
Avere due gambe che non atterrano mai, non è come volare...è solo mancanza di "presa", non sentire più la consistenza della terra, la sua temperatura, gli stimoli che si ripercuotono fino alla testa.
Avere un corpo intero, ma non sapere più con certezza dove inizia e dove finisce, quali sono i suoi confini...e se non riesci più a capire "dove sta il confine tra ciò che è dentro di te e ciò che è fuori, allora sarà sempre come scavare nell'acqua".
Ed ecco quindi che diventa fondamentale imparare a riconoscersi, a reinventarsi, venendo a patti con le sensazioni perdute: il peso di tua figlia piccola sulle cosce, il piede che si libera del sandalo quando fa troppo caldo, la straordinaria possibilità, sempre troppo sottovalutata, di camminare...

Questo racconto, con la sua scrittura bella, onesta e mai scontata, priva di qualsiasi forma di pietismo o compassione, ci mette con le spalle al muro, ci obbliga a guardare ciò che solitamente ci ostiniamo a non voler vedere (perché tanto certe cose accadono solo agli altri), ci chiede in modo esplicito "ma tu lo sai cosa significa?", "Tu sai cosa si prova a salire su di un treno con la carrozzella?", "Ci pensi mai alla frustrazione, alla vergogna, alla rabbia di chi si ritrova in una condizione tale?"
Noi (i bipedi camminanti) non sappiamo, e continueremo a non sapere mai, né chi c'è su quella sedia, né come si sente...
Forse, in fondo in fondo, non lo sanno neanche loro: hanno solo capito, e loro malgrado accettato, che si può vivere anche così, sul confine.
Poi c'è chi cerca di colmare la mancanza circondandosi di tutto ciò che non potrà più essere, sforzandosi di non dimenticare mai, vivendo il sogno del passato attraverso il corpo e le gambe degli altri.
E chi, invece, ha paura di essere sopraffatta dalla nostalgia della vita precedente, chi si rifugia nelle parole, scavandosi nicchie e costruendo reti di sostegno per paura di precipitare.
Perché tanto si cade...

C'è però un luogo, un solo elemento, in cui tutte le differenze vengono azzerate, dove non esiste più peso, forma e consistenza, dove non esistono più confini...l'acqua...esattamente dove tutto è cominciato.
È proprio lì, nell'acqua, dove ogni dissolvenza è possibile, tutto si chiude, anche il libro.

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La notte ha la mia voce 2017-12-07 10:14:48 ornella donna
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    07 Dicembre, 2017
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Una disabilità forte e viva

La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi: un romanzo autobiografico per le schegge di vissuto rintracciabili nel testo e trasfigurate dalla forma letteraria, ma anche romanzo di formazione: il cambio di sguardo per il conflitto tra la libertà del cervello e l’immobilità delle gambe. Un’anonima protagonista deve re-imparare a vivere con un corpo diverso, estraneo, un corpo che dopo un incidente deve riconoscersi. E’ la rappresentazione letteraria della semiparalisi, una situazione che comporta una verifica dei parametri umani su un piano personale e sociale, una rieducazione corporea spersonalizzata che impone un nuovo modo di esistere.
“La memoria dell’esperienza di tutti gli anni in cui ho camminato si ribella, rinfaccia e desidera la terra della mia infanzia, quando la vedevo rivoltare nei campi dove seguivo il lavoro dei nonni …. Non credevo si potesse avere così tanta brama del fango, della polvere, della terra.”
Un romanzo durissimo e diretto indaga la complessità e la tragedia del corpo ricorrendo ad un linguaggio scientifico e alla presenza di riferimenti altri, rispetto a quelli letterari. La storia del singolo diviene storia collettiva: si parla infatti di un grande tema antropologico, il confine tra un corpo sano e uno malato. Il corpo offeso sta alla base del processo percettivo e si interroga sulla possibilità e sui modi di rapportarsi al mondo, è una sonda conoscitiva che esplora il sé e l’altro. Non induge mai al pietismo, la protagonista, trascinata dal vento, non si è mai arresa e il suo viaggio viene scandito dalla forza dei tre elementi, la terra, l’aria, l’acqua. E’ anche la storia di una amicizia, quella con Giovanna, la Donna-gatto (anche lei disabile), che immerge la protagonista in un mondo diverso, notturno, forse distorto ma ardente di desideri:
“La sete di infinito che è nei corpi, quella che mi ostinavo a dimenticare”.
La vita dei giorni sulla sedia a rotelle:
“la rabbia nello stomaco, le scarpe buttate via in fretta, i neuroni specchio che ti fanno danzare mentalmente se guardi qualcuno danzare”.
Il romanzo mostra una verità non addolcita, non poetica, non consolante ma viva, forte, seria, precisa. Nel finale, il corpo è congedato con l’immersione nell’acqua, l’elemento dove tutto ha avuto inizio, una visione panica purificatrice. L’abilità della scrittrice è quella del pensiero, la mobilità è quella della speranza.

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La notte ha la mia voce 2017-07-01 14:00:29 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Luglio, 2017
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L'incontro..

«Sono tragedie terribili e penose, ma in genere capitano agli altri. Le guardiamo come tragedie individuali che suscitano gesti di solidarietà o scaramanzia – le carezze alla bambina che non parla eppure sorride se la tocchi, un fazzoletto al naso per non sentire un certo olezzo di deodorante e urina – ma rimangono questioni private»

Un incidente. Una notte, un’operazione di tante, troppe, ore, una vita che inesorabilmente cambia. Di prospettiva, di sostanza. Perché da quel momento, ella non è più la stessa. Non può materialmente e propriamente esserlo. Da quel momento le sue gambe cessano di essere il contatto col mondo; ospedali, rianimazione, il Dottor G, il suo midollo, le sue ossa, la fisioterapia, diventano costanti insieme a quel senso inarrestabile di perdizione.
Perché da quell’attimo, chi è lei. Dov’è finita la donna che sino ai trent’anni, data del sinistro, conosceva? Nostalgia. Di chi? Di sé stessa. Malinconia? Si, di quel che aveva e che più non ha. Paura. Paura di quel che è diventata. Morta. Semplicemente deceduta. Una sensazione tangibile con mano nei giorni di degenza e di cura, una sensazione palpabile in quell’animo che ogni dì è chiamato a fare i conti con sé medesimo e con il mondo circostante. Il tutto si insinua ed intercala in quella che era la sua esistenza, una realtà caratterizzata da un compagno, da una figlia, da una presunta normalità.
Essenziale l’incontro con Giovanna, la c.d. Donnagatto per le abilità quasi feline nonché per il suo esser capace di apparire e sparire silenziosamente come i medesimi. E’ a questa figura, a cui è stata amputata una gamba e a cui è impossibile muovere l’altra, che si deve l’educazione al mondo della disabilità, è all’energia, la volontà, la testardaggine ma anche alla sfiducia, all’avvilimento che costituisce il suo secondo volto, che costituisce e rappresenta la sua preferenza alla morte piuttosto che alla condizione di diversità in cui è radicata, che si deve la crescita e la maturazione della protagonista. E’ a questa che si deve il suo continuare a scrivere: perché scrivere, è un marchio. Non può farne a meno, eppure non si aspetta il successo. Non si aspetta di essere letta, non si aspetta riscontro alcuno, da alcuno.
Con “La notte ha la mia voce”, Alessandra Sarchi, affronta una delle problematiche più complesse e più lasciate a sé stesse: quella della disabilità. Questa, è infatti, una condizione che siamo abituati a riconoscere negli altri, ad indentificare come un qualcosa che non ci appartiene direttamente e a cui dunque, soventemente, ci relazioniamo con un filtro, come se innanzi a noi sussistesse un vetro che ci colloca dall’altro lato della barricata. Certo, non per tutti è così, vi è anche chi conosce direttamente della stessa, chi negli anni vive e cresce con persone malate, chi è indotto dalle circostanze a venire a contatto diretto con queste dimensioni, di fatto, però, esse sono percepite dalla maggioranza, per una ragione o un’altra, con distacco.
L’autrice parte col raccontarci quello che significa dover cambiare radicalmente la propria prospettiva di guardare e vivere il mondo dal semplice e mero dover scrutare l’interlocutore dal basso verso l’alto e non direttamente negli occhi, con sguardo paritario, racconta cosa significa dover abbandonare quei vezzi femminili quali le calze di seta trasparenti, o ancora i tacchi, perché la circolazione delle proprie gambe non ne consente più l’utilizzo, racconta l’ansia dell’attesa di ogni visita, di ogni sintomo che al manifestarsi è un presagio o motivo di preoccupazione, ed ancora descrive quel senso di impotenza che attanaglia, quel dolore intimo e costante che ci piega ma non ci spezza. Perché Alessandra è stata trascinata dal vento, ma ad esso non si è arresa. Ha tirato avanti.

«Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti senza cedere alla tentazione di voltarsi indietro. Tentazione che prima o poi arriva.»

E ci descrive ancora la brama di quella polvere sotto i talloni, di quella voglia di alzarsi sulle punte, di rivivere un “en dehors” o un “en dedans”, di compiere quei gesti sinonimo di indipendenza e di esistenza.
E ci descrive ancora il rapporto con Giovanna, un legame accuratamente delineato ma che mai si sovrappone al contesto. Con le sue parole fa sì che le due donne si confrontino tra loro, che percorrano un “pezzo di strada” insieme e poi, come l’incontro ha avuto luogo, fa sì che il medesimo abbia fine e che ciascuna strada riprenda il proprio corso.
Il tutto è un viaggio scandito dalla forza di tre elementi; “La terra”, “L’aria” e “L’acqua”, elemento in cui la gabbia del corpo, viene meno. Il tutto è avvalorato da una penna erudita, dura, diretta, che nulla risparmia al lettore in ogni suo frangente.

«Li era iniziato il distacco da me. Se scavi e dividi la neve, sotto puoi scoprire il nero che agglutina. Retrocedi per gradi fino allo zero di te stesso, separi le sillabe, scomponi il suono dal significato e ti senti quello che sei: un estraneo sempre, calato in un insieme di membra che non hai scelto, anche se ti hanno detto che quel corpo è tuo e devi averne cura, calato in un nome che non ti rappresenta, ma al quale aderisci per inerzia burocratica e consuetudine fonetica: così ti ha sempre chiamato tua madre, e dopo di lei tutti. »

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