La città interiore
Letteratura italiana
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Un labirinto
Romanzo di formazione che ci offre una sequenza di scatti sulla vita di un popolo di confine. Purtroppo la lettura è stata però per me molto faticosa, perché l’ho trovato davvero molto lento, quasi informe, decisamente noioso, nonostante gli intermezzi del dialetto friulano che davano un attimo di brio in quella che per me è stata una vera calma piatta. Peccato perché Trieste è una città molto signorile, fiera, orgogliosa. Una città molto meno labirintica di questo romanzo, che forse però è tortuoso anche perché ognuno di noi non arriva ad essere quello che è correndo su un’autostrada, ma attraverso tanti sentieri, svolte, inversioni. Non sono però state pagine di quelle in cui è bello perdersi.
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La storia nello spazio di una vita
Ogni individuo è legato al luogo, ai luoghi e all’ ambiente da cui proviene, in cui cresce e forma il suo carattere. Il luogo e l’ambiente sono la sua città interiore. Non importa quanto grande essa sia, la sua dimensione coinciderà con la sua storia.
Ogni individuo, dunque, ha in sé un bagaglio culturale ereditato suo malgrado, destinato a condizionare, almeno in parte, le sue scelte. In questo nostro paese così vario nella sua composizione regionalistica, con il nostro frequente migrare da un luogo a un altro in cerca di una stabilità materiale che possa trasformarsi in stabilità interiore, assistiamo a un inevitabile incontro/scontro di culture che non sempre riescono ad amalgamarsi.
I dialetti, nella loro unicità espressiva, sono certamente patrimonio da difendere e coltivare e frequenti sono, a questo proposito, le espressioni dialettali che Mauro Covacich inserisce nel suo ultimo libro, una sorta di biografia, più che un romanzo, un excursus della storia della città di Trieste, vista attraverso gli occhi dell’autore/protagonista, che racconta le vicende travagliate della sua città dai primi del novecento ai giorni nostri. Tanti sono i personaggi celebri citati: su alcuni l’autore si sofferma a lungo, ne descrive la vita nel periodo trascorso a Trieste, come nel caso di Joyce, di Svevo, di Bibalo. Si sofferma sulle condizioni di vita della città durante il fascismo, le lotte partigiane, la persecuzione degli oppositori al regime, cita la vergogna della Risiera trasformata in lager, e accenna a questo proposito al bel libro di Claudio Magris “Non luogo a procedere”. E proprio Magris è tra i molti intellettuali di rilievo che vengono ricordati nel romanzo, come Svevo e Saba. Ne deriva un’immagine di una città di grande spessore culturale, vittima delle alterne vicende storiche che l’hanno ora esaltata ora mortificata. La narrazione di Covacich soffre purtroppo di una certa disorganicità, non tanto per i salti temporali frequenti, ma per la difficoltà che il lettore può talora incontrare a collegare gli eventi in un filo logico che possa restituire un insieme armonico e coerente. Ciò a scapito dell’originale presupposto di dimostrare che ciascun individuo è e si identifica con la storia dei suoi luoghi, che divengono e sono la sua città interiore.
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In cerca dell'identità sconosciuta.
Mauro Covacich, nel gennaio 2017, pubblica La città interiore. Lui è nato a Trieste nel 1965, e in questo testo assume il difficile compito di “testimone” della memoria, conseguenza diretta della sua nascita in una terra i cui conflitti hanno aperto le porte alla grande cultura,a personaggi che assurgono a “mito” più che alla loro appartenenza ad un cenacolo letterario. Saba, Svevo, Slataper, Tomizza, Pahor: ci sono tutti. Sono scrittori di confine che esprimono in sé “quell’essere altro” da un’italianità provinciale, perché la Storia è passata sulle loro geografie ampliando e destituendo la memoria. E tali sono rimasti. Paiono quasi nobili narratori che vagano smarriti tra dialetti e mescolanze di razze, scolpiti nel tempo come testimoni indefessi.
La città interiore è una ricerca memoriale, un romanzo di formazione, ma è il libro sulla “sua Trieste”. Città limpida, viva nelle onde, ventosa, dove gli echi della cultura mitteleuropea si scontrano con le radici di una appartenenza divenuta, anche, odio etnico, guerra, fratricidio. Si inizia con un bambino di sette anni che attraversa Trieste, appena liberata nel 1945, portando una sedia sulla testa. Si continua, poi, con quello stesso bambino divenuto ormai adulto e padre, che nel 1972, accompagna suo figlio a contemplare la città dall’alto. Quel bambino, anche lui di sette anni, è Mauro Covacich che da adulto si sofferma a meditare sulle proprie radici, recuperando il tracciato morale e culturale della sua stessa famiglia.
E’ un percorso d’amore per una città, la sua città Trieste, compiuto da uno scrittore che ancora si affanna a comprendere, scavando a fondo, perché, come diceva Quarantotti Gambini:
“il tempo fa crescere tutto ciò che non distrugge.”
Un libro patito, importante, ricco di questioni irrisolte con la Storia con la S maiuscola, scritto con una prosa elegante, precisa, profonda, colta. Un libro sulla memoria, che guarda con uno sguardo disinteressato ma sofferto ai tanti enigmi irrisolti dei popoli “di confine.” Perché anche quando si trova casa nella scrittura, perché l’idioma con cui si scrive:
“è lì a rammentarti che non sei a casa tua. E’ un disagio di cui però puoi fare tesoro. Vivere la sensazione vaga e persistente di essere un intruso nel proprio cervello.”.